
Telegiornaliste 
									anno V N. 4 e 5 (175 e 176) del 2 e 9 
									febbraio 2009
                               Ennio Remondino, dalla tv 
								alle foto segnaletiche 
                               di Erica Savazzi 
                               
                               Ennio 
								Remondino risponde alla richiesta di 
								intervista dando la propria disponibilità «se 
								ritenete che io possa essere una "notizia"». 
								Ebbene sì, per noi di Telegiornaliste Ennio 
								Remondino è una "notizia". E il perché è chiaro 
								fin dalla prima risposta. 
                               
                               Perché si vede solo raramente in tv? 
                               «So che non è carino rispondere a una domanda con 
								un’altra domanda, ma quanto mondo reale vede 
								ormai nei telegiornali? Le tensioni sociali e 
								politiche italiane si esauriscono nei 
								battibecchi tra Montecitorio e Palazzo Chigi con 
								le eterne facce della politica che si alternano 
								come santini in dose da “par condicio”, anche 
								quando non hanno un cavolo da dire. La crisi 
								economica te la racconta l’Istat, i segretari di 
								Cgil, Cisl e Uil e la Marcegaglia, non ho 
								memoria di una fabbrica o di operai incazzati. 
								Il mondo, salvo i tre giorni di attenzione 
								all’episodio di guerra o di terrorismo, si 
								esaurisce tra New York e Bruxelles. Nel 
								telegiornalismo di Palazzo non c’è più posto per 
								i giornalisti “di strada”. Fine di un’epoca e di 
								una generazione. Fine del diritto degli italiani 
								ad essere informati sui fatti e non sulle 
								opinioni». 
                               
                               È un dispiacere o un vanto non essere 
								diventato direttore? 
                               «L'uno e l'altro. Il dispiacere di non aver 
								potuto cimentarmi in una diversa responsabilità, 
								il piacere di aver evitato la palude - parlo di 
								Rai e della politica che la soffoca - che vedo 
								oggi attorno alle direzioni». 
                               
                               Qual è stato il reportage/intervista più 
								difficile? 
                               «Non lo so. Forse qualche reportage che ho 
								cancellato dalla memoria perché era stato fatto 
								male o attraverso cui ho fatto del male». 
                               
                               Si è pentito di non aver tenuto per sé le 
								scoperte dei rapporti CIA-P2 che hanno portato 
								al suo "esilio"? 
                               «Sono pentito di non aver scoperto sino in fondo 
								il supersegreto (la "Pepita d'oro") che avevo 
								avuto tra le mani e che aveva suscitato tanto 
								bordello. Non lo so ancora oggi». 
                               
                               Lei si definisce un "giornalista di strada" di 
								cui il «telegiornalismo attuale può fare 
								tranquillamente a meno». Lei sostiene il 
								giornalismo "dei fatti". La stessa cosa fa
                               Marco 
								Travaglio, per esempio, e con un certo 
								seguito e apprezzamento tra i 
								lettori/telespettatori. Non tutto è perduto...
                               
                               «Il vantaggio di Travaglio è di essere più bravo 
								di me, più giovane, e di essere rimasto ancorato 
								alla carta stampata. Un Travaglio in televisione 
								non sarebbe mai nato o sarebbe finito prima di 
								diventare il rompiballe che è». 
                               
                               Quando secondo lei è iniziato il cambiamento 
								che ha portato dal giornalismo dei fatti al 
								giornalismo delle opinioni? Per quale ragione?
                               
                               «Da quando si è passati dai direttori con 
								mestiere ai direttori di "loro" affidabilità».
                               
                               
                               Ha un suo personale elenco di buoni e cattivi 
								del giornalismo? 
                               «No. Mi accontento di limitare molto le mie 
								frequentazioni. C'è una parola antica che mi 
								piace molto: "galantuomo". Si usa poco ormai».
                               
                               
                               Nella sua
                               biografia 
                               scrive che i telespettatori, dopo i reportage 
								dalla Jugoslavia, si sono dimenticati di lei. 
								Non sono d'accordo: quei lavori sono ben 
								presenti nella memoria di chi ha seguito quelle 
								vicende.
                               
                               «La televisione è corruttrice. Accorcia la 
								memoria. Corrompe chi la fa e chi la subisce. I 
								fatti, anche i più drammatici, diventano un 
								pacchetto di immagini e i narratori sono i 
								conduttori di quello "Spettacolo". Dopo un po' 
								di assenza, giustamente, la memoria breve ti 
								rimuove. Mi è capitato più volte di essere 
								fermato, oltre i controlli doganali 
								dell'aeroporto, dai finanzieri in borghese. "Io 
								quella faccia l'ho già vista". Dalla memoria tv 
								alle foto segnaletiche». 
                               
                                   
                                   
                                    La 
								crisi in Ossezia e Georgia secondo lei è 
								correlata all’indipendenza del Kosovo?
La 
								crisi in Ossezia e Georgia secondo lei è 
								correlata all’indipendenza del Kosovo? 
                               «Certamente. Eravamo stati avvertiti. Ho provato 
								a raccontarlo in mille maniere ma “Balcani”, 
								all’orecchio di certi direttori, suona ormai 
								come una parolaccia. La “ragione” del vincitore 
								ha prodotto il Kosovo etnico. Una bomba ad 
								orologeria per le realtà multietniche di Bosnia, 
								Macedonia ecc... In Ossezia non è bastato 
								l’inganno classico del “buono” a priori (la 
								Georgia) e del “cattivo” costruito a tavolino. 
								Putin non è Milosevic - forse è un cattivo anche 
								lui ma molto, molto più furbo - e ha il 
								petrolio. Ora, in tutta l’area Caucaso sono 
								cavoli amari».
                               
                               
                               Quali conseguenze l'indipendenza del Kosovo 
								può avere sui movimenti autonomisti europei?
                               
                               «Se vale la ragione del più forte, come dimostra 
								il Kosovo, sarà la rincorsa a creare condizioni 
								di forza per poter imporre le proprie 
								aspettative». 
                               
                               Come vede l’allargamento della Ue nei Balcani?
                               
                               «Quale Unione europea? Quella della Germania che 
								assieme al Vaticano, nel 1991, ha anticipato il 
								riconoscimento della Croazia favorendo il via 
								alla spartizione territoriale a cannonate? 
								L’Unione degli interessi nazionali prevalenti e 
								contrapposti? L’Unione che ha come “ministro” 
								degli esteri Xavier Solana, l’ex segretario Nato 
								che ha dato l’ordine di sganciare le bombe sulla 
								Jugoslavia? L’Europa la cui politica estera 
								viene decisa dai vertici militari dall’Alleanza 
								Atlantica? L’Europa come seconda scelta dopo 
								l’ammissione alla Nato (La Polonia dei gemelli 
								Kacisnski, ad esempio) o l’Europa che dopo la 
								catastrofe Bush tenta di rendersi autonoma e 
								alternativa? 
                               L’attuale Unione coi vincoli di unanimità può al 
								massimo sopravvivere, senza andare da nessuna 
								parte. L’Europa che speriamo, potrebbe essere 
								l’occasione per superare i dieci anni di 
								macelleria balcanica. Peccato si sia inventato 
								il Kosovo etnico. Peccato che esista ancora una 
								parte europea che vuole imporre i suoi distinguo 
								tra “buoni” e “cattivi” del recente passato. 
								L’eventuale esclusione della Serbia sarebbe la 
								follia conclusiva di una politica imbecille». 
                               
                               L’arresto di Karadzic ha confermato che i 
								criminali di guerra della ex-Jugoslavia vivevano 
								tranquillamente nelle loro case. Il suo arresto 
								ha quindi mostrato un cambiamento della volontà 
								politica. È arrivato il momento di chiudere 
								definitivamente con le vicende della guerra?
                               
                               «La disonestà dei giudizi internazionali 
								preconfezionati che sono prevalsi sino ad oggi 
								non ha certo aiutato i Paesi coinvolti ad 
								esercitare senso critico sul loro passato e a 
								crescere. Nei Balcani, vissuti in dieci anni di 
								terribili guerre, non ho incontrato molti 
								innocenti ma soltanto diversi gradi di 
								colpevolezza. Gli orfani dei Milosevic e dei 
								Karadzic, dei Tudjman e dei Gotovina che ancora 
								resistono sono conseguenza delle prevenzioni a 
								favore o contro che hanno accompagnato i vecchi 
								leader per basso interesse delle parti 
								internazionali prevalenti». 
                               
                               La Turchia si trova in una posizione 
								geograficamente strategica, tra Europa, Medio 
								Oriente e Russia. Allo stesso modo in Turchia 
								convivono Islam e laicità dello Stato. Quale 
								sarà il ruolo futuro di questo Paese? 
                               «La Turchia è un paese formidabile e 
								sorprendente. Tra mille contraddizioni sociali 
								ed economiche (rispetto dei diritti umani, 
								disparità clamorose), sta diventando una vera e 
								propria potenza di area. Un esempio. Compra e 
								distribuisce il petrolio del “super cattivo” 
								Iran e vende gas e acqua a Israele. È parte 
								fondamentale della Nato nata in chiave 
								antisovietica ma non amoreggia più con gli Stati 
								Uniti. Sta riprendendo i rapporti con l’Armenia 
								del genocidio mai ammesso. Sulla crisi georgiana 
								ha smentito subito la versione americana del 
								buono di comodo. Alleato strategico per l’Europa 
								(oltre la questione Nato), con qualche conto 
								interno da definire meglio tra il suo essere 
								paese musulmano - non islamico - di costituzione 
								laica. Da tenere d’occhio l’attuale governo 
								Erdoğan - partito islamico “moderato” - e le 
								contro tentazioni di laicismo autoritario in 
								grigio verde. Senza prevenzioni e con un certo 
								ottimismo». 
                               
                               In Turchia esiste il problema dei Curdi che a 
								volte sfocia in attentati e azioni militari. 
								Secondo lei quale potrebbe essere la soluzione 
								per questa minoranza dispersa su più stati? 
                               
                               «Non intendendo candidarmi al prossimo Nobel per 
								la pace, non vi racconto la “mia” soluzione. 
								Dopo quello assegnato ad Ahtisaari, protagonista 
								del pasticcio Kosovo, quel premio non è più 
								molto credibile. Certo è che la Turchia, sulla 
								realtà dei suoi cittadini curdi, deve fare 
								ancora molti passi in avanti. Esiste la minaccia 
								reale delle azioni armate del Pkk, ma esistono 
								anche molte interpretazioni politicamente 
								reazionarie dell’identità nazionale turca. La 
								nascita di un “Kurdistan iracheno” (esiste 
								ancora l’Iraq unitario?) ai confini turchi di 
								sud-est non favorisce per ora la ricerca di 
								soluzioni democratiche coraggiose e 
								politicamente avanzate. La tentazione 
								statunitense di spingere la parte armata del Pkk 
								verso l’Iran in funzione destabilizzatrice è 
								forte, almeno quanto il nazionalismo turco che 
								predilige le soluzioni di forza».