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Telegiornaliste anno V N. 5 (176) del 9 febbraio 2009
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Silvia Autuori, giornalista in continuo movimento
di Giuseppe Bosso
Salernitana, Silvia
Autuori ha iniziato a lavorare al quotidiano Cronache del Mezzogiorno
occupandosi di sport, poi a Lira tv nel settore della cronaca nera. Nel suo
curriculum vanta la carica di direttore dell'emittente TVI e il trasferimento a
Frosinone per lavorare a Tele Universo.
Giornalista itinerante per scelta o necessità?
«Direi un po' tutte e due le cose. Di certo è stata una mia scelta perché da
sempre penso di essere una persona che non riesce a stare ferma in un solo
posto. Ho bisogno di vivere nuove esperienze, di confrontarmi con altre persone.
Da questo punto di vista si potrebbe dire che è anche stata una necessità, ma
era inevitabile. Ho iniziato a lavorare a
Lira tv
trovandomi con colleghi che ritenevano quello il loro punto d’arrivo, mentre per
me era solo un punto di partenza».
Campania, Molise, Lazio: quali differenze hai riscontrato in queste regioni?
«Salerno e la Campania sono casa mia per cui non mi pronuncio. Non è stato
facile, invece, a Venafro, perché mi sono trovata a dover ricominciare tutto
daccapo,a partire dai rapporti con le forze dell’Ordine che a Salerno avevo
consolidato negli anni. Anche dal punto di vista della mentalità chiusa delle
persone non è stato facile, ma con questo non voglio certo dire che non sia
stata un’esperienza interessante, anzi. A Frosinone ho trovato una situazione
diciamo di "limbo", caratterizzata da una grande disponibilità della gente e
grandi possibilità di lavorare con la tecnologia a
Tele
Universo».
Le esperienze più entusiasmanti?
«Ai tempi di Lira tv sono stata per tre giorni al Parlamento Europeo e poi al
Giro d’Italia. Non posso poi dimenticare quando ho seguito, lo scorso anno a
Venafro, con una maratona non stop fino all’una del mattino i risultati delle
elezioni. Ho imbastito in pochi minuti un set televisivo negli studi di TVI,
ricevendo molti complimenti dalla gente».
Il nostro è davvero uno dei mestieri più precari?
«Prima della parentesi a Venafro, non era facile per me trovarmi a confronto con
persone che da mesi non ricevevano lo stipendio. Ma il problema più serio è
stato il non poter trovare lì, come a Lira tv, una figura importante come il mio
maestro Francesco Budetti. A parte questo, innegabilmente la crisi si è fatta
sentire anche nel nostro settore, e si vede dal fatto che molte emittenti si
avvalgono sempre più di collaboratori esterni che di propri redattori. Per
quanto mi riguarda, posso ritenermi molto fortunata, ma lo stesso non può dirsi
per alcuni miei amici che hanno lavorato a La7 e ai quali non è stato rinnovato
il contratto».
Dove vorresti lavorare in futuro: Rai, Mediaset o Sky?
«Più che per una particolare emittente, vorrei diventare corrispondente
dall’estero, da Londra o dalla Spagna. Negli ultimi tempi Antonio Caprarica per
me è stato un vero e proprio mito. Non inviata di guerra, però: non ritengo di
avere le capacità per quel tipo di esperienza. E non mi piace fare interviste
tra la gente, non credo sia il mio campo».
Prima giornalista sportiva, poi di cronaca nera. Ma qual è la tua vera
specialità?
«Mi ritengo abbastanza versatile. Di certo la cronaca nera mi piace molto e l’ho
studiata e approfondita negli anni. Lo sport, e la pallavolo in particolare non
la dimentico. E poi a Venafro ho imparato, contrariamente a quanto avevo pensato
fino a quel momento, a seguire la politica con grande interesse».
Come mai, secondo te, c’è tanto interesse per le tragiche storie di cronaca
nera?
«Penso che dopo quello che è accaduto in America l’11 settembre, si sia creata
nel pubblico una sorta di paura che ha portato, tra le altre cose, a sviluppare
questo forte interesse per episodi tragici come quelli di Cogne e Perugia. Ho
letto e mi sono appassionata ai libri di Carlo Lucarelli, mai efferati però come
queste vicende. Non è certo una cosa positiva tutto questo: basti pensare al
fatto che Amanda Knox è un vero e proprio personaggio, mentre dovrebbe essere
semplicemente guardata come una persona accusata di un delitto». |
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CRONACA IN ROSA Caro cinema... di
Camilla Cortese
In principio era il cinematografo. Negli anni Ottanta
(tale è il principio per chi scrive), quando i genitori portavano i bimbi al
cinema a vedere i film d’animazione di Walt Disney, funzionava così: si
guardavano gli orari degli spettacoli su un quotidiano, si andava al cinema 15
minuti prima dell’inizio e si acquistava il biglietto. Chi prima arrivava,
meglio sedeva.
Tanto semplice e disarmante quanto carico di nostalgia
e di ricordi al sapore di Smarties, gli amabili bottoncini di
cioccolato colorati, quelli nel tubetto cilindrico che non fanno più come una
volta. Il cinema era così, forse un po’
spopolato ma genuino. C’era la maschera con la divisa
inamidata e il banchetto dei pop-corn. Il buio, totale come la magia del
momento, il silenzio, quasi assoluto.
Poi, complice la crisi del settore e la necessità di
combattere la concorrenza della televisione, la grande idea fu quella di
svecchiare l’immagine polverosa del cinematografo abbellendo la confezione e
fornendo servizi inutili. Fu così che, negli anni Novanta, arrivarono
dall’America i cinema multisala che invasero pacificamente la penisola e
attecchirono particolarmente in questo strano e indefinibile decennio ancora in
corso.
Il primo impatto fu bello e multiaccessoriato, proprio come
gli anni Novanta. La poesia fu abilmente contabilizzata, come usano fare gli
amici statunitensi. Non più vecchi teatri riadattati, con quella divisione
classista fra platea e galleria, dall’America la democrazia esportata in formato
sedici noni prendeva forma con enormi sale zeppe di utilissime
lucine-spia.
Non più il misero banchetto dei pop-corn, che fa tanto
caldarroste della vecchia Europa, ma poderosi bar pieni zeppi di ogni ben di
dio, con bicchieri da litro per succulente bevande alla spina e fornetti
zeppi di nachos al formaggio. E nessuno sapeva cosa fossero i nachos.
Che dire poi della maschera? Aria! A casa il nonno
rattrappito vestito come la banda della scuola, in campo giovani baldanzosi!
L’occhio vitreo, l’occhiaia tossica, il capello rasta e la ridicola salopette
non sono ciò che sembrano a noi sprovveduti, no! Sono i baluardi dei super
giovani sottopagati. A noi piacevano tanto i bei bottoni dorati e le nappine, ma
dobbiamo accontentarci di piercing e zotici che nemmeno salutano.
Alla faccia della crisi, il sabato sera azzeccare un film
meno gettonato e di conseguenza meno programmato del genere
Saw: cadaveri a pezzetti & truculente torture, è quasi
un’impresa. Dopo mezzora di coda circondati da adolescenti in visibilio
erotico per l’ultima prodezza di Riccardo Scamarcio (che mai avrà fatto
stavolta, avrà alzato un sopracciglio?), dopo essere stati rapinati della modica
cifra di € 8,00, si riesce ad aggiudicarsi i posti 275 e 276 della sala 1.
A questo punto si può anche abbandonare il cervello in
biglietteria, perché centinaia di sagome di manine e piedini fluorescenti
guidano le masse di pecoroni verso il vero divertimento: venti minuti di
pubblicità e dieci di trailer. Quando finalmente inizia il film, di cui a
stento si ricorda il titolo viste le dodici fatiche di Eracle superate per
arrivarvi, ci si ripromette di non cedere allo spuntino dell’intervallo, mentre
la magia del momento si stempera in un pallido crepuscolo di cellulari
illuminati a scrivere fondamentali SMS. |
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Internet contro Tv di Federica Santoro
Stiamo per dire addio alla nostra vecchia tv? È
quello che vogliono farci credere i produttori delle serie web di successo che,
da qualche tempo, stanno togliendo spazio ai programmi vecchio stile della
nostra tanto amata scatola a colori.
Le web tv sono ormai una realtà affermata,
lo sappiamo bene, e pensare di frenarne lo sviluppo è, oltre che fuori tendenza,
sicuramente molto sciocco vista la mole di investimenti che internet muove ogni
giorno.
Siamo di fronte a una di quelle rivoluzioni
che difficilmente è possibile controllare, e
questo forse è un bene. L’anarchia che regola il web è molto più organizzata di
quanto sembri. Si tratta di regole condivise dagli utenti che spesso non
hanno né una elencazione fissa e né la rigidità tipica di altri mezzi, come
appunto quelli televisivi. La cultura di internet è creatività, che non
sopporta di essere legata da maglie troppo strette.
Da ciò una questione fondamentale che non può
essere trascurata, vista la contaminazione
attuale tra le due tipologie d’espressione.
Imminente è la nascita di una Governance di internet per riuscire a dare
delle regole, dei frame work comuni su cui tutti gli operatori attualmente
coinvolti abbiano il modo di confrontarsi e definire più dettagliatamente
questioni quali la libertà di espressione,
l’economia delle imprese e la sicurezza
informatica.
Dare spazio alla condivisione delle conoscenze è
oggi una necessità che proprio la rete ha suscitato. Occorre misurarsi sulla
questione del diritto d’autore: in questi anni l’impalcatura normativa era
indirizzata a proteggere e preservare, mentre oggi la Creative crea
licenze per chi vuole condividere contenuti a certe condizioni. Fino ad oggi più
di trecento milioni di oggetti sono stati trasformati e condivisi in questo
modo, grazie alle creative commons.
Un dibattito su questi temi è in corso all’Onu:
un comitato tecnico si sta preoccupando di creare una nuova disciplina sulla
circolazione dei contenuti, ma il rischio di una regolamentazione
anticulturale anziché culturale, preoccupa
i puristi del web, per i quali la rete rappresenta il sogno di una
generazione
più libera. |
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CULT Tinto
Brass, il cinema visto dal didietro di
Valeria Scotti
Dici eros, dici
Brass.
Tinto, maestro dell’erotismo, amante instancabile delle donne e del suo lavoro.
Lo abbiamo intervistato.
Ziva è la sua prossima creatura.
«Ziva, l’isola che non c’è è la storia di una guardiana di un faro su un
isolotto al largo delle costa Dalmate, dove attende da due anni il ritorno del
marito dalla guerra. Sola e provata da un sentimento di grande rabbia nei
confronti di questo massacro, raccoglie tre naufraghi, un marinaio veneziano, un
paracadutista inglese e un graduato nazista. Sarà suo interesse amarli e curarli
con sensualità, a patto che smettano di fare la guerra. Il tutto accompagnato
dalle parole e dalle note della canzone Le Déserteur di Boris Vian. In
questo caso è l’erotismo che vince sull’eroismo maschile, quello brutale e
guerriero. Ed è un lavoro sull’intelligenza e la vitalità delle donne. La mia
convinzione è che il mondo o lo prendono in mano loro, o andiamo a puttane».
Protagonista e sua nuova musa è Caterina Varzi.
«Sì, lei è un avvocato psicoanalista. E’ nata una reciproca seduzione durante un
incontro di lavoro. Da psicoanalista junghiana, Caterina cercava quella mia
anima che non so se ho mai avuto o se l’ho venduta tanto tempo fa. Io, da
erotomane incallito, cercavo invece l’eros che traspariva dal suo sguardo, dal
suo comportamento, e che ho paragonato ai riflessi cangianti e mobili della
gibigiana, quell’effetto di luce che si ha a Venezia quando il sole rimbalza
sull’acqua dei canali. In attesa del film, ora in preparazione, con Caterina ho
girato un corto, Hotel Courbet, un omaggio al pittore Gustav Courbet,
autore dell’Origine del mondo. In fondo Picasso diceva che l'arte non è
mai casta e quando è casta vuol dire che non è arte».
Ma il linguaggio dell’erotismo è davvero per tutti?
«Sono convinto che i miei film siano per tutti. Recentemente ho espresso un
desiderio, invitare il ministro Gelmini a rendere obbligatoria la proiezione dei
miei film nelle scuole. Ho una concezione molto giocosa e gioiosa della
sensualità e dell’erotismo, non è un qualcosa di lugubre, cupo, punitivo,
colpevolizzante. Forse, se più giovani vedessero i miei film, non nascerebbero
fenomeni di brutalità e violenza a cui siamo purtroppo abituati».
C’è un campo in cui si trasgredisce di più?
«Oggi c’è bisogno di essere liberi da condizionamenti vari. La vera volgarità
sta nell’ipocrisia che è in tutti i campi, da quello culturale a quello
politico, così come in quello religioso e finanziario. La trasgressione, secondo
me, significa non accettare queste forme di ipocrisia. Io ho cominciato facendo
dei film politici, impegnati, col miraggio di cambiare la società e il mondo.
Poi mi sono accorto che tutto ciò non portava a nulla, al massimo si sostituiva
un potere con un altro. Allora ho rinnegato la fase rivoluzionaria salvando solo
quella sessuale, e da lì mi sono impegnato ad analizzare e studiare l’erotismo».
A tal punto da diventare cultore di una parte del corpo femminile a cui ha
dedicato anche un libro, L’elogio del culo, Tullio Pironti editore. Da
cosa nasce questa coerenza nel corso degli anni?
«Nasce dagli stimoli che mi dà e dalla sua valenza metafisica: il culo non è
come la faccia, una maschera ipocrita che sa fingere e mentire. E il mio libro
esordisce proprio con una tesi, “Il culo è lo specchio dell’anima”, un’antitesi,
“Ognuno è il culo che ha”, e la sintesi, “Mostrami il culo e ti dirò chi sei”».
Si è spesso sentito incompreso, un personaggio scomodo?
«In Italia abbiamo il Vaticano e tanti ostacoli che impediscono una fruizione
serena della sessualità. All’estero ricevo senz’altro una maggiore
considerazione tra omaggi, serate. E i negozi, nel settore del cinema italiano,
espongono quasi solo i miei film. Lì si dà più importanza all’aspetto artistico
e cinematografico. A Parigi, per esempio, la Cinémathèque Française, una specie
di Louvre del cinema, mi ha dedicato un omaggio, Elogio della carne,
proiettando 15 miei film».
Qual è dunque la situazione attuale dell’erotismo in Italia?
«Non è facile, sono rimaste ormai solo due grandi fonti di produzione, la Rai e
la Mediaset. Una volta c’erano un’infinità di produttori, si riuscivano a fare
anche 450 film all’anno».
Eppure continuiamo a vivere in un’epoca in cui tutti spiano tutti…
«Spiare è certamente una delle componenti della sessualità e dell’erotismo.
Anche l’amore è un sentimento che si esprime con il linguaggio dei sensi, e tra
i sensi c’è appunto la vista».
E il potere di Internet?
«Non credo abbia a che fare molto con l’erotismo, semmai con la ricerca di
sessualità in immagini o nelle chat. E io non navigo in rete: ho bisogno di
rapporti che non siano virtuali». |
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DONNE Johanna,
il premier che affascina
di Chiara Casadei
E dopo l’arrivo di Obama alla Casa Bianca, che ha trascinato
con sé entusiasmo e tante nuove speranze, anche in Islanda è il momento di un
grande cambiamento. Dopo Geir Hilmar Haarde, premier islandese, dimessosi a
causa della recente crisi finanziaria che ha portato il paese sull'orlo della
bancarotta, è arrivata lei, Johanna Sigurdardottir, a risollevare la
situazione e il morale dei cittadini.
Donna dalla carriera interessante e varia – nel suo
curriculum risulta anche la professione di hostess – è stata
il ministro più amato dagli islandesi. Perché proprio
lei? Perché affascina, sta dalla parte delle minoranze e soprattutto conosce i
bisogni della gente. Il 73% dei cittadini islandesi, secondo un recente
sondaggio, si dice soddisfatto del suo operato: dal 2007 è stato l’unico
ministro uscente cresciuto in popolarità.
Lei, esponente socialdemocratica, 66 anni, e un divorzio alle
spalle, non è soltanto la prima donna a capo dell’esecutivo in Islanda, bensì
la prima donna – dichiaratamente – lesbica premier al mondo. Ebbene sì, da
ben sette anni ha un legame con la giornalista e scrittrice Jonina Leosdottir.
La sua vita sentimentale non è un ostacolo per la sua carriera, anzi, rende solo
la sua figura ancora più interessante.
Per quanto riguarda i suoi progetti come neopremier ha
annunciato: «Questo esecutivo si baserà su nuovi valori sociali. Per il breve
tempo che saremo in carica, la nostra enfasi sarà sull'assistenza alle aziende e
alle famiglie.
Seguiremo una politica molto prudente e responsabile
nelle questioni economiche e fiscali ma, allo stesso tempo,
daremo priorità ai valori sociali, ai principi dello sviluppo sostenibile, ai
diritti delle donne, all'eguaglianza e alla giustizia». Determinata a lasciare
il segno, Johanna Sigurdardottir ha davanti a sé una bella sfida. |
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TELEGIORNALISTI Ennio Remondino, dalla tv
alle foto segnaletiche
di Erica Savazzi
(seconda parte)
- segue dal numero
175
Continua l’incontro con
Ennio Remondino, al quale non potevamo risparmiare domande di geopolitica.
Con risposte mai banali.
La crisi in Ossezia e Georgia secondo lei è correlata all’indipendenza del
Kosovo?
«Certamente. Eravamo stati avvertiti. Ho provato a raccontarlo in mille
maniere ma “Balcani”, all’orecchio di certi direttori, suona ormai come una
parolaccia. La “ragione” del vincitore ha prodotto il Kosovo etnico. Una bomba
ad orologeria per le realtà multietniche di Bosnia, Macedonia ecc... In Ossezia
non è bastato l’inganno classico del “buono” a priori (la Georgia) e del
“cattivo” costruito a tavolino. Putin non è Milosevic - forse è un cattivo anche
lui ma molto, molto più furbo - e ha il petrolio. Ora, in tutta l’area Caucaso
sono cavoli amari».
Quali conseguenze l'indipendenza del Kosovo può avere sui movimenti
autonomisti europei?
«Se vale la ragione del più forte, come dimostra il Kosovo, sarà la rincorsa a
creare condizioni di forza per poter imporre le proprie aspettative».
Come vede l’allargamento della Ue nei Balcani?
«Quale Unione europea? Quella della Germania che assieme al Vaticano, nel
1991, ha anticipato il riconoscimento della Croazia favorendo il via alla
spartizione territoriale a cannonate? L’Unione degli interessi nazionali
prevalenti e contrapposti? L’Unione che ha come “ministro” degli esteri Xavier
Solana, l’ex segretario Nato che ha dato l’ordine di sganciare le bombe sulla
Jugoslavia? L’Europa la cui politica estera viene decisa dai vertici militari
dall’Alleanza Atlantica? L’Europa come seconda scelta dopo l’ammissione alla
Nato (La Polonia dei gemelli Kacisnski, ad esempio) o l’Europa che dopo la
catastrofe Bush tenta di rendersi autonoma e alternativa?
L’attuale Unione coi vincoli di unanimità può al massimo sopravvivere, senza
andare da nessuna parte. L’Europa che speriamo, potrebbe essere l’occasione per
superare i dieci anni di macelleria balcanica. Peccato si sia inventato il
Kosovo etnico. Peccato che esista ancora una parte europea che vuole imporre i
suoi distinguo tra “buoni” e “cattivi” del recente passato. L’eventuale
esclusione della Serbia sarebbe la follia conclusiva di una politica imbecille».
L’arresto di Karadzic ha confermato che i criminali di guerra della
ex-Jugoslavia vivevano tranquillamente nelle loro case. Il suo arresto ha quindi
mostrato un cambiamento della volontà politica. È arrivato il momento di
chiudere definitivamente con le vicende della guerra?
«La disonestà dei giudizi internazionali preconfezionati che sono prevalsi
sino ad oggi non ha certo aiutato i Paesi coinvolti ad esercitare senso critico
sul loro passato e a crescere. Nei Balcani, vissuti in dieci anni di terribili
guerre, non ho incontrato molti innocenti ma soltanto diversi gradi di
colpevolezza. Gli orfani dei Milosevic e dei Karadzic, dei Tudjman e dei
Gotovina che ancora resistono sono conseguenza delle prevenzioni a favore o
contro che hanno accompagnato i vecchi leader per basso interesse delle parti
internazionali prevalenti».
La Turchia si trova in una posizione geograficamente strategica, tra
Europa, Medio Oriente e Russia. Allo stesso modo in Turchia convivono Islam e
laicità dello Stato. Quale sarà il ruolo futuro di questo Paese?
«La Turchia è un paese formidabile e sorprendente. Tra mille contraddizioni
sociali ed economiche (rispetto dei diritti umani, disparità clamorose), sta
diventando una vera e propria potenza di area. Un esempio. Compra e distribuisce
il petrolio del “super cattivo” Iran e vende gas e acqua a Israele. È parte
fondamentale della Nato nata in chiave antisovietica ma non amoreggia più con
gli Stati Uniti. Sta riprendendo i rapporti con l’Armenia del genocidio mai
ammesso. Sulla crisi georgiana ha smentito subito la versione americana del
buono di comodo. Alleato strategico per l’Europa (oltre la questione Nato), con
qualche conto interno da definire meglio tra il suo essere paese musulmano - non
islamico - di costituzione laica. Da tenere d’occhio l’attuale governo Erdoğan -
partito islamico “moderato” - e le contro tentazioni di laicismo autoritario in
grigio verde. Senza prevenzioni e con un certo ottimismo».
In Turchia esiste il problema dei Curdi che a volte sfocia in attentati e
azioni militari. Secondo lei quale potrebbe essere la soluzione per questa
minoranza dispersa su più stati?
«Non intendendo candidarmi al prossimo Nobel per la pace, non vi racconto la
“mia” soluzione. Dopo quello assegnato ad Ahtisaari, protagonista del pasticcio
Kosovo, quel premio non è più molto credibile. Certo è che la Turchia, sulla
realtà dei suoi cittadini curdi, deve fare ancora molti passi in avanti. Esiste
la minaccia reale delle azioni armate del Pkk, ma esistono anche molte
interpretazioni politicamente reazionarie dell’identità nazionale turca. La
nascita di un “Kurdistan iracheno” (esiste ancora l’Iraq unitario?) ai confini
turchi di sud-est non favorisce per ora la ricerca di soluzioni democratiche
coraggiose e politicamente avanzate. La tentazione statunitense di spingere la
parte armata del Pkk verso l’Iran in funzione destabilizzatrice è forte, almeno
quanto il nazionalismo turco che predilige le soluzioni di forza». |
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Nadia Fanchini: sogno o illusione? di
Pierpaolo Di Paolo
Vive un periodo d'oro lo sci italiano,
competitivo come non vedevamo da tempo. È di appena pochi giorni fa lo storico
risultato raggiunto nello slalom speciale da Manfred Moelgg e Giorgio
Rocca: primo e secondo nell'ultima gara prima dei
mondiali della Val d'Isere. Non accadeva
da 22 anni, gli anni d'oro di Tomba la bomba.
Le speranze e le aspettative sulla squadra
italiana, alle soglie dell'appuntamento del 3 febbraio - giorno d'avvio - sono
quindi cresciute in maniera esponenziale. L'attenzione si è concentrata anche e
soprattutto su
Nadia Fanchini, fortissima 22enne bergamasca nella quale si riponevano le
maggiori aspettative.
La delusione dopo le prime giornate della
Coppa del Mondo è stata perciò enorme. L'esordio al Super-G femminile,
infatti, non è stato dei migliori: Nadia parte subito male, commette un errore
dopo poche porte e perde tempo e concentrazione, non riuscendo più a recuperare.
Al traguardo è solo nona. Una gara compromessa troppo in fretta, per la
gioia della bella e fortissima statunitense
Lindsey Vonn che ne approfitta e fa meritatamente suo il supergigante
femminile.
Questa doveva essere la definitiva rinascita
dopo due anni non esattamente felici per Nadia. Prima un infortunio al
legamento crociato, poi lo stop dei
medici per un sospetto problema cardiaco che aveva gettato la giovane atleta in
un momento di sconforto: «Non si sapeva mai nulla... se potevo ricominciare, e
quando. A casa stavo malissimo, ero triste. Sono religiosa e anche la fede mi ha
aiutato, ma ci sono momenti in cui pensi che non ce la puoi fare».
Da questa difficile fase Nadia è uscita con
una rabbia e una determinazione che l'han resa ancora più pericolosa e
competitiva di prima. Si è sottoposta a tour de force micidiali, alternando
allenamenti da centinaia di paletti di slalom a prove di discesa, spesso
fermandosi per un giorno di riposo dopo dodici-quattordici di attività
ininterrotta. «Le rinunce sono all'ordine del giorno: uscite in motorino con gli
amici, la discoteca, i concerti, le pizze, le feste di paese. Purtroppo a casa
non ci sono mai». Si può rinunciare anche all’amore? «No, quello mai».
Adesso la frustrazione per i tanti sacrifici
e l'immenso sforzo vanificato in così pochi secondi è palese, ma la partita non
è chiusa e lei ne è ben consapevole: «Ho sbagliato io. Non si vedeva bene, però
ora mi lascio questa delusione alle spalle e mi concentro sulla discesa -
assicura con la solita grinta l'atleta - il mio Mondiale non è finito». |
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