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Telegiornaliste anno VI N. 20 (237) del 24 maggio 2010
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MONITOR Maria
Luisa Busi lascia il Tg1 di Pierpaolo Di Paolo
Non sembra avere fine il travaglio della televisione pubblica italiana.
Avevamo già
dovuto testimoniare con profondo dispiacere le tristi vicende che a marzo
hanno condotto all'epurazione di Tiziana
Ferrario, Paolo Di Giannantonio e Piero Damosso. Siamo ora costretti a
raccontare un altro doloroso capitolo, in questa infelice storia cominciata con
l'arrivo del nuovo direttore Augusto Minzolini:
Maria Luisa Busi si è licenziata.
Volto noto e professionista stimata, lascia la conduzione del Tg1. Lo annuncia
con una durissima lettera, indirizzata al direttore ed affissa nella bacheca
della redazione, nella quale denuncia il pesante clima che si è oramai creato
nella Rai ed il regresso subito dalla qualità dell'informazione della
principale testata giornalistica italiana.
Le sue parole spiegano questo clamoroso gesto.
Caro direttore, ti chiedo di essere sollevata dalla mansione di
conduttrice dell'edizione delle 20 del Tg1, essendosi determinata una
situazione che non mi consente di svolgere questo compito senza pregiudizio per
le mie convinzioni professionali. Questa è per me una scelta difficile, ma
obbligata. Considero la linea editoriale che hai voluto imprimere al giornale
una sorta di dirottamento, a causa del quale il Tg1 rischia di schiantarsi
contro una definitiva perdita di credibilità nei confronti dei telespettatori.
Come ha detto il presidente della Commissione di Vigilanza Rai Sergio Zavoli:
«La più grande testata italiana, rinunciando alla sua tradizionale struttura ha
visto trasformare insieme con la sua identità, parte dell'ascolto tradizionale».
Amo questo giornale, dove lavoro da 21 anni. Perché è un grande giornale. È
stato il giornale di Vespa, Frajese, Longhi, Morrione, Fava, Giuntella.
Il giornale delle culture diverse, delle idee diverse. Le conteneva tutte, era
questa la sua ricchezza. Era il loro giornale, il nostro giornale. Anche dei
colleghi che hai rimosso dai loro incarichi e di molti altri qui dentro
che sono stati emarginati. Questo è il giornale che ha sempre parlato a
tutto il Paese. Il giornale degli italiani. Il giornale che ha dato voce a tutte
le voci. Non è mai stato il giornale di una voce sola. Oggi l'informazione del
Tg1 è un'informazione parziale e di parte. Dov'è il Paese reale? Dove sono le
donne della vita reale? Quelle che devono aspettare mesi per una mammografia, se
non possono pagarla? Quelle coi salari peggiori d'Europa, quelle che fanno
fatica ogni giorno ad andare avanti perché negli asili nido non c'è posto per
tutti i nostri figli? Devono farsi levare il sangue e morire per avere l'onore
di un nostro titolo.
E dove sono le donne e gli uomini che hanno perso il lavoro? Un milione di
persone, dietro alle quali ci sono le loro famiglie. Dove sono i giovani, per la
prima volta con un futuro peggiore dei padri? E i quarantenni ancora precari, a
800 euro al mese, che non possono comprare neanche un divano, figuriamoci
mettere al mondo un figlio? E dove sono i cassintegrati dell'Alitalia? Che fine
hanno fatto? E le centinaia di aziende che chiudono e gli imprenditori del nord
est che si tolgono la vita perché falliti? Dov'è questa Italia che abbiamo il
dovere di raccontare? Quell'Italia esiste. Ma il tg1 l'ha eliminata. Anche io
compro la carta igienica per mia figlia che frequenta la prima elementare in una
scuola pubblica. Ma la sera, nel Tg1 delle 20, diamo spazio solo ai ministri
Gelmini e Brunetta che presentano il nuovo grande progetto per la
digitalizzazione della scuola, compreso di lavagna interattiva multimediale.
L'Italia che vive una drammatica crisi sociale è finita nel binario morto della
nostra indifferenza. Schiacciata tra un'informazione di parte - un editoriale
sulla giustizia, uno contro i pentiti di mafia, un altro sull'inchiesta di Trani
nel quale hai affermato di non essere indagato, smentito dai fatti il giorno
dopo - e l'infotainment quotidiano: da quante volte occorre lavarsi le mani ogni
giorno, alla caccia al coccodrillo nel lago, alle mutande antiscippo. Una
scelta editoriale con la quale stiamo arricchendo le sceneggiature dei programmi
di satira e impoverendo la nostra reputazione di primo giornale del servizio
pubblico della più importante azienda culturale del Paese. Oltre che i
cittadini, ne fanno le spese tanti bravi colleghi che potrebbero dedicarsi con
maggiore soddisfazione a ben altre inchieste di più alto profilo e interesse
generale.
Un giornalista ha un unico strumento per difendere le proprie convinzioni
professionali: levare al pezzo la propria firma. Un conduttore, una conduttrice,
può soltanto levare la propria faccia, a questo punto. Nell'affidamento dei
telespettatori è infatti al conduttore che viene ricollegata la notizia. E' lui
che ricopre primariamente il ruolo di garante del rapporto di fiducia che
sussiste con i telespettatori. I fatti dell'Aquila ne sono stata la prova.
Quando centinaia di persone hanno inveito contro la troupe che guidavo al grido
di vergogna e scodinzolini, ho capito che quel rapporto di fiducia che ci ha
sempre legato al nostro pubblico era davvero compromesso. È quello che accade
quando si privilegia la comunicazione all'informazione, la propaganda alla
verifica.
Ho fatto dell'onestà e della lealtà lo stile della mia vita e della mia
professione. Dissentire non è tradire. Non rammento chi lo ha detto
recentemente. Pertanto:
1)Respingo l'accusa di avere avuto un comportamento scorretto. Le critiche che
ho espresso pubblicamente - ricordo che si tratta di un mio diritto oltre che di
un dovere essendo una consigliera della FNSI - le avevo già mosse anche nelle
riunioni di sommario e a te, personalmente. Con spirito di leale collaborazione,
pensando che in un lavoro come il nostro la circolazione delle idee e la
pluralità delle opinioni costituisca un arricchimento. Per questo ho continuato
a condurre in questi mesi. Ma è palese che non c'è più alcuno spazio per la
dialettica democratica al Tg1. Sono i tempi del pensiero unico. Chi non ci sta è
fuori, prima o dopo.
2)Respingo l'accusa che mi è stata mossa di sputare nel piatto in cui mangio.
Ricordo che la pietanza è quella di un semplice inviato, che chiede
semplicemente che quel piatto contenga gli ingredienti giusti. Tutti e onesti. E
tengo a precisare di avere sempre rifiutato compensi fuori dalla Rai, lautamente
offerti dalle grandi aziende per i volti chiamati a presentare le loro
conventions, ritenendo che un giornalista del servizio pubblico non debba trarre
profitto dal proprio ruolo.
3) Respingo come offensive le affermazioni contenute nella tua lettera dopo
l'intervista rilasciata a Repubblica 2, lettera nella quale hai sollecitato
all'azienda un provvedimento disciplinare nei miei confronti: mi hai accusato di
«danneggiare il giornale per cui lavoro», con le mie dichiarazioni sui dati
d'ascolto. I dati resi pubblici hanno confermato quelle dichiarazioni. Trovo
inoltre paradossale la tua considerazione seguente: «il Tg1 darà conto delle
posizioni delle minoranze ma non stravolgerà i fatti in ossequio a campagne
ideologiche». Posso dirti che l'unica campagna a cui mi dedico è quella dove
trascorro i week end con la famiglia. Spero tu possa dire altrettanto.
Viceversa ho notato come non si sia levata una tua parola contro la violenta
campagna diffamatoria che i quotidiani Il Giornale, Libero e il settimanale
Panorama - anche utilizzando impropriamente corrispondenza aziendale a me
diretta - hanno scatenato nei miei confronti in seguito alle mie critiche alla
tua linea editoriale. Un attacco a orologeria: screditare subito chi dissente
per indebolire la valenza delle sue affermazioni. Sono stata definita «tosa
ciacolante - ragazza chiacchierona - cronista senza cronaca, editorialista senza
editoriali» e via di questo passo. Non è ciò che mi disse il Presidente
Ciampi consegnandomi il Premio Saint Vincent di giornalismo, al Quirinale. A
queste vigliaccate risponderà il mio legale. Ma sappi che non è certo per questo
che lascio la conduzione delle 20. Thomas Bernhard in Antichi Maestri scrive
decine di volte una parola che amo molto: rispetto. Non di ammirazione viviamo,
dice, ma è di rispetto che abbiamo bisogno.
Caro direttore, credo che occorra maggiore rispetto. Per le notizie, per il
pubblico, per la verità.
Quello che nutro per la storia del Tg1, per la mia azienda, mi porta a questa
decisione. Il rispetto per i telespettatori, nostri unici referenti. Dovremmo
ricordarlo sempre. Anche tu ne avresti il dovere.
Questa è forse solo la più clamorosa, tra le tante vicende che hanno
testimoniato la progressiva perdita di credibilità subita dalla Rai negli ultimi
tempi. Il patrimonio di professionalità costruito negli anni, e la fiducia della
gente nell'imparzialità del servizio pubblico, sembrano ormai compromessi. Non
resta che sperare, in una attesa forse vana, che la cara Mamma Rai torni
ad essere la televisione di tutti quale è sempre stata. Magari con un nuovo
direttore. |
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CRONACA IN ROSA Un'italiana
all'estero di Erica Savazzi
Partire è un po' morire. O forse no. Per qualcuno è la
salvezza. Per qualcuno è una possibilità. Per qualcuno è uno
strumento di crescita personale e, di questi tempi,
soprattutto professionale. Per qualcuno è semplicemente la
possibilità di guadagnarsi da vivere. Per me è tutte queste
cose messe insieme.
Io non sono un “cervello in fuga”. Non sono uno
scienziato, un ricercatore, un ingegnere. Sono semplicemente
una quasi trentenne tradita dalla tanto decantata piccola e
media impresa italiana, quella che ti lascia a casa dal
lavoro e dopo un anno devi ancora avere i soldi che ti
spettano.
Non sono un genio, non sono un luminare corteggiato e
vezzeggiato, sono solo una persona che ha studiato, ha delle
conoscenza, delle capacità, delle passioni e vuole provare a
sfruttarle tutte, utilizzarle, migliorarle. Sono
semplicemente una persona alla ricerca di una possibilità.
Possibilità che pare in questo nostro Bel Paese non
esistano. Culla dell'arte, della moda, del design, certo. Ma
che lascia le sue forze migliori in attesa, fra concorsi
pubblici con 10.000 concorrenti per 500 posti, fra infiniti
stage gratuiti ed eterni contratti a termine, orgoglioso del
suo passato ma incapace di guardare al futuro.
Io ci provo. Mi butto. Mi impegno. Al massimo che può
succedere? Che torno in Italia, mando centinaia di
curricula, e mi offrono un tirocinio, sei mesi, senza
rimborso spese, per portare caffè e fare fotocopie. |
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FORMAT Cosa
resterà? di Giuseppe
Bosso
Come di consueto, la stagione televisiva volge
alle battute finali e la maggior parte dei
programmi è prossima a congedarsi dal pubblico
per la pausa estiva, segnata quest'anno dalla
grande attesa per il mondiale sudafricano.
Volendo tracciare un bilancio complessivo di
questa annata 2009-2010, quella della
tanto attesa 'rivoluzione digitale', va
anzitutto sottolineato come il cosiddetto
switch off poco o nulla ha aggiunto al
panorama catodico italiano, e lo possiamo
riscontrare anche nelle dichiarazioni che ci
hanno rilasciato i colleghi e le colleghe che
abbiamo intervistato in questi mesi.
Passando ai contenuti, il discorso non è tanto
differente: poche novità, solita sostanza, le
solite immancabili telerisse
(tanto in Rai quanto in Mediaset, un po'meno
negli altri network) e un'informazione che non
sempre o non al meglio è riuscita a fare il suo
dovere.
E i personaggi? Decisamente la palma del
protagonista spetta al
principe-canterino-conduttore ex ballerino
Emanuele Filiberto: non encomiabile, a
dispetto del piazzamento finale, la sua
performance sanremese, così come non esaltante
la sua conduzione de I raccomandati e di
Ciak... si canta! Eppure è lui il volto
dell'anno. Un plauso a
Ilaria
D'Amico, tornata sugli schermi a tempo di
record dopo la sua gravidanza. Bene anche
Antonella
Clerici che a settembre, con buona pace
della bella e brava Elisa Isoardi, riprenderà il
timone de La prova del cuoco. In negativo,
invece, Barbara d'Urso che chiude la
stagione con una tutt'altro che gradita incetta
di Teleratti.
Purtroppo, però, di questi mesi ricorderemo
soprattutto tanti volti amati che non sono più
tra noi, da Mike Bongiorno a Raimondo Vianello,
passando per
Maurizio Mosca e il giudice Santi Licheri. |
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HOT GIRLS Il
toy boy mi accorcia la vita di
Valeria Scotti
Voglio vivere di meno ma felice. Soddisfatta. E
con un bel maschione al mio fianco,
rigorosamente più giovane. Proprio come
fanno le star di Hollywood.
Lo studio pubblicato sulla rivista Demography
e promosso dall'Istituto per la ricerca
demografica del Max Planck di Rostock, in
Germania, me lo sconsiglierebbe. Perché se lei
sceglie un uomo più piccolo, udite udite, ne
ricava un'aspettativa di vita inferiore alla
media. E ti pareva. Insomma, il passo dal letto
a due piazze alla bara è breve. La via d'uscita?
Eccola: scegliere al massimo un coetaneo.
La ricerca ha preso infatti in esame due milioni
di coppie danesi e ha evidenziato come una donna
che sposa un partner in media più giovane di 7-9
anni ha una mortalità maggiore del 20%
rispetto a quelle che preferiscono un coetaneo.
I mariti giovani non sono di aiuto,
dunque. Sven Drefahl, a capo dello studio, non
ha dubbi: «Tendono a violare le norme sociali e
quindi a incappare in sanzioni. Sposare un
marito più piccolo, inoltre, va contro ciò che
dalla società viene considerato normale, e
queste coppie rischiano quindi di ricevere meno
supporto sociale. Ciò può comportare una vita
meno felice e più stressante». Pazienza, ma
almeno morirò col sorriso sulle labbra. |
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DONNE Analìa
Pierini: in viaggio con la sclerosi multipla
di Chiara Casadei
Il viaggio della guarigione (The
Healing Trip): così l’ha ribattezzato la
43enne Analìa Pierini. Originaria
dell’Argentina, all’età di vent’anni si è
trasferita a Milano dove ha frequentato una
scuola di cinema conseguente a un diploma di
recitazione ottenuto a Rosario, città
natale. Nel 1997 però le è stata
diagnosticata la sclerosi multipla,
malattia cronica del sistema nervoso
centrale, e da allora tutti i sogni nel
cassetto sembrava dovessero essere messi da
parte una volta per tutte. «La mia malattia
rischia di farmi finire su una sedia a
rotelle: io per sfidarla ho fatto il giro
del mondo in cinquanta giorni».
Dopo due anni di pianificazione, la ricerca
di soluzioni low cost, di amicizie e sponsor
(la Bayer Italia con un contributo di 10
mila euro) che rendessero il viaggio un
progetto attuabile, Analìa parte finalmente
lo scorso ottobre da Milano con un piccolo
trolley rosso, una telecamera e un
mini-frigorifero contenente i medicinali di
cui necessita. Il tour de force è un
percorso di 40mila chilometri in 50
giorni di viaggio, con tappe veloci in nove
città di ben quattro continenti: Mosca,
Bangkok, Pechino, Tokyo, Sidney, Auckland,
Nadi alle isole Fiji, Los Angeles e New
York.
«In un mese e mezzo ho conosciuto circa 100
persone che, come me, convivono con la
sclerosi multipla ma in contesti sociali
diversi e con mille difficoltà. Posso dire
di essere fortunata a vivere in un Paese
dove esiste un sostegno sanitario e sociale
eccellente se messo a confronto con
l’assoluta solitudine nella quale vivono i
malati di sclerosi in Cina, Thailandia,
Russia». Sul suo blog l’avventura è narrata
in tre lingue (italiano, spagnolo e
francese), ci sono video a testimonianza
dell’avventura di Analìa, sia una conquista
personale che un messaggio di conforto e
di sostegno per chi è nella sua stessa
condizione. «L'importante per me era
riuscire a incontrare i malati di ogni parte
del mondo. Oggi sono felice: sono stata
accolta con un affetto decisamente oltre le
mie aspettative». |
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TELEGIORNALISTI Mariano
Sabatini, tutti i volti del giornalismo di
Valeria Scotti
Uno dei mestiere più ambiti e più difficili: il giornalismo. Gavetta,
raccomandazioni, scuole di giornalismo e molto altro ancora tra le pagine di
Ci metto la firma! La gavetta dei giornalisti famosi, l'ultimo lavoro
di Mariano Sabatini.
Giornalista professionista, Sabatini ha scritto di costume, cultura e
spettacoli e attualmente firma la rubrica di critica tv sul quotidiano
Metro, oltre a partecipare come opinionista in tivù e in radio.
Perché oggi non bisognerebbe perdere le speranze di entrare in un mondo
come quello del giornalismo?
«Eh, bella domanda! Io mi chiedo perché ci sia ancora qualcuno che voglia
fare questo mestiere. È durissima arrivare ad uno status degno. Nella carta
stampata, in tv o in radio l'andazzo è quello di non pagare i giovani,
restringere i compensi a tutti, fare i furbi... Il mio ultimo libro contiene
una provocazione: torniamo a fare la gavetta, non affidiamoci solo alle
università, per capire prima possibile, misurandoci sul campo, se abbiamo o
no le capacità o gli strumenti per cavarcela».
Il bene e il male del giornalismo oggi.
«Il bene è quello di sempre, è un lavoro bellissimo, se fatto con coscienza
e buona fede. Dare notizie, togliersi lo sfizio di dire la verità, o quella
che onestamente ci sembra tale, dare voce a chi non ce l'ha, metterci la
firma e potersi oltretutto pavoneggiare... essere anche pagati per questo!
Che c'è di meglio!? Il male è quello che ho descritto prima, e poi oggi c'è
una pletora di velleitari. Internet ha dato anche all'ultimo blogger
l'illusione di potersi dire giornalista. Spesso molti di loro si prestano a
fare da cassa di risonanza del potere, soprattutto quello televisivo. Più o
meno consapevolmente si fanno usare, cosa che un giornalista non dovrebbe
mai fare».
Cosa ne pensi invece dei giornalisti che si dedicano esclusivamente al
web oggi, tralasciando tv e carta stampata? Sono degli illusi o dei
perdenti?
«No, in quel caso si tratta di un tentativo di perseguire quella che sembra
la via de futuro. Già c'è tanta gente che si informa solo attraverso la
Rete. Grandi gruppi editoriali internazionali stanno scommettendo
sull'online, qui da noi Angelo Perrino con Affari italiani fa un
lavoro eccellente, Dagospia dal 2000 fa un'informazione effervescente, il
gruppo Tiscali, Virgilio, etc. Il problema per i giornalisti è che Internet
non dà ancora, in termini di ritorno economico, quello che promette. Il
discrimine è quello, altrimenti rimane un hobby».
Ci metto la firma! La gavetta dei giornalisti famosi: tra aneddoti
ed esperienze altrui, se tu dovessi indicarmi una morale di questo libro?
«Ricevo tantissime e-mail, quasi ogni giorno. Tutti mi dicono di aver
apprezzato le tante voci, le esperienze, i racconti sul mestiere di grandi
colleghi come Feltri, Piroso, Mannoni, Mastrogiacomo, Cuffaro, Cazzullo,
Sotis, Capuozzo, Giordano... Oltre a loro, sessanta grandi firme, c'è nel
mio piccolo anche la mia, di esperienza. Racconto come un ventenne, senza
amicizie o appigli familiari, sia riuscito ad arrivare in tv grazie
all'incontro con un professionista illuminato come Luciano Rispoli. Negli
anni Novanta dello scorso secolo, nella redazione di Tappeto volante
in onda su Telemontecarlo ho imparato le regole di un giornalismo popolare,
rispettoso, rigoroso. Io ammiravo Rispoli, anche da spettatore, e non
perdevo occasione per spedire lettere a destra e a manca per magnificare le
sue caratteristiche. Direttori di rete, anchormen, giornalisti, tutti
dovevano sorbirsi le mie sperticate "recensioni" su Rispoli e tutti glielo
riferivano. Così Luciano, quando lo chiamai per un'intervista perché nel
frattempo avevo cominciato a collaborare al Tempo di Roma, mi chiese
di sostituire un suo autore. La tenacia premia, dunque, questa è la morale».
Riguardo al futuro giornalistico, su cosa metteresti la firma?
«Sul fatto che avremo un giornalismo sempre più crossmediale, tutti i generi
in interconnessione: quotidiani online, news sul telefonino, web radio e web
tv e via dicendo. Sono anche convinto che passerà 'a nuttata, come diceva
Eduardo, e ci lasceremo alle spalle questo bruttissimo periodo economico,
avvilente per il giornalismo».
Un consiglio/suggerimento dal quale consigli di diffidare?
«Mai credere a chi ti dice di non disturbare i potenti. Io ogni giorno nella
mia rubrica sulle pagine del quotidiano Metro tiro mazzate ai
teledivi, conduttori e dirigenti, che se lo meritano. Il prezzo da pagare è
una certa emarginazione, ma la libertà non ha prezzo e ho la stima dei
lettori, due milioni al giorno per il mio giornale, che mi scrivono e mi
fermano per la strada. Devo ringraziare il mio direttore, Giampaolo Roidi,
che mi lascia la più ampia agilità di manovra e mi difende dagli attacchi
dei personaggi più supponenti».
Una parola, un episodio, una persona, insomma un qualcosa che, fino a
oggi, potrebbe riassumere la tua carriera come giornalista.
«È legata sempre a Rispoli, mi spinse a cercare Macello Mastroianni in un
periodo in cui tutti volevano intervistarlo per una sua presunta
dichiarazione sull'alito della morte che avvertiva sul collo. Chiamai la
moglie Flora, riuscii a convincerla a darmi il numero dell'albergo dove
l'attore si era rifugiato. Marcello mi maltrattò ma dovette intuire la buona
fede dei miei ventitré anni, così accettò di collegarsi con lo studio del
Tappeto volante in cui Rispoli stava intervistando Vittorio Gassman. Mi
affrettai a trascrivere e a passare alle agenzie il colloquio dei due
grandissimi divi e il giorno dopo finimmo sul Corriere della sera e
altri giornali. Lo considero un mio piccolo scoop». |
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SPORTIVA Il
sogno vietato di
Pierpaolo Di Paolo
Farah Malhass, 26 anni, è una donna con uno
scopo nella vita: diventare una body builder
professionista.
Questa non è certo un'aspirazione comune tra le
ragazze, non almeno quanto il sognare il principe
azzurro con cui metter su famiglia o altri
stereotipi del genere. Tuttavia questa passione, per
una persona come Farah, comporta problemi ben
maggiori dell'essere incompresa dai conoscenti o
guardata come se fosse un "animale strano". Ciò per
un ragione precisa: Farah Malhass è giordana.
Il suo sogno è stato oggetto di una decisa
disapprovazione da parte della famiglia, e delle
critiche e dell'ilarità delle donne del suo Paese.
Ma non è certo finita qui. La ragazza è ovviamente
diventata bersaglio degli esponenti conservatori
giordani. La Federazione di body-building della
Giordania si è rifiutata di accettare una donna tra
i suoi tesserati, ma tutto questo non l'ha fatta
perdere d'animo. Con un coraggio ed una
determinazione invidiabili, lei ha continuato a
difendere il suo sogno. A settembre si
presenterà ad una competizione amatoriale in Canada
e per lei potrebbero aprirsi le porte delle
competizioni professionistiche, con buona pace delle
Federazione giordana.
In alcuni Paesi, l'unico modo in cui una donna può
vivere sembra essere il non mettersi mai troppo
in mostra, lo starsene sempre al sicuro
nell'ombra. Se la propria personalità ti induce ad
un tipo di vita non convenzionale, non ritenuto
consono per una donna, allora meglio annientare il
proprio io ed evitare guai. Ma Farah non sembra
proprio il tipo da starsene buona buona
nell'anonimato. «Sei qualcuno solo quando smetti di
essere nessuno» è la frase che ama ripetere e che si
è fatta anche tatuare sul corpo. Un corpo che lei
ostenta fiera rappresentando, con tutti i suoi
muscoli e tatuaggi, una sfida simbolica ad un
mondo che, incurante della sua personalità, non
vorrebbe altro che ridurla nei giusti canoni
convenzionali. |
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