Telegiornaliste anno XX N.
12 (759) del
27 marzo 2024
Mary
Tota, sono soldato semplice
di
Giuseppe Bosso
Dalla radio alla tv, da
Telerama
a
Tagadà, incontriamo
Mary Tota.
Com’è arrivata nel team di Tagadà e quali sono i servizi o le
interviste a cui è più legate in questa sua esperienza alla trasmissione
condotta da
Tiziana Panella?
«A
Tagadà ci sono arrivata grazie alla stima di un collega,
pugliese come me. Sapeva che la produzione era alla ricerca di un
giornalista videomaker che potesse realizzare servizi giornalistici
dalla Puglia e ha fatto il mio nome. Un atto di “colleganza” e stima che
ricorderò sempre con grande gratitudine. I servizi che ho realizzato
sono tanti e tutti su tematiche importanti. Ma ce n'è uno che più di
tutti, porto dentro. Durante la seconda ondata di covid in Puglia, dalla
mia finestra vedevo volare gli elicotteri. Di continuo. Notte e giorno.
Erano i pazienti covid, gravissimi, che venivano portati dalle province
a nord della Puglia, alle strutture del Salento che avevano ancora
qualche posto letto in terapia intensiva. Decidemmo di raccontare quei
voli della speranza. Fu un giorno profondamente angosciante. Perché il
telefono dei medici dell'elisoccorso squillava di continuo e i pazienti
arrivavano all'eliporto, intubati, in capsule trasparenti per non
mettere a rischio i sanitari. E quando eravamo lì, sul posto e vedevamo
decollare quegli elicotteri, pensavo alle famiglie che rimanevano a
terra, a 300 km di distanza dal loro caro, senza sapere nulla per ore.
Ecco, io di quei momenti ricordo gli occhi del medico che volava di
continuo trasportando pazienti, perché gli occhi erano l'unica cosa
visibile sotto le tute di biocontenimento. E ricordo un paziente, in
particolare. Seguimmo con l'auto l'elicottero in volo da Foggia a
Brindisi. Mi chiedo se ce l'ha fatta. Se ha potuto riabbracciare la sua
famiglia».
Non solo giornalista nel suo percorso che è partito dagli studi di
biologia e che oggi si caratterizza soprattutto per un grande impegno
sociale come interprete lis e volontaria di clownterapia: cosa ci può
dire di questi aspetti della sua vita?
«Sono diventata interprete di Lingua dei Segni perché mi sono resa
conto, ad un certo punto, che l'informazione italiana non è accessibile
a tutti. Nonostante sia un diritto sancito dalla nostra Costituzione e
sia previsto, espressamente, dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui
diritti delle persone con disabilità, che l'Italia – ci tengo a
ricordarlo – ha ratificato nel 2009. Le persone sorde sono cittadini
italiani a cui questo diritto è negato. Perché le edizioni dei
telegiornali in Lingua dei Segni sono ancora troppo poche. Ecco, mi
sentivo, nel mio piccolo di voler fare la mia parte. Una goccia nel
mare, ma da qualche parte questo mare dobbiamo iniziare a riempirlo. La
clownterapia è, invece, parte di un percorso da volontaria che ho sempre
fatto. Da adolescente prestavo servizio in un centro anziani vicino
casa, a Corato. Mi piaceva trascorrere con le persone anziane il momento
del pranzo o della cena, per compagnia o aiutare per quel che serviva.
Oggi, impegni permettendo, continuo questo impegno nella clownterapia
con la Federazione Vip Italia che prevede una formazione continua dei
volontari, a significare l'impegno e la serietà che bisogna mettere
anche e soprattutto nel volontariato».
A La 7 da un’importante palestra dell’emittenza locale pugliese come
Telerama: un contesto territoriale rispetto a un network nazionale
rappresenta un vantaggio in termini di maggiore vicinanza alla
popolazione?
«A Telerama lavoro ancora, con la passione del primo giorno. Qui ho
imparato tutto quello che so. Telerama è sempre stata ed è ancora, una
tv locale coraggiosa, creativa, vivace. Ha formato generazioni di
giornalisti che si sono distinti nel panorama nazionale. Ne cito solo
due, ma sono tantissimi di più: Mauro Giliberti, attuale giornalista di
Porta a Porta e Danilo Lupo, ora nella squadra di
PiazzaPulita.
Telerama mi ha insegnato ad avere un approccio curioso, critico, a non
accontentarmi mai della prima spiegazione possibile. Ma ad andare a
cercare, scavare, ad essere curiosa. Ed è questa la bellezza della tv
locale nel modello Telerama: qui sei a contatto con la gente, sempre. La
ascolti, dai voce anche alle esigenze che sembrano piccole ma piccole
non sono. Perché la voce di uno è la voce di tanti. E tutte devono avere
la stessa dignità e la stessa forza. Ed è così che impari a conoscere il
territorio, le istituzioni e conservi una memoria storica
importantissima».
Dopo tanti anni da inviata si sente ancora una ‘ragazza con la
valigia’ o avrebbe voglia di sperimentare una nuova esperienza in un
contesto, magari, di studio?
«Sono soldato semplice, voglio vivere sino all'ultimo dei miei giorni
lavorativi da soldato semplice. Con le scarpe rotte e le suole
consumate. È l'unica aspirazione che ho: restare per strada. A consumare
suole».
Ha preso parte al ‘gabinetto’ della sua conterranea
Valeria De Vitis, che è anche una sua cara amica: fare informazione,
oggi, passa anche attraverso questi esperimenti, diciamo, ‘poco
convenzionali’?
«Beh, l'informazione è carta stampata, è tv. Ma ormai non può ignorare i
social e tutti i nuovi format che nascono sui social. È necessario
mantenere un presidio importantissimo sia nel cartaceo che nelle tv,
guai a farne a meno, perderemmo tutti. Ma serve anche lanciarsi in mondo
cross-mediale. E con Valeria De Vitis mi riesce anche molto facile,
visto che in radio abbiamo trascorso tante ore insieme, conducendo un
programma in coppia. Non possiamo non continuare ad entrare l'una nella
vita lavorativa dell'altra, ogni tanto. Ma a parte questo, è necessario
che anche l'informazione segua i tempi che cambiano. Ma lo ripeto, mai
lasciando la carta stampata e la televisione».
Un giornalista capace di calarsi nelle sofferenze degli altri è un
vero giornalista?
«Non lo so. L'unica cosa che so è che io non so farlo in nessun altro
modo che non sia questo».