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	anno II N. 15 (47) del 17 aprile 2006 
Luca Rigoni, cinema mon amour - Seconda Parte di 
Antonella Lombardi
 Parliamo di Oscar del cinema con Luca 
Rigoni.
 L’edizione degli Oscar di quest’anno è stata contrassegnata da una forte 
presenza di film politici o relativi al problema dell’integrazione: Syriana,
Munich,
Paradise now, Brokeback mountain, Crash, Il suo nome è 
Tsotsi, eccetera...
 «La cosa più interessante degli Oscar, mi pare, è stato questo cambio di 
registro, questo giro di boa, perlomeno apparente, di Hollywood, una maggiore 
attenzione, come hai detto tu, al politico, al film d’autore e al piccolo film 
indipendente, non di grosso box office: potrebbe essere il segnale di una svolta 
di Hollywood che è stufa di certi filmoni; pensa come non ha funzionato ad 
esempio King Kong, un’operazione costosissima, un ottimo film, ma alla 
fine è andato male, evidentemente c’è la necessità di rinnovare dal di dentro il 
cinema americano, c’è anche la noia per una certa ritualità di formule e quindi, 
quello degli Oscar, potrebbe essere un segnale importante».
 
 Però, allo stesso tempo, nessun film all’edizione degli Oscar di quest’anno 
ha fatto incetta di statuette come nelle edizioni precedenti. Cosa vuol dire, 
che a Hollywood tutto cambia affinché tutto rimanga com’è?
 «E’ stata un’edizione particolare, non c’è stato nessun film, o nessun kolossal, 
che si è imposto sugli altri. Non essendoci stato il grande film trainante, a 
differenza di altre occasioni, è ovvio che il giudizio dei professionisti del 
settore si è frastagliato. E’ successo varie volte, non è che sempre ci siano le 
undici statuette – mi pare… - stile Ben Hur; però ricordiamoci anche che 
Hollywood ha assegnato una valanga di statuette all’Ultimo Imperatore di 
Bertolucci, film d’autore europeo, quindi bisogna stare attenti a non dare 
giudizi approssimativi e affrettati, perché ogni anno è diverso.
 Quello che c’è da sottolineare, secondo me, è la crisi d’idee profonda, negli 
ultimi anni, del cinema americano che si basa su sequel, sul recupero e anzi il 
“riciclaggio” di formule abusate, di fumetti e serial televisivi, alla disperata 
ricerca di copioni e di idee che permettano di andare sul sicuro, perché i film 
costano tanto, quindi si prendono storie ben rodate, con personaggi ben 
conosciuti e queste vengono trasformate in film; e gli Oscar di quest’anno 
potrebbero, uso il condizionale, testimoniare che sta cambiando il clima».
 
 C’è un film, tra quelli presentati agli Oscar, che hai visto e che ti è 
piaciuto particolarmente?
 «Tra quelli presentati ho visto Munich di Spielberg, ma non mi è piaciuto 
per niente; io adoro Spielberg, conosco perfettamente tutti i suoi film, ma 
Munich è un brutto film, mediocre, modesto».
 
 Come mai?
 «Perché innanzitutto, e al di là delle polemiche filo o anti-israeliane, è poco 
credibile. Purtroppo direi, perché Spielberg è un regista grandissimo, un genio 
del cinema: è strano, ma il film è poco credibile proprio dal punto di vista 
tecnico, e di sceneggiatura; quella Roma ricostruita, se non sbaglio, a 
Budapest, o questa figura di grande vecchio francese che tira le fila, che sa 
tutto, non esiste nulla di simile! Se non forse, a livello tematico, 
l’ossessione di Spielberg di ritrovare il Padre… Ma, nonostante il film sia 
basato su un libro considerato di un certo rilievo (Vendetta, 
di George Jonas, ndr), è tutto troppo semplicistico: soprattutto per chi 
mastica almeno un po’ di Medio Oriente».
 
 Ci sono altri film, tra quelli presentati agli Oscar, che ti sono piaciuti in 
maniera particolare, ad esempio, 
Match Point di Woody Allen?
 «Molto bello, sì, un grande ritorno di Woody Allen».
 
 Sembra che il tema del multiculturalismo e dell’integrazione abbia 
interessato altri film oltre quelli presentati ad Hollywood: U Carmen
(versione cinematografica della Carmen di Bizet ambientata in Sudafrica), 
l’italiano Saimir, di Francesco Munzi (storia di un ragazzino albanese 
che sogna l’Italia), Quando sei nato non puoi più nasconderti, di Marco 
Tullio Giordana, eccetera. Il cinema manifesta forse una sensibilità verso 
l’altro maggiore rispetto a quella percepita dalla società?
 «Ma no, il cinema si fa carico, come spesso avviene, di vicende e di problemi 
che ci sono e li racconta. L’autore di cinema focalizza la sua attenzione su 
questo problema, il multiculturalismo, il metissage se vuoi… Ma non c’è 
nulla di nuovo; dico una banalità, pensa al Neorealismo: prendevano alcuni 
avvenimenti della realtà italiana e, a vari livelli e a seconda delle differenti 
sensibilità (una cosa è Rossellini, un’altra De Sica, un’altra ancora Visconti, 
per dire solo dei sommi), li mettevano in film.
 Non che il cinema sia “specchio della realtà”, per carità… Ma se tu poi fai un 
mosaico di tanti film, è chiaro che da questo mosaico viene fuori anche un 
grande affresco di quella che potrebbe essere stata la società italiana di 
allora. E’ sempre stato così, non vedo niente di diverso rispetto al passato».
 
 Quest’anno il cinema italiano, con La bestia nel cuore, è riuscito a 
portare agli Oscar per la prima volta un film diretto da una donna, Cristina 
Comencini. Il film non ha vinto l’ambita statuetta e c’è chi ha parlato, il 
giorno dopo, addirittura di sconfitta del cinema italiano. Qual è la tua 
opinione in merito?
 «Io credo che il cinema italiano, così com’è organizzato oggi, così come è 
prodotto e distribuito, è un cinema soccombente. Non solo sconfitto – con tutto 
il rispetto per l’opera di Cristina Comencini - ma moribondo perché è un cinema 
che produce pochissimi film ormai e, sto un po’ generalizzando, lo fa con 
modalità produttive legate prevalentemente, e troppo, al mondo della 
televisione; credo si producano appena 40, 50 film all’anno o pochi di più, 
comunque pochissimi rispetto a diversi anni fa. E’ ovvio che così il cinema è 
destinato a strangolamento; producendo così pochi film italiani, e alcuni anche 
di alto livello, e in qualche caso di straordinario successo di cassetta, è 
comunque un miracolo, permettimi la battuta, che qualcuno riesca ancora ad 
accedere agli Oscar».
 
 E la mancata vittoria dell’Oscar?
 «Non c’entra niente, molti fra i più grandi autori non hanno vinto statuette, 
molti grandi registi sono stati premiati con l’Oscar alla carriera proprio 
perché non avevano vinto con i capolavori che avevano fatto, c’è una serie di 
nomi illustrissimi che non hanno mai conquistato un Oscar, non vuole dire nulla 
vincere o non vincere l’Oscar; è solo pubblicità in più, è molto utile perché è 
pubblicità in tutto il mondo per un determinato film e quindi tutto il mondo poi 
ti vede, ma in sé l’Oscar è il timbro soprattutto di se stesso».
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