Anna
Vera Viva, straordinario talento
di
Antonia Del Sambro
Scrittrice, sceneggiatrice, ideatrice di docufilm, artista colta
e sofisticata e napoletana di adozione dal 1982,
Anna Vera
Viva è la voce più elegante e insieme verista della
nostra narrativa di genere. Nei suoi lavori letterari si respira
l’esistenza autentica di questo tempo e del fluire della Storia
e il suo linguaggio è colto e ugualmente semplice e immediato
per arrivare a tutti. Ne
L’Artiglio del Tempo, suo ultimo
lavoro letterario, questa sua straordinaria capacità di
scrittura per immagini viene fuori più intensa e luminosa e così
per parlare di questo suo bellissimo romanzo e della sua vita di
scrittrice abbiamo deciso di intervista per tutte le lettrici
del nostro giornale e farci raccontare tutto da lei. Buona
lettura!
Anna Vera, innanzitutto benvenuta sul nostro giornale e
grazie per aver accettato la nostra intervista. Tra le voci
della narrativa italiana e della narrativa napoletana la tua è
ormai una delle più apprezzate e amate. E proprio di Napoli e
della sua storia recente e passata parla il tuo libro. Quanta
ispirazione ricevi dalla tua città e quante storie ancora
avresti da raccontare?
«Grazie a voi per avermi accolta tra le vostre pagine e per
avermi dato la possibilità di parlare della mia città. Napoli è
continuamente fonte d’ispirazione e non soltanto per me. In
tutte le epoche chiunque abbia avuto a che fare con l’arte, che
fosse essa scritta, dipinta o cantata, ha sentito la necessità
almeno di passarci se non, addirittura, di fermarsi e qualche
volta per sempre. Questa città è uno di quei luoghi fertili per
l’immaginazione di chiunque e questo dipende forse da fatto che
possiede un patrimonio talmente ricco e variegato: storico,
artistico, musicale, architettonico, lessicale, paesaggistico,
culinario, che è una cornucopia piena di infiniti stimoli.
Quindi anche le storie che possono nascere da tutto ciò sono
infinite».
Ne L’Artiglio del Tempo il personaggio di padre
Raffaele a cui hai dato vita e forma già nel tuo lavoro
precedente torna proprio a Napoli e proprio in quel quartiere
tanto difficile quanto affascinante chiamato Sanità. E da qui in
poi la trama e la location sono un tutt’uno con la tua
narrazione. Cosa ti ha emozionato di più mentre stavi scrivendo
e raccontando questa storia?
«Effettivamente un’ambientazione come quella del Rione Sanità,
con le sue singolarità storiche e umane, fa presto a diventare
uno dei personaggi principali del racconto. E sicuramente colora
ogni avvenimento di una tonalità personale e intrigante. Invece,
la parte più affascinante, di tutto il lavoro che c’è stato per
arrivare alla stesura di questo romanzo, è stata quella della
ricerca. Perché, oltre alla ricchezza dei mondi che sono andata
ad indagare c’è tutta una parte di testimonianze raccolte che mi
ha permesso di guardare a quei tempi con gli occhi di chi li
aveva vissuti e di percepire quelle che erano state le emozioni
che avevano provato in quei frangenti».
Una trama ambientata in quartiere napoletano come Sanità è
destinata inevitabilmente a essere una storia corale e quindi ti
chiedo, al di là dei tuoi due straordinari protagonisti,
Raffaele e Assuntina, quale è il personaggio di questo tuo
ultimo romanzo che più ti è rimasto nel cuore? Chi faresti
tornare in un tuo prossimo libro anche solo per un cammeo?
«È sempre triste abbandonare i propri personaggi, perché con
loro si dividono mesi o anni della propria vita. S’impara a
pensare come loro, a immedesimarsi a tal punto da crederli
reali. Quando poi si arriva a ultimare un romanzo, si è
consapevoli che anche a quella simbiosi si è scritta la parola
fine. E questo, a volte, è davvero doloroso. Nel cuore mi sono
restati quelli che, di questo romanzo, sono i rotori principali:
Il vecchio Samuele Serravalle e il piccolo Antonino. Mi è
restato il loro modo di amarsi, quella comprensione profonda e
totale che ognuno di noi vorrebbe provare. Ma non credo che ci
sia la possibilità di farli tornare, purtroppo».
L’Artiglio del Tempo parla di storia e di rivalsa, di
morte e di espiazione e anche quando nella trama arriva un
omicidio vero e proprio anche questo è trattato come punto di
partenza per arrivare a parlare di equità e armistizio o tregua.
Dato quindi che siamo ben oltre il giallo storico tu come lo
definiresti il tuo lavoro?
«Dover per forza incasellare tutto, definirlo, mi è sempre parsa
una forzatura. Perché non abbiamo degli strumenti validi che ci
consentano di farlo e diventa, inevitabilmente, un’operazione di
sottrazione di alcuni aspetti a favore di altri. Dove ci sono
più elementi, ad esempio un’indagine, la storia, la crescita dei
personaggi, l’analisi del territorio e sociologica,
l’approfondimento psicologico, si è costretti, per poter dare
una definizione, a sceglierne solo uno a discapito degli altri.
Perché non c’è un'unica parola che definisca tutto questo. O
meglio, c’è soltanto una che può farlo: Romanzo. Allora, sarebbe
un bene che si usasse solo questa, dividendoli poi in buoni o
cattivi romanzi».
Se dovessi scegliere una sola frase del tuo libro, solo una
tra le tante che hai scritto, quale sceglieresti e perché?
«Scelgo una frase che dice Padre Raffaele a delle scolaresche, e
la scelgo perché la condivido profondamente e perché credo sia
l’unica strada per essere degli uomini liberi.
Chi ha il
compito di educarvi, deve cercare di sviluppare in voi il senso
critico, la coscienza, la liberta di pensiero. È il più grande
dono che può farvi. Perché se, anche in buona fede, vi spinge a
adottare i suoi pensieri, vi convince di cosa secondo lui è
giusto o sbagliato, sta facendo di voi degli schiavi. Oggi delle
sue idee, domani di chiunque altro sia altrettanto bravo a
manipolarvi».