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Intervista a Patrizia Camassa (2) tutte le interviste
Patrizia CamassaTelegiornaliste anno III N. 3 (81) del 22 gennaio 2007

Patrizia Camassa, cantastorie dal cuore d’oro di Silvia Grassetti

«Noi siamo i cantastorie delle vicende più o meno belle della vita, quella reale, quella vissuta. Io l'ho sempre fatto con trasparenza e lealtà, talvolta scontrandomi con la politica del direttore. Se riesci a comunicare certe emozioni e il perché della verità, il perché sei obbligata a raccontarla senza filtri, più o meno è fatta».
Esordisce così Patrizia Camassa, giornalista dal 1999 e anchorwoman di Teleregione Puglia. Una amica di lunga data di Telegiornaliste.

Patrizia, sei una donna piena di interessi. Come mai hai scelto il giornalismo?
«Mi sono avvicinata a questa professione per curiosità e voglia dimettermi in gioco: nel 1983, appena diplomata, ho iniziato a collaborare con una televisione locale, ma mi occupavo di programmazione pubblicitaria nelle varie fasce orarie. L'ho fatto per otto anni. Nel frattempo mi sono sposata, mio marito Salvatore Guastella, calciatore, giocava in serie A con il Bari. Abbiamo avuto un figlio, Alessandro. Nel 1993, leggendo Il corriere dello sport, ho pensato: “Vuoi vedere che se provo a darmi al giornalismo ci riesco?”
Ma da dove potevo iniziare? Dal calcio! In edicola ho comprato tutti i settimanali nazionali e, molto umilmente, ho iniziato a chiamare. Al secondo tentativo Linda Maurizi, caporedattore di Goal della Edizioni Cioè, ha accettato la mia proposta di intervista a Gabriel Batistuta, all'epoca con la Fiorentina, ma in silenzio stampa. Dopo 48 ore, chiedendo aiuto ad amici di mio marito, ho mandato l'intervista e loro l'hanno pubblicata. E' iniziata così».

Patrizia CamassaE oggi?
«Oggi sono caporedattore di Teleregione Puglia. Lo dico con grande entusiasmo: ho dei colleghi meravigliosi, giornalisti e operatori, ci vogliamo bene, c’è grande dialogo.
Mi occupo anche di rubriche mie in ambito medico, sindacale e sportivo, ma la priorità è il tg, per il quale ogni giorno sono impegnata».

Qual è stata una esperienza forte che hai vissuto come donna e giornalista?
«Fra le esperienze più toccanti il terremoto di San Giuliano. Sono stata lì tre giorni, fino al giorno dei funerali. E' stato tristissimo, dalla ricerca disperata dei bambini sotto le macerie nella speranza che fossero salvi, al ritrovamento dei corpicini senza vita, le immagini delle piccole bare all'interno del palazzetto dello sport, i genitori straziati dal dolore. Una mamma, ricordo ancora, ha perso due bimbi, credo fossero gemelli. Era al centro tra i feretri, coperti di orsacchiotti e con le braccia era accasciata su entrambi, lo sguardo assente del tutto, anche della propria anima».

E’ dura fare la giornalista in una tv locale?
«Devi importi con umiltà e simpatia, mantenendo il giusto distacco, altrimenti rischi di essere bombardata di banali proposte "indecenti".
C'è molta competizione tra le tv locali e questo è un grande stimolo, ma troppo spesso gli editori non sono in grado di fare gli imprenditori, e si dimostrano commercianti. Hanno paura a dimostrare considerazione e rispetto per le tue qualità professionali, anche se porti la loro tv a livelli di prestigio».

Molte colleghe ci hanno detto che essere mamma e giornalista è una grande impresa…
«Certo non è facile conciliare il nostro lavoro con il ruolo di mamma e la famiglia in generale. Ma mi ritengo fortunata: mi sono sposata che avevo 21 anni, dopo due anni è nato Alessandro; per qualche anno mi sono dedicata a lui, poi ho ripreso a lavorare, ma lo portavo spesso con me o lo lasciavo con la nonna materna... sante nonne!
Ho vissuto dei momenti di rimorso per quello che non gli avevo dato, anche verso mio marito, però oggi guardandoli capisco che non ho fatto un cattivo lavoro!».

La tua professionalità è spesso riconosciuta anche con dei Premi…
«Come ti dicevo, alcuni dei premi che mi hanno dato, li ho dedicati alla famiglia, l'ultimo il Premio nazionale Antigone. Non me l'aspettavo, non è uno di quei premi a cui mandi un servizio, una giuria lo esamina e sceglie il migliore. Si tratta di un comitato formato da donne, che osservano, chiedono, si informano, indagano su quanto altre donne fanno. Quando hanno trovato qualcosa che secondo loro meritava attenzione e pubblico riconoscimento, mi hanno chiamano, chiedendomi le motivazioni che mi spingevano a fare del bene agli altri, come per i bambini all'estero o, qui in Italia, con istituti che si occupano di ragazzi con disagi familiari. Dopo qualche mese mi è arrivata la comunicazione.
La cosa più bella è stata che tanta gente ha confermato quei miei meriti, ed io l'ho trovata la gratifica e la ricompensa più bella per quello che faccio, spontaneamente».

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