Telegiornaliste anno V N.
22 (193) del 8 giugno 2009
Monika Bulaj, immagini dalla Terra di mezzo
di
Erica Savazzi
«Abbiamo viaggiato a lungo separatamente
talvolta – senza saperlo – sugli stessi treni
Poi abbiamo fatto il grande viaggio insieme
sull’effimera frontiera della fortezza Europa
Questo racconto a due voci
riassume un’esperienza di oltre vent’anni
Comincia prima della caduta del Muro
e finisce con nuovi muri
che spaccano il cuore del continente».
Le due voci di cui parla questo brano, tratto dall’introduzione della mostra
Europa verticale, fino al 30 agosto al Palazzo Ducale di Genova, sono
quelle di Paolo Rumiz, giornalista e scrittore, e di Monika Bulaj,
fotografa. La mostra rientra in una rassegna dedicata al ventennale del
crollo del Muro di Berlino, e racconta un viaggio tra Mar Baltico e Mar
Nero, nella “Terra di mezzo” dell’Europa.
Monika, come prepara un reportage?
«Lavoro su progetti molto lunghi. Vent'anni, dieci anni. I reportage sono la
conseguenza, il metro, la disciplina, il ritmo. Nascono dai grandi filoni
tematici che seguo da anni, che si intrecciano, che si inseguono, talvolta
sembrano prendere una nuova piega per tornare, con impeto, sul tema chiave,
sulla domanda più importante. Nascono dal sogno e dal senso di dovere e di
necessità. Ma non è un dovere triste, è la fonte di gioia inesauribile, una
passione fisica, una droga. La necessità, come la intendeva Simone Weil.
Inevitabile».
Quali sono le sue fonti d’ispirazione?
«Sono libri, libri e ancora libri, carte geografiche, incontri e viaggi.
Perché è il viaggio che costruisce il viaggio. Talvolta le idee vengono da
un film, un quadro o una fotografia, da una frase, dalle cose più disparate
e strane. Tutto conta. Poi l'intuizione e, soprattutto, le persone che
incontro, che mi ospitano, accolgono, sfamano, raccontano loro storie,
indicano la strada. Senza di loro non farei nulla. Vengo per incontrarli,
per stare con loro, guardare con loro, muovermi con loro, ridere e piangere
con loro».
Polacca di origine, trapiantata in Italia, Monika collabora con
D-La
Repubblica,
Io donna,
Internazionale,
National
Geographic e con altre testate italiane e straniere.
Nel suo lavoro si concentra sulla religiosità (i libri Gerusalemme
perduta e Figli di Noè, Genti di Dio) e sulla sua
espressione. Come mai ha scelto questo tema?
«Non so il perché e non me lo chiedo. Lo devo fare ed è giusto e bello
farlo. E questo interesse c'è da sempre».
Secondo lei c'è qualcosa che accomuna credo e religioni diverse?
«L'uomo».
Qual è il suo rapporto con la spiritualità? Venire a contatto con
religioni diverse ha portato in lei dei cambiamenti?
«La fede è la grazia, il dono. Non credo che questa ricerca ha portato
cambiamenti né modifiche, forse, piuttosto, ne è la conseguenza».
Una sua mostra si intitola Aure, cosa significa?
«Ho citato Ellemire Zolla, e il titolo del suo libro, per esprimere
l’inesprimibile. "In greco e in latino", scrisse, "si parla del fascino come
di una brezza, un'aura spirante dalle persone o dai luoghi, che a volte
cresce, diventa turbine, nembo, nube abbagliante, riverbero dorato, ingolfa
e stordisce". Questo lavoro è anche l'omaggio alla sua scrittura. È un
progetto di ricerca fotografica iniziato più di dieci anni fa sulla mistica
in religioni del Libro, sui confini dei monoteismi. Non è un lavoro di
documentazione, ma piuttosto l'esplorazione degli archetipi, dei temi
chiave, in 20 Paesi, dal Gibraltar (Gibilterra,
ndr) fino all'Asia
Centrale. Sogno, divinazione, danza, possessione, fuoco, acqua, tocco, il
Mistero dalla Passione, cammino, vuoto, soglie. Alla fine dei conti, sono le
immagini che, accostate seconda la logica visiva, parlano da sole».
Prossimi progetti?
«Tornare. In Afganistan, soprattutto. Sogno di passare l'inverno a Kabul.
Poi, anche in Iran ed Egitto, Asia Centrale, Russia, Africa.
Continuo la ricerca sulla mistica e il corpo nelle religioni del Libro –
Aure - e sui poveri».