|  Telegiornaliste 
	anno II N. 11 (43) del 20 marzo 2006 
 Moro, giornalista per vocazione
        di Filippo Bisleri
 Abbiamo incontrato Daniele Moro, 
	volto noto del Tg5
        fin dai tempi dell’intervento della 
	Nato
        nei Balcani, per raccogliere, in un’intervista, la sua esperienza 
	professionale.
 
 Come hai scelto di fare il giornalista?
 «Credo di essermi accorto di voler fare il giornalista quando ero 
	veramente molto giovane, tra la fine delle scuole elementari e l'inizio 
	delle medie: sono cresciuto in una famiglia nella quale si leggeva molto e 
	si scambiavano opinioni veramente differenti. Lo stimolo a capire era 
	proprio molto forte. Venivamo dalla seconda guerra mondiale, che ha segnato, 
	in casa nostra, i destini di molti, da chi è finito a 
	Dachau
        poco più che bambino, a chi è andato al fronte con uno schioppo e ben 
	poche idee. E noi, cuccioli del dopo-guerra, a fare i conti tra i 
	racconti dei sopravvissuti che non erano attori del cinema, ma i nostri 
	genitori, zii e nonni».
 
 Cosa ti piace di più della professione giornalistica?
 «La cosa più eccitante è vedere il mondo che cambia sotto i miei 
	occhi, senza intermediazioni: la più frustrante è non poterlo quasi mai 
	cambiare».
 
 Quali sono gli argomenti che preferisci affrontare?
 «I conflitti, il dolore dei bambini, dei più indifesi: credo di saperli 
	mostrare senza offenderli».
 
 Hai una preferenza per il giornalismo televisivo o ti piacciono anche 
	altri media come la carta stampata o le radio?
 «Il giornalismo è come la musica: ce ne sono di tanti tipi e 
	ognuno è affascinante ed offre qualcosa che altri non ti danno».
 
 Nella tua esperienza professionale hai un servizio, un personaggio o 
	un'intervista che più ricordi?
 «I personaggi che mi ricorderò sempre sono quelli che soffrivano davanti 
	a me: come Pierre Seel, deportato dai nazisti perchè omosessuale, al 
	quale le SS hanno fatto mangiare dai cani il suo compagno, davanti ai suoi 
	occhi. Ci ha impiegato più di sei ore a raccontarmi una storia che in tv 
	durava otto minuti. O i bimbi di un campo profughi in Corno d'Africa, 
	che riuscivano a cantare con me avendo perso tutto, meno la voglia di 
	vivere».
 
 Chi sono stati i tuoi maestri di giornalismo?
 «Uno dei miei maestri è stato Beppe Venosta, uno dei migliori 
	giornalisti italiani(Panorama,
        Il Mondo, 
	Il Sole 24ore): severo, ironico, coraggioso e molto molto paziente 
	anche con me. Uno che il giorno del matrimonio di Lady Diana scrisse 
	una pagina intera sul quotidiano di Confindustria raccontando i riti, spesso 
	assolutamente ignoti a noi, dello sposalizio di due sconosciuti figli della 
	classe operaia inglese con le sue manie e le sue follie. E in un post 
	scriptum ricordare che: "Lady Diana Spencer, oggi, ecc”: se fosse nato a 
	Londra gli avrebbero fatto un monumento. Al suo funerale, a Milano, 
	eravamo in sei».
 
 Tra colleghi e colleghe chi apprezzi di più?
 «Non c'è una graduatoria: apprezzo chi ne sa più di me e più in fretta. 
	Ce ne sono molti».
 
 Molti sono i giovani che vorrebbero fare i giornalisti. Quali 
	consigli daresti loro?
 «Vedo che tanti miei colleghi sconsigliano questa professione: male. Il 
	giornalismo rimane un sogno e neppure tanto irrealizzabile».
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