Diana
Lama, dietro Valeria Galante
di
Giuseppe Bosso
Dopo il grande successo di
La casa delle sirene, edizioni Mondadori,
arriva
La casa della colpa il secondo capitolo delle
vicende della famiglia Morelli, sullo sfondo di un percorso
storico che inizia a ridosso dell’Unità d’Italia per
attraversare il passaggio al Novecento, l’avvento del fascismo e
le due guerre mondiali in una Napoli alle prese con infinite
problematiche. Ma a lungo, per un anno, i lettori si sono
chiesti chi fosse l’autrice, Valeria Galante. E lo scopriamo
incontrando nuovamente
Diana Lama.
Bentrovata Diana, anzitutto chi è Valeria Galante e com’è
nata questa idea che ha coinvolto te e tuo fratello Diego?
«Siamo appunto noi dietro Valeria Galante, Diana e Diego Lama,
due fratelli che scrivono, con modi e stili diversi.
Confrontandoci e parlando di storie della nostra famiglia, che
ci avevano raccontato durante l’infanzia, è nata questa idea di
provare a elaborare qualcosa sulla base di quei ricordi, e
all’editore l’idea è piaciuta».
Uscire allo scoperto dopo il grande successo di La casa delle
sirene cosa ha comportato per voi?
«Anzitutto vorrei spiegare il “perché” di questa idea di
scrivere dietro uno pseudonimo, mio antico sfizio che ho voluto
finalmente soddisfare, anche se gli editori tendono a non
apprezzare. Anche Diego si è divertito all’idea, ma abbiamo
anzitutto dovuto considerare il fatto che essendo entrambi
legati a generi specifici questa iniziativa avrebbe potuto
spiazzare i nostri lettori, o suscitare pregiudizi da chi non
potrebbe concepire come due scrittori di gialli si possano
cimentare in un racconto storico su una saga familiare. La
finale del Premio Bancarella la scorsa estate è stata qualcosa
di inaspettato, il successo del primo libro travolgente e a quel
punto non abbiamo avuto altra scelta che uscire allo scoperto,
proprio in considerazione del fatto che le premiazioni e le
presentazioni non potevano svolgersi senza la presenza fisica di
quell’autrice che ovviamente non esisteva in quanto Valeria
Galante».
Quanto c’è di autobiografico in questi due libri, una storia
che parte da una tragedia familiare nelle prime pagine?
«I riferimenti alla nostra famiglia ci sono ma molto mascherati.
Almeno due episodi sono realmente accaduti o comunque li abbiamo
rappresentati per come ci sono stati raccontati. Il resto è
comunque stato in parte adattato, in parte ispirato da altre
vicende legate ad altri rami della nostra famiglia. Ma la cosa
più importante è che noi tenevamo a raccontare una storia di
donne e di evoluzione della figura femminile in quella Napoli
borghese di seconda metà Ottocento/inizio Novecento».
Metaforicamente possiamo dire che questa lettura che si snoda
attraverso il racconto di più generazioni è anche una
rappresentazione di come tante illusioni legate all’unità
d’Italia, all’inizio del ventesimo secolo e al regime fascista
sono venute a cadere, in particolare parlando di Napoli?
«Sì proprio perché l’evoluzione di quella Napoli con il suo
stile architettonico e la sua società segue di pari passo quella
del destino di queste donne, legato appunto ad illusioni:
illusioni di amore, illusioni di innalzamento sociale, di
libertà… donne che acquisiscono la consapevolezza di dover
combattere ed essere in qualche modo artefici del loro destino».
Importante è anche la presenza di personaggi o figure che pur
non essendo presenti attivamente rappresentano i cosiddetti
‘convitati di pietra’, e parlo di Teresa per il primo libro e di
un gatto per il secondo. Superstizioni popolari o reale
influenza di questi eventi tragici?
«Anche qui ci siamo divertiti ad alternare racconti familiari e
invenzione di nostra marca, con un omaggio a Edgar Allan Poe che
qualcuno potrà cogliere. Ma non diamo una risposta definitiva.
Ci è piaciuto giocare con il mistero».
Nelle recensioni che ho visionato molti lettori vi hanno
contestato una eccessiva negatività riscontrabile tanto nei
personaggi maschili quanto in quelli femminili, che alla meno
peggio sono definiti deboli nell’accettare con rassegnazione un
destino già segnato: cosa rispondi a questi lettori?
«Ho letto alcune recensioni e quelle negative sono utilissime se
ti fanno cogliere dei punti che potrebbero esserti sfuggiti. Un
paio invece le ho trovate alquanto ingiustificate perché non mi
hanno dato l’impressione di aver capito realmente cosa avevamo
raccontato. I personaggi negativi, come dici, abbiamo cercato di
renderli reali, parliamo sempre di un’epoca in cui una donna non
aveva alcun diritto, dalla possibilità di disporre del suo
patrimonio al poter scegliere chi sposare, spesso sottoposta a
violenze fisiche o psicologiche, condizione che prescindeva dal
rango sociale, fosse anche elevato come quello di una famiglia
della buona borghesia come quella da noi raccontata. E lo
potrete leggere sia attraverso un personaggio maschile, molto
negativo ma che io amo tantissimo, e uno che è il suo esatto
opposto».
Dal punto di vista narrativo avete operato una suddivisione
in blocchi, per così dire, in cui il lettore vive per così dire
la storia dal punto di vista d ciascuna delle protagoniste, ma
sempre in terza persona: è anche questo cha caratterizza un
romanzo storico più che un romanzo dove un lettore spinto dalla
emotività può essere portato a ‘tifare’, per così dire, per i
personaggi piuttosto che valutare le loro vicende?
«Non amo particolarmente la narrazione in prima persona, per
quanto non manchino esempi bellissimi; ma preferisco la terza
persona perché consente di concentrarsi meglio sulla storia. La
cosa che più ci è piaciuta è essere riusciti a far andare spesso
questi personaggi oltre il loro periodo, in modo da consentire
al lettore di avere di loro una visione attraverso più
prospettive, come una triangolazione che conferisce veridicità
al racconto proprio per le più interpretazioni».
La storia è articolata cronologicamente anno doppo anno, ma
con frequenti salti temporali: non è una tecnica che rischia di
peccare dal punto di vista della coerenza e della linearità
dell’esposizione?
«Abbiamo cercato proprio da questo punto di vista di articolare
i 50 anni del primo libro e i 45 del secondo con una scansione
che prevedesse in coda ad ogni capitolo un colpo di scena, un
evento fondamentale per gli sviluppi successivi. Siamo partiti
del presupposto che ogni famiglia in ogni anno deve affrontare
una serie di eventi, siano positivi o negativi, in modo da
fotografare quei determinati momenti in relazione a quelli della
storia».
Elvira Morelli, protagonista principale del primo libro, è
sicuramente il personaggio più complesso, che certamente non
potrà apparire al lettore come la classica ‘eroina in lotta
contro il mondo’, ma anzi come colei che finisce per diventare a
sua volta parte di quel mondo che l’aveva plasmata, è così?
«Qualcuno potrebbe vederla così, a me piace considerare Elvira
anzitutto una combattente, a tratti ambigua, anche crudele, che
nella migliore delle ipotesi chiude un occhio quando non è essa
stessa a spingere gli eventi perché prendano la piega da lei
desiderata. Ma fondamentalmente è una donna che ragiona con il
metro della sua epoca, non diversamente dalle altre donne
dell’epoca che erano principalmente orientate a trovare un buon
partito da sposare».
Senza fare spoiler posso dire che ho particolarmente amato il
percorso interiore che caratterizza, nella parte finale, uno dei
vostri personaggi che passa, negli anni del fascismo, da una
piena e incondizionata fiducia nel regime e in Mussolini a una
totale repulsione quando consapevolmente capisce che quella
strada porterà l’Italia e anche la vita sua e della sua famiglia
nel baratro: anche una lettura politica, se vogliamo?
«Storica direi, piuttosto, descrivendo la realtà di persone che
in quell’atmosfera facevano la scelta più facile per
convenienza, ma molti altri, immersi in quel clima finivano per
abbracciare quella figura che si proponeva come ‘salvatore’ e
risolutore, aderendo al regime con loro convinzione senza
rendersi conto di quello che era realmente, perché sprovvisti di
punti di riferimento per poter fare una obiettiva valutazione.
Ma sono anche le persone che a un certo punto hanno saputo
aprire gli occhi e vedere in modo diverso quella realtà».
La gastronomia e la moda dell’epoca sono un dato ricorrente
del libro: scelta casuale o da voi ponderata?
«Abbiamo fatto una ricostruzione storica accurata sulla base di
ricerche, documentandoci e studiando molto questi aspetti, sui
quali non abbiamo potuto contare su ricordi o lasciti di
famiglia. Se riesci a sviluppare un contesto plausibile e
verosimile, poi ti puoi anche concedere qualche ‘licenza’ che
non dovrà intaccare quella base».
È una storia che si è esaurita o avete in mente di proseguire
il racconto, giungendo a ridosso dei giorni nostri?
«Sì, la Mondadori ci ha chiesto di proseguire, e siamo all’opera
per il terzo capitolo che si concluderà verosimilmente attorno
al 1990, per chiudere questa trilogia».
Sono passati undici anni dal nostro primo incontro, avvenuto
nel 2013, in cui avevamo parlato de L’anatomista: com’è cambiata
da allora Diana Lama?
«Per certi versi tanto, per altri sono tale e quale. Mi sono
divertita nel cimentarmi in un nuovo stile ma le mie radici sono
di quel genere; si cambia, sperando di migliorarsi anche
umanamente».