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Intervista a Giusi Sansone   Tutte le interviste tutte le interviste
Giusi SansoneTelegiornaliste anno XX N. 30 (777) del 20 novembre 2024

Giusi Sansone, il mio percorso fino al Tg3
di Giuseppe Bosso

Incontriamo Giusi Sansone, volto del Tg3.

Cosa ha rappresentato per te l’esperienza di due anni in conduzione ad Agorà Weekend ?
«Un’esperienza molto formativa, avventura diversa dal telegiornale, che è una macchina complessa fatta di grandi professionalità a cui tu dai il volto. Vengo da anni passati nella redazione di Linea Notte, mi sono occupata di esteri, cronaca, politica, cultura, conducendo le edizioni della sera del tg, la rassegna stampa, fino all’esperienza al fianco di Maurizio Mannoni. Il programma da autrice e conduttrice mi ha dato un margine ancora più ampio di movimento, un’esperienza completa».

Quali differenze hai riscontrato tra la conduzione del tg3 e l’ambiente del talk show?
«Complicato dirlo. Mi piace tutto quello che riguarda il lavoro del conduttore, che nel tg rappresenta la linea editoriale di tutta la testata. Il Tg3 ha una storia molto particolare rispetto agli altri tg generalisti, è un giornale estremamente attento al sociale, si conduce senza gobbo elettronico, una grande scuola di diretta. Tu sei solo la punta dell’iceberg: presti volto e voce ad un racconto corale fatto da tanti colleghi giornalisti. È una bella responsabilità, che richiede sempre equidistanza ed equilibrio nel rispetto del pluralismo. In un talk show il conduttore diventa anche personaggio, a cui il pubblico chiede uno sforzo ulteriore di correttezza e di coscienza, nel mediare con la giusta distanza le diverse opinioni degli ospiti. Spesso ad Agorà Weekend, di fronte a tematiche etiche, mi sono domandata: Cosa penso di questa cosa, di questo evento? Ed è qui che ti devi mettere in gioco. Comanda comunque sempre lo spettatore e noi dobbiamo porci nei suoi confronti col massimo rispetto. Siamo il Servizio Pubblico, che io amo scrivere con la lettera maiuscola».

Molte tue colleghe che ho intervistato in passato mi hanno raccontato di come il giornalismo fosse un sogno coltivato fin da bambine, giocando a imitare figure come Lilli Gruber che all’epoca rappresentavano in un giornalismo prevalentemente maschile delle vere e proprie pioniere: è stato così anche per te?
«Banale dirlo, ma è così (ride, ndr). Sì, anch’io come molte colleghe sono partita dalla mia città, Napoli, lavorando in emittenti come Canale 21, quotidiani e radio locali, tutte esperienze fondamentali che mi hanno dato molto, ma sognando sempre il grande salto nella capitale. Dopo la laurea ho vinto la selezione all’Istituto di Formazione al giornalismo di Urbino che è stata la mia vera occasione. Sono andata via da Napoli, iniziando una serie di stage in Rai, era il sogno che si realizzava. Al Tg1 ricordo ancora quando da stagista entrai per la prima volta in quegli studi, una grandissima emozione. Sono capitata per caso nel 2008 al Tg3 con un contratto di sostituzione. Ho potuto conoscere conduttori che ammiravo da sempre come Mannoni, insieme a Giovanna Botteri li ritengo dei maestri».

Ma innegabilmente la tua generazione, intendo giornalisti e giornaliste che hanno mosso i loro primi passi nel mondo dell’informazione agli inizi del nuovo millennio, ha dovuto fare i conti con un progresso tecnologico e una diffusione di forme di comunicazione che forse sono andate anche più veloce rispetto alle capacità di recepimento della vostra categoria. È così anche per te?
«Hai ragione. Pochi parlano di questo aspetto costituito dal cambio del sistema di produzione dell’informazione; all’inizio nel mio percorso formativo mi sono trovata ad operare con mezzi, per così dire, ‘arcaici’, quei sistemi analogici che si usavano nelle emittenti locali, le cassette che portavamo da una parte all’altra. Nell’ultimo decennio il digitale ci ha imposto un cambiamento anche nel modo di gestire questi sistemi. La tecnologia è al tempo stesso una risorsa ma anche potenzialmente un rischio se non adeguatamente controllata. Proprio per questo anzitutto è necessaria una maggiore formazione da parte di noi giornalisti per controllare e saper usare al meglio anche le risorse del web, serve un aggiornamento continuo che la Rai promuove devo dire con grande attenzione».

Da conduttrice del Tg3 devi purtroppo spesso raccontare le tragedie di episodi di violenza contro le donne che sfociano in delitti terribili molto spesso: come molte tue colleghe sei impegnata in questo senso anche con iniziative e associazioni?
«Con Agorà Weekend abbiamo dato molto spazio ad associazioni impegnate in questa battaglia con puntate tematiche, proprio perché occorre che sul tema ci sia una informazione precisa, è opportuno che il pubblico comprenda quel che accade, ed è nostro dovere promuovere il rispetto della differenza di genere. È uno dei compiti del Servizio Pubblico. Ricordo anche la campagna delle scarpe rosse, nel primo anno di Agorà Weekend. A causa dei ripetuti casi di cronaca, il tema è diventato ormai un’urgenza sociale».

Abbiamo appena vissuto il caso dei tuoi colleghi praticamente “espulsi” dalla Russia: prescindendo dalle tue considerazioni sulla vicenda, hai mai pensato di fare l’inviata in zone di guerra?
«Ho sempre subìto il fascino del racconto sul campo, fin da ragazzina leggevo Oriana Fallaci a cui forse devo la scelta della mia professione. Ma non ho mai preso davvero in considerazione l’idea di fare l’inviata di guerra. Oggi ci sono tanti colleghi eccezionali in Rai che svolgono questo ruolo egregiamente. Lucia Goracci, mia collega del Tg3, è una delle voci più acute e sensibili in questo senso. Quando, nelle scorse settimane, in Libano, Lucia è stata aggredita con la sua troupe mentre documentava la guerra e ha perso purtroppo il suo autista e interprete, morto di infarto- ha dimostrato enorme professionalità e umanità. Al Tg3 ogni giorno ci riuniamo nella sala sommario intitolata a Ilaria Alpi. Quando mi soffermo a guardare la targa a lei dedicata, penso al coraggio di chi ha creduto e lottato per la verità. E mi dico che sono davvero fortunata, che sono proprio dove volevo essere».

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