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Intervista a Valeria Saggese (2)   Tutte le interviste tutte le interviste
Valeria SaggeseTelegiornaliste anno XX N. 3 (750) del 24 gennaio 2024

Valeria Saggese, raccontando in Parlesia
di Giuseppe Bosso

Ritroviamo con piacere la giornalista, radiofonica e non solo, Valeria Saggese, per parlare della sua recentissima, e già molto apprezzata, fatica letteraria, Parlesia, la lingua segreta della musica napoletana.

Bentrovata, Valeria, è un piacere rivederci dopo quasi quattro anni dal nostro primo incontro: ti eri definita costantemente “work in progress”, e infatti, tra una puntata radiofonica e uno dei tanti eventi che presenti, non solo in Italia, nasce questo libro: cos’è anzitutto la Parlesia e quando hai dato alle stampe la tua opera?
«Il libro è stato pubblicato lo scorso settembre per la casa editrice Minimum Fax, che l’ha inserito nella sua collana Musica, che tra l’altro ho sempre adorato. È un gergo che prima gli orchestrali e ancora prima i posteggiatori (musicisti erranti) già nell’800, e poi i musicisti napoletani hanno utilizzato per decenni. Nasce come gergo di piazza e poi diventa di mestiere, quindi chiuso e parlato solo da chi quel mestiere faceva. Gli accademici in un primo momento non conoscevano la parlesia ma poi entra anche nei conservatori e in teatro. Si è progressivamente sdoganata, o meglio legittimata proprio attraverso i musicisti che hanno iniziato a usarla nelle canzoni e a estenderla a famiglia e ad amici. I primi che hanno utilizzate parole di parlesia nei dischi sono stati Tony Esposito e poi Pino Daniele. Successivamente gli altri. Quando una cosa si legittima significa che esiste e che ha una dignità».

Il tuo primo contatto questo particolare linguaggio, come racconti, risale all’inizio degli anni 2000 quando una giovane aspirante giornalista, grande appassionata di viaggi si trova a far parte dello staff di una nave da crociera. È stata una decisione improvvisa o il classico progetto rimasto a lungo nel cassetto dei sogni da realizzare?
«Allora anzitutto tengo a precisare che non ero un’aspirante giornalista come dici, ma facevo la ballerina nella prima parte della mia vita. Poi, dopo aver studiato anche lingue straniere e filologia, ero incuriosita dai suoni delle lingue e dei dialetti. Ho conosciuto la Parlesia esattamente 20 anni fa, nel 2003. Lavoravo sulle navi da crociera e ho sentito le prime parole incomprensibili dagli orchestrali della nave. Poi il resto lo racconto nel libro... non spoileriamo tutto… Per rispondere alla tua domanda, il libro non era un vecchio progetto nel cassetto, ma un’intuizione nata due anni fa grazie al giornalista Gino Castaldo. Non si è limitato solo a scrivere una bellissima prefazione ma è stato colui che ha creduto in me sin dall’inizio, insistendo affinché scrivessi questo libro che “ancora non era stato scritto”. È una persona dotata di una grande sensibilità oltre che intuito e secondo lui toccava a me realizzarlo. Gli sarò per sempre grata per quanto mi abbia sostenuto e continui a farlo».

Hai avuto modo di consultare artisti e musicisti di ogni età ed estrazione musicale, da James Senese a Tullio De Piscopo, da Valentina Stella fino ai contemporanei Gnut e Clementino: qual è stata la difficoltà di mettere in un unico testo queste differenti storie artistiche e umane?
«Onestamente per quanto sembri difficile, essendo stata spinta dalla passione per la musica e trovando supporto in ognuno di questi artisti, sia pure con le loro diverse visioni, alla fine, difficoltà vere e proprie non ne ho avute. La storia della musica è il mio mestiere e rispettare chi la realizza è mio dovere. Raccontare la storia della parlesia, di questo modo di comunicare, significava esprimere un modo di vivere, una certa cultura e una certa musica. Come dice il musicologo Pasquale Scialò (che è stato una guida per me in questo viaggio) sono entrata da un’altra porta per raccontare quello che è successo a Napoli nei secoli, e siccome Napoli è stata una grande capitale, è significato raccontare una importante parte della storia italiana».

Un filo conduttore è comunque quello che uno degli intervistati ha così sintetizzato: non siamo molto propensi ad aprirci con i giornalisti ma nei tuoi confronti è diverso, per la passione che hai e il sostegno che ci hai sempre dato: è stata una delle soddisfazioni più grandi per te?
«Credo tu abbia colto le parole di Tony Cercola… ma anche Enzo Gragnaniello, Mauro Di Domenico, Fausta Vetere e altri di loro la pensano così. Più che soddisfazione, credo di essere umanamente felice per questo. Sono subito stata compresa in quello che era il mio intento. “Preservare, conservare, rispettare la loro fatica”. Diversi dei protagonisti del libro sono persone che frequento anche in privato ed è certamente più facile raccontare e far esprimere chi conosci in profondità. Alcuni di loro mi sono stati molto vicini in questo anno difficile a livello familiare. Questo libro è scritto con estremo amore e il direttore editoriale ha ritenuto che chi non credeva nel progetto o non fosse in buoni rapporti con me non sarebbe stato in linea con il racconto da pubblicare. È un lavoro che parte da dentro, non è raccontato da fuori in modo formale come un saggio classico. Ci sono davvero tanti musicisti che ringrazio, che si sono aperti narrando anche le loro debolezze con estrema dignità. Penso a Ernesto Vitolo per esempio… ma anche chi non avevo conosciuto prima, come Gigi D’Alessio e Vincenzo Salemme, mi ha dimostrato grande entusiasmo e voglia di condividere con estrema semplicità. E poi ci sono anche le chicche di Marisa Laurito, Eugenio Bennato e Maria Pia De Vito».

Molti degli artisti che hai incontrato sono concordi, amaramente, su un punto: la parlesia sta progressivamente scomparendo, per varie ragioni compresa la diffusione della tecnologia che pur con i suoi miglioramenti va a sacrificare tanto l’aspetto dello studio e della preparazione. Hai voluto in qualche modo con questo testo anche per una sorta di spirito di conservazione di questo patrimonio artistico?
«Sì, come detto era questo il mio obiettivo, conservare un patrimonio musicale e culturale partendo da un punto di vista mai considerato prima, partendo dal gergo carbonaro utilizzato dai musicisti».

Durante le prime presentazioni si è notata la presenza accanto a te di una bellissima bambina, alla quale il libro è dedicato. Chi è Zoe e cosa rappresenta per te?
«Mia nipote, figlia di mia sorella. Ha 4 anni. Lei è tutto per me. Mi tiene ancorata alle radici, ma anche al futuro. In quest’anno difficile in cui mia sorella non è stata bene, io e Zoe ci siamo legate ancora di più. È una bambina super curiosa e interessata. Ti racconto una cosa divertente: lei gira con un monopattino che ha chiamato Diego De Silva (scrittore, drammaturgo e sceneggiatore, autore tra le altre cose di Vincenzo Malinconico – avvocato di insuccesso, ndr) il quale mi ha detto compiaciuto, “tutto avrei immaginato nella vita, tranne che diventare un monopattino” (ride, ndr) per dire come lei frequenti il mio ambiente e conosca questi personaggi».

Ci incontrammo a gennaio del 2020, quando eravamo ben lontani dall’immaginare come di lì a poco il covid e il conseguente lockdown avrebbero inciso sulle nostre vite e in particolare limitato i nostri spostamenti, cosa che per una viaggiatrice incallita quale tu sei immagino sia stata particolarmente dolorosa: come ha cambiato quel momento la tua vita?
«Una cosa che il Covid (che ho avuto l’anno scorso) mi ha lasciato, o meglio che mi ha rubato, è la memoria. Avevo già avuto dei fortissimi mal di testa dopo la seconda dose di vaccino, iniziando a perdere la concertazione, poi da quando ho avuto il covid lo scorso anno ho dei veri e propri black out. Dimentico tantissime cose. Alcune non le ricordo proprio più. Mi devo sforzare molto per ricordare e per concentrarmi … il 2020, invece, non l’ho vissuto male, sono riuscita comunque a spostarmi essendo giornalista, e a viaggiare. Ricordo treni vuoti, una piazza di Spagna deserta, un volo per la Spagna nel clima spettrale dell’aeroporto di Napoli. Poi andavo in onda tutti i giorni con l’intenzione di raccontare qualcosa di bello, per dimostrare che non c’erano solo i freddi e tristi dati dei deceduti e dei contagiati; raccontavo cose di musica, stavo vicina ai lavoratori dello spettacolo, creavo dei link tra loro e le istituzioni e soprattutto, ricordo come ci fosse bisogno della parte positiva del ‘vivere con lentezza’. Proprio poche settimane fa mi è capitato di incontrare in treno una coppia di Perugia che mi ha riconosciuta in quanto seguiva la trasmissione sui vinili che conducevo con Mario Maysse durante il covid. Da qualche parte online ci sono ancora tutti i videomessaggi di chi mi seguiva sia dall’Italia che dall’estero. E poi in quella primavera mi sono goduta i primi mesi di vita della mia nipotina, in quanto io e mia sorella ci trasferimmo da mamma».

Pietra che rotola non porta muschio si dice, detto che potrebbe bene conciliarsi con te che sei in continuo movimento: ma non senti il bisogno anche di saldare le tue radici da qualche parte?
«No. Per prima cosa soffro di ansia di incastramento, forse anche per questo non mi sono mai sposata e l’idea di stabilire a priori che vivrò sempre nello stesso posto mi fa star male. Le mie radici si muovono con me. Ho la necessità di spostarmi sempre. Che sia Salerno, Roma, Londra o San Francisco, ho sempre i miei posti di riferimento e i miei amici che mi aspettano. Ho il negozio dove fare la spesa, il ristorante, o il bar di riferimento. Conosco un po’ tutti. Anche l’isola di Maiorca da quasi 10 anni è diventata casa mia. Ho la mia stanza con il mio bagno a casa dei miei fratelli Miguel e Quevin. Nel centro della città di Palma. È un altro pezzo di famiglia. A Londra sono diventata madrina di Ruben, un bellissimo bimbo tutto britannico. Anche quella è famiglia. Ti potrei raccontare un pezzo di vita per ogni città. Sin da quando ero piccola non sono mai riuscita a dire, vivrò per tutta la vita in questo posto o in quell’altro. So solo che a 18 anni me ne andai a Roma e poi è stato un continuo spostamento. Ho fatto tanti traslochi e tanti cambiamenti. Ho vissuto in diversi paesi, persino in Australia. Mi sento cittadina del mondo con una forte identità e con delle radici indiscutibili. Se ci rifletti, Napoli così come la Basilicata (i miei nonni materni erano lucani) sono state dominate da vari popoli. Quando viaggio non scappo, ma cerco parti di me. Non credo sia un caso che dall’ Inghilterra e dal Nord Europa senta un forte richiamo. Lì mi sento a casa. Sicuramente ho degli avi normanni. Ho vissuto la stessa sensazione anche a Istanbul, però…».

Chiudiamo con un gioco. Valeria, a distanza di quattro anni, ripensando alla nostra prima chiacchierata e a quella di oggi, se dovessi definirmi in parlesia, sia allora che adesso, cosa diresti?
«’O jamme è Toke!».

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