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Intervista ad Alfredo Macchi tutte le interviste
Alfredo MacchiTelegiornaliste anno IV N. 24 (149) del 23 giugno 2008

Alfredo Macchi: l'importanza di raccontare la guerra
di Giuseppe Bosso

Alfredo Macchi, giornalista professionista dal 1990, dopo alcune collaborazioni con la carta stampata e la Rai, arriva al Tg4 di Emilio Fede. Inviato per la guerra del Kosovo del 1999, l’intifada in Palestina e in Afghanistan, collabora da anni nella veste di fotografo con diverse organizzazioni umanitarie per le quali ha realizzato reportage dal Terzo Mondo.

Tra le tante esperienze che hai vissuto, quale ti è rimasta più impressa?
«I due mesi trascorsi in Afghanistan. Purtroppo c’è un aneddoto tragico di questa parentesi: lì ho incontrato Maria Grazia Cutuli con la quale sarei dovuto andare a Kabul. Ma lei, purtroppo, non ci è mai arrivata. E' stato terribile, ma anche un’occasione irripetibile per vivere in prima persona il lento cammino di un Paese che superava la dittatura talebana tra mille difficoltà, senza luce e acqua, e che tornava alla pace dopo 25 anni di guerre».

Il modo migliore che ha un giornalista per porsi rispetto a tanta sofferenza?
«E’ importante, secondo me, riportare i fatti che hai modo di vedere con i tuoi occhi. Non condivido per questo l’atteggiamento dei colleghi che rimangono negli alberghi limitandosi a riprendere le agenzie: occorre andare direttamente dove c’è la notizia, anche se dolorosa, per poi riportare allo spettatore quello che hai visto. Riguardo la guerra, cerco sempre di riportare entrambi i punti di vista, anche se mi rendo conto che non è facile trattare questo tema così delicato. Ma credo che la sofferenza che porta un conflitto alla popolazione civile sia il primo messaggio che la gente deve conoscere».

Come concili l’impegno umanitario con il tuo lavoro?
«Il mio lavoro di fotografo per associazioni umanitarie è un altro modo per viaggiare e raccontare. Un mezzo diverso, come lo è la televisione, che però ha i suoi ritmi e i suoi tempi. Una foto ha la forza di cogliere un attimo, un’emozione, uno sguardo che può rendere bene l’idea di una situazione e congelarla nel tempo. E quindi consente di riflettere».

E come fotografo, hai delle regole che segui scrupolosamente?
«Cerco di evitare di ritrarre immagini cruente, il sangue. Mi impegno sempre nel massimo rispetto delle persone che ritraggo, spesso alle prese con una profonda sofferenza, e quindi meritevoli di sostegno. Rispetto per loro, dunque, ma anche per chi poi guarda le foto».

Hai girato in lungo e in largo il mondo: ritieni sia indispensabile per far bene il giornalista?
«Come si diceva una volta, ogni giornalista che si rispetti deve consumare le proprie scarpe. Battuta che, in una professione ormai in gran parte fatta davanti al computer, vuole significare quanto dicevo sull’esperienza di inviato di guerra: bisogna andare a vedere con i propri occhi, verificare le notizie. Si può, certo, operare bene anche nel proprio ambito territoriale, ma la cosa più importante è cercare di raccontare la notizia recandosi direttamente sul posto, parlando con i protagonisti. Chi ha poi la fortuna e la possibilità di viaggiare, ha l’occasione di poter raccontare persone, abitudini, culture lontane dal nostro mondo: il Tibet, l’Africa, l’India. E' sicuramente il massimo assistere alla storia che si compie».

Da anni, ormai, infuriano le polemiche perché i telegiornali dedicano troppo spazio alla cronaca nera...
«E’ vero, e la cosa che mi dà maggiormente fastidio è questo gusto esagerato nel porre l’attenzione sui particolari più scabrosi. Non è questo il compito del giornalista: talvolta può anche sostituirsi all’autorità giudiziaria nelle indagini, ma non al punto di voler approfondire a tutti i costi vicende intime per il solo gusto del pubblico, mancando di rispetto a vittime, indagati e a una parte dello stesso pubblico. Sono a favore di un lavoro giornalistico duro ma serio, meticoloso e documentato. No ai pettegolezzi, insomma».

Dopo oltre quindici anni al Tg4, che giudizio puoi dare del tuo direttore, Emilio Fede?
«E’ un personaggio che, come forse nessuno altro in Italia, conosce la televisione: può davvero insegnarti molto. Ha un carattere particolare e non sono mancati battibecchi. Ma al di là di questo, tra noi c’è sempre stata stima e rispetto reciproco».

A proposito di battibecchi, famoso su YouTube è quello in cui tu ti sei trovato coinvolto, tra Fede e Paolini, davanti alla Federcalcio nei giorni di Calciopoli. Che effetto ti fa rivederti in quel momento?
«C’è un fuori onda che ha trasmesso Striscia la notizia tagliando la prima parte, quella in cui Fede mi chiedeva di passare a Paolini il microfono. Poi si è corretto, dicendo di dargli solo il mio auricolare, ma era troppo tardi: io non potevo più sentirlo. Quindi il direttore si è arrabbiato non poco. Certo, è anche divertente da vedere, ma mi auguro che la gente mi conosca per le cose serie che ho fatto, per il mio lavoro quotidiano e non per un episodio di quel tipo. Mi ritengo un giornalista vecchio stampo, che non cerca la notorietà a qualsiasi costo».

Chiudiamo con un sogno: qual è il male del mondo che vorresti cancellare?
«E' davvero un’utopia questa: la guerra è una cosa bruttissima, causata da troppi interessi, e cancellarla è quasi impossibile. Ritengo però che per un giornalista sia importante raccontarla, anche perché spesso ci sono gesti di altruismo inaspettati da parte della gente comune. E violazioni dei diritti umani, se denunciati, possono portare a maggiore consapevolezza dell’opinione pubblica. Se avessi la bacchetta magica, farei sparire dal mondo anche la fame, le malattie e la sopraffazione dei forti verso i deboli».

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