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Telegiornaliste anno IV N. 20 (145) del 26 maggio 2008
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MONITOR
Luisella Costamagna, la fortuna di lavorare in
"isole felici" di Giuseppe Bosso
Una lunga carriera alle spalle quella di
Luisella Costamagna, caratterizzata da collaborazioni con nomi importanti:
Michele Santoro, Maurizio Costanzo. Dal 2007, Luisella è a La7 nel programma
Omnibus.
Scherzando, chi butteresti dalla torre: Santoro o Costanzo?
«Nessuno dei due!».
Quanto hai imparato da questi due personaggi?
«Tanto. Entrambi mi hanno insegnato aspetti diversi del nostro mestiere. Michele
tende ad essere più provocatore, Maurizio ha sviluppato una televisione vicina
alla gente creando un rapporto diretto con il pubblico, senza però rinunciare a
occuparsi di temi scomodi. Devo molto anche ad Antonello Piroso che mi ha voluta
a La7».
Rai, Mediaset, La7: dove ti sei trovata meglio?
«In tutte e tre le aziende ho avuto la fortuna di vivere in vere e proprie
"isole felici". È stato così ai tempi di Sciuscià in Rai, con Maurizio a
Canale 5 e anche adesso a La7. Ho avuto la possibilità di lavorare con la
massima libertà di espressione e di parola. Non sono mancati, certo, momenti
poco piacevoli, come quando Michele Santoro fu costretto a chiudere il programma
dopo le elezioni del 2001. Esperienze dure che, però, mi hanno permesso anche di
fare scelte diverse come quella di accettare la proposta da Maurizio Costanzo
durante i mesi dell’"editto bulgaro". Ma a parte questi spiacevoli momenti, mi
ritengo molto fortunata».
Come è stata quest'ultima campagna elettorale?
«Mah, sicuramente è stata molto strana per il clima che l’ha caratterizzata:
crisi di governo improvvisa, forti spinte antipolitiche, sfiducia generale e, su
tutto, i timori della grave crisi economica che incombe sul nostro Paese. Non è
stato facile per nessuno riuscire a districarsi in questo contesto, dal PD che
forse non ha avuto il tempo di fare la campagna elettorale che Veltroni aveva in
mente a Berlusconi stesso che, pur vincendo, ha pronunciato forse per la prima
volta nella sua carriera politica una frase forte come “Dovrò fare scelte
impopolari”.
Ti è capitato, a Omnibus, di trovarti alle prese con ospiti fuori
dalle righe?
«Se intendiamo persone non molto disposte a rimanere negli spazi a loro
disposizione, che interrompono gli altri o che cercano di andare oltre i tempi
in cui hanno la parola, è una cosa che può capitare: la dialettica, anche
accesa, è il pane di programmi come Omnibus, anche se da noi il livello
di civiltà e rispetto è sempre piuttosto alto. Il ruolo del conduttore,
comunque, è importante non solo per gestire il dibattito, ma anche per mediare
tra gli ospiti e riportare la discussione negli schemi che le sono propri».
Ci sono stati argomenti e temi che avresti voluto trattare in maniera più
approfondita?
«Da quando ho iniziato, e cioè dalla scorsa estate, non sono mai mancate
occasioni per affrontare temi attuali e sempre di grande interesse. Per forza di
cose, negli ultimi tempi, la politica ha assunto un ruolo di primo piano, ma non
abbiamo certo trascurato altre vicende, purtroppo non di rado dolorose come gli
infiniti morti sul lavoro e le tante vittime di incidenti stradali, il
precariato, la violenza sulle donne oppure il caso Alitalia. Credo che allo
spettatore interessi approfondire i fatti del giorno».
Cosa pensi della crociata anti Ordine dei giornalisti intrapresa da Grillo?
«Non è stato certo Grillo a dare inizio a una questione che esiste da tempo
immemorabile. Personalmente non ho nulla contro l’Ordine: il vero problema è
come viene percepita la figura del giornalista, sempre più spesso considerato
parte integrante della “casta”. Se la nostra professione fosse migliore, avrebbe
più senso anche l’Ordine che la rappresenta».
Paola Cambiaghi, in una
nostra intervista, citò te come modello ideale di donna che riesce ad essere
nel contempo bella e brava sul lavoro. Ma è vero, secondo te, che molte donne
rinunciano alla loro immagine fisica pur di non apparire poco professionali?
«Ringrazio Paola e ricambio i complimenti. Non condivido molto questo
ragionamento. Io credo che non si debba generalizzare: ci possono essere buoni o
cattivi professionisti a prescindere dall’aspetto. È ovvio poi che, per lavorare
in televisione, sia importante avere un’immagine curata – così come devi avere
una bella voce per lavorare in radio – ma è evidente che la sola estetica non
può bastare».
Due volte vincitrice del campionato delle telegiornaliste. Cosa pensi della
nostra iniziativa?
«Molto divertente, sia per me che per le altre mie colleghe. Magari qualcuno
inizialmente avrà pensato che tutti i commenti e tutte le discussioni fossero
basate unicamente sull’aspetto fisico, ma ho potuto constatare di persona che
non c’è solo questo. Anzi, non sono pochi i fans che intervengono anche per
esprimere commenti sulla professionalità e sulla competenza. Ho anche letto
commenti un po’ critici nei miei confronti, ma pure questo è utile e fa parte
del nostro mestiere».
Al di là del campionato, sei una celebrità anche per molti altri ammiratori
che hanno creato siti e fan club su di te. Cosa ti ha suscitato questa cosa?
«Premetto di non avere, a differenza di altri, la mentalità e la costanza di
seguire personalmente un sito che parli di me. Rispetto chi lo fa, ma non lo
farei mai in prima persona. Per il resto, fa comunque piacere vedere che c’è
qualcuno che ti segue e si interessa al tuo lavoro. Mi capita di ricevere
moltissime mail dagli spettatori che mi raccontano di come mi seguono, e anche
questo è utile per migliorarmi, oltre a essere un riconoscimento molto
importante».
L’esperienza più particolare che ricordi del periodo passato accanto a
Maurizio Costanzo su Canale 5?
«Tante. Lavorare con Maurizio è una sorpresa continua perché non c’è argomento o
personaggio di cui non ci sia modo di parlare. Cerca sempre di essere vicino
alle esigenze degli spettatori e ha una grande capacità di spaziare dall’alto al
basso. Ho visto personaggi della politica e dello sport, dello spettacolo e
della cultura, alternarsi di continuo nel suo salotto. Per me sono stati anni
molto interessanti e formativi». |
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CRONACA IN ROSA
Liberi di censurare di
Camilla Cortese
Metti una sera in Cina, gesti banali e quotidiani come
accendere il computer, connettersi ad Internet, navigare. Un click, e con
Baidu (il più popolare motore di ricerca), si trova tutto ciò che si vuole,
o meglio, ciò che il governo vuole. Metti una democratica sera negli Stati
Uniti, gesti consueti come eleggere un presidente nero, bombardare l’Iraq,
esportare la democrazia. Il bel ragazzone americano clicca su Google e il
mondo diventa a portata di mouse. Il sogno americano passa anche per il web, e
allora un povero piccolo cinese deluso da
Baidu che fa? Digita Google.
Google, detto G. per gli amici, nacque come Gesù
bambino in un luogo inospitale, non nella capanna di Betlemme ma nel garage di
Mountain View, in California, da due genitori illuminati sì, ma dal sacro
spirito della matematica e delle scienze informatiche, Lawrence Edward Page e
Sergej Mikhailovič Brin. Era il 1998 quando l’azienda fu fondata in base
all’intuizione secondo cui un motore di ricerca basato sull'analisi matematica
delle relazioni tra siti web
avrebbe prodotto risultati migliori rispetto alle tecniche
empiriche.
Dieci anni e milioni di dollari dopo, il consiglio di
amministrazione di G. respinge quasi all’unanimità le due proposte in favore di
una lotta alla censura da parte dell'azienda: no all'introduzione di
norme per impedire la collaborazione attiva con la censura, no alla creazione di
una Commissione per i diritti umani. In barba alle proposte di Amnesty
International.
Astenutosi dal voto, il cofondatore Brin ha ammesso che
l’attuale collaborazione di G. con le autorità censorie tradisce in qualche modo
la linea originaria
dell’azienda e la sua fondamentale missione, ma ha
giustificato la propria astensione per un vizio di forma nella stesura della
proposta.
E così la Grande Muraglia informatica continuerà a
selezionare le informazioni sensibili grazie a stratagemmi inventati proprio
negli Stati Uniti, e il povero piccolo cinese interessato a documentarsi su
Piazza Tienanmen o sul Tibet non otterrà aiuto dal democratico Google.
Cliccherà Baidu, che almeno censurerà con grazia orientale: dando un
preavviso di interrogazione filtrata.
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FORMAT
Afriradio: salvare l’Africa con l’Africa di
Federica Santoro
In seno a una tradizione di più di 120 anni della
rivista Nigrizia, è nata sul web
Afriradio, la voce dell’Africa in Italia.
Ventiquattro ore di musica,
informazione approfondita, intrattenimento,
cultura e storie per riscoprire il
Continente Nero e per metterne a fuoco i problemi. Una radio nata per sovvertire
l’afropessimismo
e per mostrare tutte le potenzialità e le
straordinarie diversità dei popoli africani.
Le prime trasmissioni sono cominciate il 21
aprile. Per ascoltare la radio via web, basta collegarsi al
sito di Afriradio. «Uno dei nostri prossimi
obiettivi - spiega Fabrizio Colombo, direttore di Nigrizia Media - sarà quello
di portare la radio in modulazione di frequenza, proporre trasmissioni in più
lingue e dare spazio a tutte le associazioni che condividono la nostra voglia di
far conoscere all’Italia un’altra Africa».
Un progetto di Missionari Comboniani
di Nigrizia, lo storico mensile di
approfondimento socio-economico e culturale sul continente africano e di
Nigrizia Multimedia, che promette di sovvertire la visione stereotipizzata di
un’Africa povera, sinonimo di fame, guerre e malattie, mostrandoci la vera anima
del continente.
Un’esperienza d’incontro interetnico, di
condivisione e di rispetto per le diverse tradizioni e fedi religiose. Ma
Afriradio è anche una fonte d’informazione privilegiata che arriva direttamente
dalle missioni e dai giornalisti che operano nel continente e, per questo,
alternativa al quotidiano mainstreaming,
svincolata dalle logiche di potere economico
e politico che regolano il panorama mediatico contemporaneo: la radio di
un’Africa solare che si muove verso il futuro con grande ottimismo e speranza.
Attraverso la forza della sua cultura e dei suoi
artisti, Afriradio propone una programmazione a tutto tondo, dal cinema allo
sport, passando da semplici curiosità sul continente ad appassionanti racconti
di vita. Tra gli speaker troviamo giovani africani come Malice e Alix che
conducono Africa corner, uno spazio dedicato alle stravaganze del
continente, o Fortuna che ci porta ogni settimana a scoprire l’economia africana
con il programma Kwanza. |
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CULT Francesco
Gazzè, una vita intorno alla scrittura
di Valeria Scotti
Francesco Gazzè
è un autore completo. Poeta, scrittore, paroliere delle canzoni del fratello
Max. Dotato di una creatività preziosa - le sue parole scelte sempre con cura e
le espressioni evocative e mai banali ne sono la testimonianza - Francesco ci ha
regalato una lunga chiacchierata.
Giochi e lavori con le parole. Definiamo il tuo rapporto con la scrittura?
«E’ sicuramente un rapporto d’amore. Ho cominciato con poesie molto diverse che
ho anche rinnegato più volte (ride, ndr), ho scritto dei libri intorno ai
25 anni, poi lavorando con Max sono arrivato alle canzoni. E’ una crescita
continua perché si cerca di sperimentare sempre cose nuove. Ne ho fatta ormai
una specie di religione: la scrittura e il suono delle parole hanno riempito
tutta la mia vita».
Tra le pubblicazioni passate del Gazzè poeta, ci sono quattro raccolte di
poesie - Piovve su Emilia, Delirio minimo, Scorribande lineari,
Frammento e Fragile - che però non sono più in commercio...
«Furono pubblicate da piccoli editori che non hanno poi più fatto delle
ristampe. Ho selezionato comunque alcune di quelle mie poesie e le ho raccolte
in una silloge che conto di fare uscire nel 2009, visto che la poesia è stata il
primo amore. E poi ci sarà anche la pubblicazione di un romanzo a cui sto
lavorando orami da due, tre anni».
Come vivi la situazione attuale della poesia?
«La poesia è ormai inserita in vari campi come il cinema o la musica: spesso
nelle canzoni si avverte qualche traccia. Ma da sola, purtroppo, quasi non viene
più letta. L’amore per il suono della parola è un po’ sparito, ma è giusto che
ci siano anche altre forme che hanno sostituito la poesia. E’ comunque arte che
gira, la stessa passione sotto altre forme».
Nelle canzoni che scrivi con tuo fratello Max c’è sempre grande surrealismo,
come se i testi fossero “sospesi”. E’ una tua necessità? Quanto rubi dalla
realtà?
«E’ un gusto personale, un mio approccio alla scrittura che rimarrà sempre tale.
Mi piace creare la tensione tra una frase e l’altra, tra una strofa e l’altra,
anche tra il senso generale e il titolo. E poi è una sperimentazione con un
minimo di marchio che possa ricordare e far riconoscere il mio stile. La realtà
c’è sempre nelle canzoni che scrivo. L’ho solo parcheggiata nel libro che ho
pubblicato nel 2002 per Baldini&Castoldi, Il terzo uomo sulla luna».
Lavorare tra fratelli...?
«E’ addirittura più difficile. Siamo molto diversi come carattere, come
filosofia e poi abitiamo in città diverse. Nonostante questi ostacoli, quando
siamo insieme ci concentriamo e in quelle ore diamo il massimo, senza
risparmiarci».
Come agisce il Gazzè paroliere?
«Se lavoro su canzoni di Max, prendo la sua musica e l’ascolto per giorni,
finché non viene qualche idea o suono di parole che possa accordarsi. Ci sono
anche le assonanze che dettano legge, quindi c’è tutto un discorso tecnico da
portare avanti. Se invece si tratta di una mia canzone con chitarra e voce, la
porto a Max: molte volte nasce la prima strofa con la musica a cui poi aggiungo
il testo e si svolge tutto all’unisono. Altre volte scrivo delle poesie e se Max
le trova interessanti, compone poi la musica. Sono tre metodi validi che da una
decina di anni utilizziamo. Non ho preferenze e finché continuerò a divertirmi,
procederemo così».
Hai partecipato anche a Liquido, il nuovo album degli Equ…
«Sì, ho conosciuto i ragazzi nel 2005. Quando mi hanno chiesto di partecipare
attivamente al loro lavoro, mi sono reso subito disponibile: sono delle persone
che meritano molto a livello artistico. Da un paio di anni ho cominciato a
lavorare anche per altri artisti. Fino adesso, con Max, quasi non ne abbiamo mai
parlato: è un discorso sottotraccia che non vuole disturbare il nostro
rapporto».
E tra le tue esperienze, nel 2006 ti sei cimentato nel creare un racconto
partendo da un brano di Tenco, Tu non hai capito niente, per Non sono
io il principe azzurro: antologia su Tenco. Come è nata quell’esperienza?
«La richiesta arrivò da un giornalista e, nel giro di un paio di giorni, scrissi
Il primo passo: parla dell’incomunicabilità di una coppia, soprattutto
quando si tratta di esternare i sentimenti. Spesso ci troviamo in un imbarazzo
che non permette alla coppia di vivere appieno il rapporto, vuoi per timidezza,
esitazione, esperienze sbagliate. E molte volte, quando non si fa questo primo
passo, si rischia di distruggere un rapporto idilliaco».
E' sempre più evidente l’assenza preoccupante di talento. Per le tue
capacità, ti senti un privilegiato?
«Sì, e non è una questione di presunzione. Io non amo molto l’immagine, i
clamori: preferisco mettere a frutto la creatività per poi mandare avanti gli
altri. Se non avessi lavorato con Max, forse tutto questo non sarebbe successo.
In ogni caso, la mia è una condizione privilegiata, un po’ come tutti gli
autori, scrittori, compositori. Per me il lavoro “dietro le quinte” è meno
stressante e molto più appagante rispetto a quello di chi si espone al
pubblico».
Un’ultima curiosità: da giovanissimo lavoravi in banca… e poi cosa è
successo?
«Essendo appassionato di informatica e di titoli, all’inizio ero contento di
questo lavoro, ma negli anni mi sono reso conto che qualcosa non quadrava. Ho
dovuto prendere una decisione, tra la disperazione di molti, e alla fine ho
fatto benissimo. Sono stato appoggiato da mia moglie e con lei ho aperto una
società di edizioni. Sono sicuramente molto più appagato ora e non tornerei mai
indietro». |
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DONNE La
donna che scoprì le gambe di
Chiara Casadei
Fin dall'adolescenza era stata una donna fuori dal comune,
che amava rompere gli schemi e vivere in modo libero. Mary Quant, più
conosciuta come l'inventrice della minigonna, nel lontano 1955 - all'età di
sedici anni - se ne va di casa, abbandonando il futuro da insegnante che i
genitori avevano in mente per lei.
Vuole assaporare la "bohéme" a Londra. Qui incontra
ragazzi che, come lei, sentono il bisogno di rompere con le tradizionali e
rigide abitudini del paese. Unendo le loro forze, Mary e i nuovi amici aprono un
ristorante e un bazar che cominceranno ad attirare sempre più giovani, ma anche
personaggi del cinema e del teatro.
Mary si sposa ma il matrimonio non la converte a casalinga:
rimane una donna di successo, lancia una linea di cosmetici (1966) e una
collezione di calzature (1967).
La sua fama non finisce qui. Nel 1966 riceve dalla regina
Elisabetta l'onorificenza di Cavaliere della Corona Britannica, che
l'anno prima era stato assegnato ai suoi idoli: i Beatles.
La sua spregiudicatezza non si è fermata davanti a niente:
Mary Quant ha perseguito con costanza e passione quello che amava fare e la vita
che voleva vivere. La sua creazione più importante e significativa a livello
storico, la minigonna, si dice fu ispirata dalla pop art, e Mary stessa
ne parla in questi termini: «Le vere creatrici della mini sono le ragazze, le
stesse che si vedono per la strada».
Modella per questo capo d'abbigliamento innovativo sarà
Leslie Hornby, detta Twiggy (grissino, ndr), che incarnerà un
nuovo tipo di donna e avrà una carriera brillante, di cui ricordiamo quattro
copertine di Vogue
e la nomina di "Volto del 1966" da parte del Daily Express.
L'importanza di Mary Quant non è stata solo quella di creare
la "mini". Ha incarnato un prototipo di donna d'affari, indipendente e
autosufficiente, in grado di costruirsi il proprio futuro e un percorso
personale. Questo apporto sociale sarà determinante per spronare sempre più
giovani donne a seguire il proprio istinto e la propria vocazione. |
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TELEGIORNALISTI
Oliviero Beha: non sapete di sapere di
Erica Savazzi
Se decidete di trovarlo, dovete cercare bene. Non perché si voglia nascondere,
tutt’altro: se sei un giornalista che non rinuncia alla funzione sociale
– sì, funzione sociale – di osservare e denunciare le malefatte dei
potenti, di ricordare al lettore il luogo da cui veniamo e quello in cui
ci siamo ritrovati, e perché, è difficile che ti invitino ai
salotti televisivi. O che ti lascino parlare.
Oliviero Beha fa parte
della sempre più sparuta schiera di giornalisti che non rinunciano ad
informare. «Pago molti prezzi di censure ed
emarginazione – dice ai nostri microfoni -, ma fino adesso ho avuto la
fortuna di trovarmi con persone grandi, medie, piccole con cui avere un buon
rapporto editoriale, come
Avagliano Editore. Un piccolo editore garantisce un’attenzione e una
nicchia motivata,
ragionata, che i grandi, naturalmente, non prevedono».
La sua ultima fatica,
Il paziente italiano, in uscita il prossimo giugno, segue a distanza di
vent’anni Trilogia della censura: «Erano tre libri, stampati e mai
distribuiti, editi ma inediti. Un’operazione curiosa che serve più che
altro a far memoria». Mentre «oggi si tratta di un’operazione di attualità –
continua il giornalista -, un diario degli ultimi due anni».
Ma cosa vuole dirci Il paziente italiano? «Sta già tutto nel titolo:
noi siamo pazienti, in due sensi: siamo malati… E siamo fin troppo
pazienti».
Dell’essere malati a volte non siamo consapevoli: l’eccesso di informazione
rischia di coincidere con la mancanza di informazione. «Ci sono tre aspetti: la
quantità dell’informazione che schiaccia la qualità, le
notizie vistate all’origine, la mancanza di consapevolezza. La gente sa,
ma non sa di sapere, e questo rende quasi nullo il livello di
informazione che c’è. Se uno, le cose che sa, non sa di saperle, è finita».
Fortuna che c’è il web: «Se c’è una cosa di cui per il momento, e per
il futuro, non si può fare a meno, quella è proprio internet.
Anche se siamo arretrati, abbiamo molto spazio davanti, molta strada da fare».
Possiamo guarire.
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SPORTIVA
Alina Kabaeva: sogno d'amore infranto
di Pierpaolo Di
Paolo
Poteva sembrare un sogno, quello della bella
Alina Kabaeva, campionessa, modella e
ora deputata russa, che secondo i giornali ha vissuto una storia d'amore
con
Vladimir Putin.
Venticinque anni, due mondiali e un oro ad
Atene 2004 nella ginnastica ritmica, una
triste vicenda di doping alle spalle, l'atleta ha ammaliato gli esperti
del settore per l'incredibile scioltezza di schiena
e capacità di slancio dimostrate. Ma Alina
non è solo una donna di sport: la sua bellezza e il suo fascino l'hanno
condotta prima sulla strada della moda e della
recitazione, e da ultimo a una
fulminante carriera politica, culminata lo scorso anno con l'elezione
nella Duma di Stato per il partito Russia Unita. Nel suo paese è un'icona, un
personaggio già quasi leggendario.
Proprio in questi giorni, alla vigilia delle
Olimpiadi di Pechino, atleti di tutto
il mondo stanno perfezionando la loro preparazione in vista di quella che
potrebbe essere la più importante competizione sportiva della loro carriera.
Alina avrebbe potuto essere protagonista di questa rassegna, ma secondo i
giornali russi il suo reale programma ben poco aveva a che fare con allenamenti
e gare. Le Olimpiadi aveva intenzione di vederle da un
lussuoso yacht sul Mar Nero, dove tutto
sembrava pronto per una vacanza da sogno con Putin.
Una storia d'amore capace di mandare in
fibrillazione i media russi, tanto che diversi giornali, probabilmente anche a
causa di una "sindrome di Sarkozy", si sono convinti che il Primo
Ministro russo fosse persino in procinto di divorziare
dalla moglie Ljudmila pur di convolare a
nozze con la bella ginnasta.
Ma anche quello che a tutti sembra un sogno
romantico, visto attraverso gli occhi cinici del potente di turno può diventare
di colpo solo la solita squallida e scontata
storiella.
Il 18 aprile Putin, in visita a Portorotondo,
coglie l'occasione di una conferenza stampa con l'amico Berlusconi per smentire
le voci di un suo prossimo matrimonio e, forse, per dare il benservito in
diretta alla Kabaeva: «Alcuni giornali hanno riportato questa notizia, altri
parlano di altre donne belle e di successo. Non è un mistero che mi piacciano le
donne, ma il resto è frutto di fantasia». Scrivete pure che sono un latin lover,
ma poi non volate troppo con fantasie romantiche, sembra il messaggio.
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