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Telegiornaliste anno IV N. 6 (131) del 18 febbraio 2008


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MONITOR Teresa Iaccarino, giornalista e volto storico di Telecapri di Giuseppe Bosso

Sono in molti a ricordare Teresa Iaccarino come annunciatrice e conduttrice di programmi per bambini. Poi, la svolta verso il giornalismo. Oggi Teresa, giornalista pubblicista per scelta, presenta eventi e manifestazioni di Telecapri. Tra i suoi programmi di successo, Storie di mare e 7 in cronaca.

Da annunciatrice e conduttrice di programmi per bambini a giornalista. Come mai questo cambiamento?
«Non è stato un cambiamento. Nella vita si cresce, ed io con i bambini ho giocato e mi sono divertita. A 17 anni, ho iniziato a Telecapri un percorso che non rientrava assolutamente in quello che avevo in mente di fare nella vita. Il gioco è stato bello, ma come ogni cosa prima o poi finisce. Di conseguenza devi guardarti intorno. Ho avuto la fortuna di poter cominciare questo percorso nello stesso gruppo in cui sono cresciuta. Tuttora continuo con la stessa passione di sempre».

Che effetto ti fa rivedere i tuoi video di quel periodo su YouTube?
«Ne approfitto per ringraziare i cari ragazzi che con tanto impegno hanno raccolto questo materiale. Direi che è la più bella ed evidente dimostrazione di affetto che si possa ricevere. Riguardo con tenerezza quelle immagini, ricordando aneddoti simpatici legati ai miei siparietti con Uffi o al cucciolo di tigre. E mi fa piacere, quando intervisto la gente, essere spesso riconosciuta proprio per quel periodo».

Nel pubblico di oggi, ritrovi quei bambini che ti seguivano?
«Sì, tantissimi. Alcuni hanno anche raggiunto posizioni di rilievo, ed è bello che conservino quei ricordi della loro infanzia. In tanti mi dicono “Una volta ho anche partecipato al gioco con Uffi”, oppure “Le ho scritto e ha letto la mia lettera nella trasmissione”. Provo tantissima gioia perché mi considerano una persona di famiglia. Sono cose piacevoli».

Cosa rappresenta per te Telecapri?
«E’ una parte della mia vita. Ho mosso i miei primi passi nella tv e da qui non me ne sono mai andata. L’ho vista nascere e svilupparsi. Non riuscirei ad immaginare la mia vita senza questa realtà».

Quali sono le storie che più ti piace raccontare come giornalista, e quali meno?
«Anzitutto le storie dedicate al mare, un’altra componente essenziale della mia vita. Per questo sono molto contenta del programma Storie di mare: ho la possibilità di stare a contatto con questo mondo. Sicuramente amo le storie che riescono anche a lasciarti qualcosa dentro. Non amo, invece, lavorare con persone arroganti o che si piangono addosso».

Preferivi la televisione dei tuoi esordi o quella di oggi?
«Beh, parliamo di epoche diverse. Allora c’era tanta voglia di costruire, tanta voglia di novità. Oggi, invece, avverto una voglia di ostentare che non mi piace e non fa parte del mio carattere. Si è perso soprattutto molto in educazione».

Anche nella tv dei ragazzi?
«Non saprei. Io con i bambini giocavo. L’idea della posta fu lanciata così per caso e, nel giro di pochi giorni, ci trovammo la redazione sommersa da lettere. Oggi, invece, si usa Internet, si scrivono mail, ma soprattutto mi rammarico nel vedere come i bambini preferiscano per lo più giocare da soli».

Ci sarebbe ancora posto per Uffi in quest’era digitale?
«Penso di sì. Per come è stato sviluppato dall’animatore, un ragazzo bravissimo, penso potrebbe ancora avere i suoi spazi, soprattutto perché c’è una cosa che la gente non perde mai: la voglia di sognare».

Come giudichi la qualità dell’informazione a Napoli?
«Si dice che non ci sia aggregazione nella nostra città, ma io non la penso così. Mi sono emozionata quando, lo scorso autunno, il cardinale Sepe è riuscito ad unire tanta gente in occasione del miracolo di San Gennaro. Quanto ai colleghi, ce ne sono di validissimi che stimo e che riescono a raccontare i fatti senza enfatizzare o strumentalizzare, come purtroppo oggi si tende a fare. Non mi piace la tendenza al protagonismo. Alcuni colleghi dovrebbero ricordare che facciamo un mestiere bellissimo, una professione che ci permette di essere portavoce dei problemi e delle aspirazioni della gente».

E anche da intermediari tra istituzioni e cittadini, soprattutto in questi anni difficili…
«Tornando a Sepe e al miracolo di San Gennaro che ho seguito quel giorno, oltre a riscontrare una grande aggregazione di tutte le componenti sociali della città, ho capito che abbiamo bisogno di fede, di qualcosa in cui credere. Il cardinale è stato davvero in grado di trasmettere ciò durante la sua omelia. La nostra è una città dalle grandi potenzialità che potrebbero essere valorizzate, se non ci fosse questa tendenza di vedere tutto nero. Che i problemi esistano, e ne abbiamo tanti, non lo nego, ma è sbagliato guardare solo in negativo e non concentrarsi sulle tante belle cose che abbiamo intorno».

Che tipo di giornalista ti consideri?
«A volte non mi sento tale. Penso sempre di essere al primo gradino, di avere ancora tanto da imparare, eppure ormai faccio questo lavoro da tanti anni. Ho accantonato un po’ la tv per poter cominciare a scrivere, e molti mi dissero che ero pazza a dire di no a certe occasioni. Ma io sono una persona coerente e determinata nelle sue scelte. Quello che altri vedevano come un declassamento, per me invece era l’inizio di una sfida. Ho avuto la fortuna di poter contare e avere accanto persone di grande valore. Tra questi, un maestro del calibro di Costantino Federico che ha sempre creduto in me ed è stato un punto di riferimento importante. Eppure sento sempre di avere qualcosa da imparare. Ogni giorno può darti un insegnamento utile. Enzo Biagi è stato un vero giornalista, soprattutto per la sua grande umiltà e dedizione».

Cosa c’è nel tuo futuro?
«Preferisco non fare programmi a lungo termine, ma vivere giorno per giorno. Spero di poter continuare a vivere questa esperienza nell'ambiente in cui sono cresciuta».

Un aggettivo per definirti?
«Non saprei. Posso però dire che mi ritengo una persona educata e coerente».

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CRONACA IN ROSA La società civile somala a Roma di Erica Savazzi

Nella Somalia in crisi, assediata da lotte intestine e invasa dai vicini etiopi, c’è una parte attiva della società che vuol far sentire la propria voce, che propone e chiede soluzioni per uscire dalla crisi prolungata, che lavora e mantiene in vita il Paese.

Si tratta della società civile somala che si è riunita a Roma dal 5 all’8 febbraio: una quattro giorni di discussione e confronto tra 40 delegati per parlare di pacificazione e ricostruzione.

La riunione, organizzata con il supporto di Intersos, si è svolta per i primi due giorni a porte chiuse. Il terzo giorno, gli esponenti dell’associazionismo, dell’imprenditoria e del mondo accademico somalo si sono confrontati con la società civile italiana ed europea, rappresentata dal viceministro degli esteri Patrizia Sentinelli, da Stefano Manservisi, direttore generale per la cooperazione della Commissione Europea e da Mario Raffaelli, inviato speciale per la Somalia del governo italiano.

Nell’ultimo giorno di riunione i partecipanti alla conferenza hanno presentato la Dichiarazione di Roma. Quest'ultima contiene le conclusioni raggiunte dall’assemblea costituita da rappresentanti di diversa appartenenza clanica e posizione politica, compresi i somali della diaspora, cioè coloro che vivono all’estero.

Nella Dichiarazione, la preoccupazione principale è ovviamente rivolta alla situazione umanitaria del Paese. In particolare, si chiede alla Comunità Internazionale di dare adeguata assistenza alle popolazioni colpite e di permettere i soccorsi umanitari.
Si auspica che le parti in conflitto aprano un dialogo che conduca a una pacificazione favorita dal ritiro dal Paese delle truppe militari etiopiche. Si indica ancora, come necessario, un processo di riconciliazione gestito dai somali stessi che includa anche una rappresentanza di genere.

Secondo la visione della Dichiarazione, un ruolo centrale nel processo di pacificazione sarà affidato alla società civile e ai somali della diaspora, che chiedono di essere affiancati e supportati dalla Comunità Internazionale.

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FORMAT Storytellers riparte da Napoli di Valeria Scotti

La musica narrata attraverso le parole e un pentagramma. E’ questo il leitmotiv di Storytellers, appuntamento del grande contenitore di MTV che dedica una pagina dal vivo ad un’artista nazionale o internazionale.

La quarta edizione, organizzata da Telecom Italia Progetto oltre che dalla stessa MTV, si è aperta lo scorso 12 febbraio al Teatro Mercadante di Napoli. Sul palco, il pianista e compositore Giovanni Allevi accompagnato da Paola Maugeri, volto storico della giovane rete.
Ma Storytellers ha anche un lato sociale come dimostra la chiacchierata pomeridiana, avvenuta via chat, tra i piccoli pazienti della Clinica pediatrica De Marchi del Policlinico di Milano e il musicista.

Dicevamo della serata. Ecco Allevi - nelle sembianze di personaggio da fumetto - dividersi tra pianoforte e sgabello. Intervallati da successi come Prendimi e Come sei veramente, sono tanti i suoi racconti. Come gli appuntamenti non previsti con la musica che va a trovarlo all'improvviso, per esempio mentre fa la spesa al supermercato. Poi la sua infanzia in una famiglia di musicisti, con quel pianoforte chiuso a chiave che, di nascosto, riusciva a sfiorare. L'esordio poco fortunato, in quel primo concerto lontano dalla sua Ascoli, che nel giorno del suo ventunesimo compleanno, raccolse proprio a Napoli non più di cinque persone. E la notte passata in stazione, con tanto di smoking, tra prostitute e barboni. «Mi sembrava che lo stesso destino ci accomunasse. Proprio quella notte ho capito che volevo fare il musicista nella mia vita».

Il pubblico sorride di fronte a tanta sincerità, la Maugeri ride delle involontarie battute pronunciate dal Giovanni-fanciullino accanto a lei. La filosofia alleviana si compone anche di attacchi di panico - «la fragilità è la mia forza» - , di una percezione della musica come «strega capricciosa che ha monopolizzato la mia vita», di «dedizione assoluta perché è la musica che decide il gioco, non le regole del mercato discografico», e di una raccolta di pensieri, La musica in testa, edito da Rizzoli e di prossima pubblicazione.

Verso la fine della serata – sarà trasmessa in differita su Mtv il 3 marzo alle ore 22.30 - si ode un brano composto all’istante per il piccolo Timo, il bambino avuto sei mesi fa dalla Maugeri che, a pochi metri dalla mamma, dorme beato. Come ninna nanna, le note di Giovanni Allevi.
Anche questo è il potere della musica che si racconta a Storytellers.

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CULT Fumettiste: quando le matite e le chine si tingono di rosa di Sara Di Carlo

Un universo quasi nascosto, quello dei fumettisti. Eppure il disegno è la prima forma di comunicazione che apprendiamo sin da piccoli, assieme all'uso della parola.
Un mondo dove spesso le donne sono rappresentate come ingenue vittime del cattivo di turno o come pin-up, simbolo dei desideri più arditi degli uomini.

Pian piano, la situazione si è evoluta ed è emerso un underground di giovani artiste con la matita in mano. Non hanno paura di impugnarla, pungendo così tanto con le loro mine da far impallidire qualsiasi collega uomo. Complice anche il web, l'arte e la creatività, le fumettiste si fanno notare per l'originalità del tratto, per i colori vivaci e per il senso dell'umorismo. Così la donna diviene eroina e non più vittima, come nella serie Julia: criminologa, dalle sembianze di una sbarazzina Audrey Hepburn.

Le prime fumettare? Il duo Angela e Luciana Giussani che, nel 1962, crearono Diabolik, il ladro gentiluomo dagli occhi di ghiaccio. E poi le straordinarie chine di Vanna Vinci che conquistarono addirittura il Giappone - patria dei fumetti - con il primo lavoro Casa a Venezia. E ancora, Silvia Ziche. Il suo è un universo femminile maturo, alle prese con le relazioni sentimentali e uomini incomprensibili.

La passione e l'orgoglio di essere fumettiste è anche nelle emergenti, come Patty Comix, Fiona, Isabella Ferrante e Sherri Page nelle rispettive città di Cuneo, Roma e Londra.

«La passione per il fumetto è nata - racconta Patty - da piccolissima: mi veniva naturale, accanto al classico disegno da bambini, scrivere una parola o un qualcosa che lo accompagnasse. Mi divertivo alle elementari a riempire quaderni di storielle di bambini con la testa a forma di fiore».

Anche Fiona, da piccola, ha passato gran parte del suo tempo a creare. «Disegnare tira fuori la mia personalità».

«Non sono proprio una fumettista - dichiara Sherri Page - ma leggere fumetti ha contribuito a costituire la base di quel che è oggi la mia arte: l'illustrazione legata alla pittura. Ricordo ancora il primo fumetto letto nella mia stanza: Archie».

«Il fumetto è diventata la mia vita - prosegue Isabella - forse perché ho sempre guardato tanti cartoni animati ed ogni volta provavo a ridisegnarli. Il fumetto è la forma che più si avvicina al modo in cui sento di comunicare con gli altri. I miei personaggi interagiscono tra loro raccontando quel che io vivo, quello che vivono le persone che mi sono accanto. Nei miei fumetti, tutto è autobiografico. Ma non solo: racconto la realtà che mi circonda, così come i miei occhi la vedono».

Sul perché le donne siano così poche, Isabella ha una sua teoria: «Il mondo è maschilista e nel fumetto si sente maggiormente questa chiusura nei nostri confronti. Se c'è un personaggio maschile di punta in ogni casa editrice, lo disegnano solo uomini. Credo che le donne non abbiano abbastanza tenacia da poter provare finché non si riesce nell'intento di pubblicare i propri disegni. Sono molte quelle che diventano coloriste ed inchiostratici e si accontantano, mentre io disegno e scrivo le mie storie».

Sherry ci offre uno spaccato della realtà londinese: «Le donne che vogliono creare fumetti sono poche perché pensano che siano solo mondi fantasiosi popolati da supereroi che non rispecchiano la realtà del loro essere donna. E' anche vero che il lettore, a volte, preferisce un fumetto disegnato da un uomo, anziché da una donna. Bisogna quindi lavorare duramente».

E le donne, secondo Patty? «Si nascondono un po’. E' una professione difficile da portare avanti, anche per i guadagni poco costanti. Abbiamo bisogno di stabilità per poter costruire un futuro e una famiglia. Per questo, spesso optiamo per lavori affini al mondo del disegno come la grafica, l'illustrazione per editoria. Gli uomini tendono a costituire circoli chiusi: molte donne si inseriscono in questi studi come subordinate o ne aprono uno loro stesse per non dover rendere conto a nessuno».

Di tutt'altra opinione è la giovanissima Fiona. «Non penso che sia un mondo prettamente maschile, tante sono le donne che fanno fumetti ad alti livelli, ma spesso la nostra società ci porta a pensare che una donna non possa vivere disegnando fumetti. E' solo un luogo comune».

Per Isabella, comunque «il futuro del fumetto è roseo ed esisterà sempre finché ci saranno persone che si lasceranno rapire da questo linguaggio. Occorre che gli editori investano nelle idee, nei fumettisti che hanno qualcosa da raccontare. Ancor di più, occorrono lettori che abbiano ancora la capacità di sognare. E' difficile tarpare le ali ai fumetti che, in fondo, sono nuvole parlanti che possono volare lontano».
Magari con una nuvoletta rosa. Sicuramente sarà sempre più donna.

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DONNE This woman was once a Punk di Camilla Cortese

1989: con lo slogan "This woman was once a Punk", una Vivienne Westwood travestita da Margaret Thatcher campeggiava sulla copertina di Tatler in una celebre foto di Michael Roberts.

Tre mariti per la regina della moda inglese, classe 1941: Derek Westwood, dal quale prese il cognome ed ebbe il primo figlio; Malcolm McLaren, storico creatore e manager dei Sex Pistols, promotore con Vivienne del movimento Punk, dei suoi primi passi nel mondo della moda, e padre del suo secondo figlio; Andreas Kronthaler, giovine belloccio e talentuoso, inseparabile spalla nel lavoro sulle collezioni griffate Westwood.

Da anonima maestra ventunenne di North London, tra povertà e sussidi sociali, Vivienne Westwood si trasformò nel 1971 in ideologa e icona del Punk, protagonista con Malcolm McLaren di una rivoluzione estetica basata sul disprezzo dell’ipocrisia politica di quegli anni. Dal punto di vista della moda, il Punk era privo di regole fisse e affermava il paradossale e anarchico rifiuto dei canoni stessi della moda. Vivienne voleva infastidire gli inglesi, e sesso e violenza furono le sue armi migliori. Il quartier generale era il negozio di King’s Road, oggi prestigiosa boutique, che cambiava nome ogni anno secondo la collezione. Nel 1974 fu temporaneamente chiuso dalla polizia a causa della collezione di perversi indumenti di gomma e cuoio nero battezzata Sex.

L’esordio di Vivienne Westwood in passerella, nel 1981, fu folgorante. La linea Pirate, abbondante di oro e con una ossessiva attenzione al taglio, fu accostata all’immagine di Lady Diana, fresca fidanzata del principe Carlo.

Innovativa e coltissima, anarchica ma molto british, ha sempre tratto ispirazione dalla storia e dalla pittura, piegando su tagli impossibili e tessuti classici come il tweed e il tartan, quest’ultimo da lei amatissimo per l’attitudine selvaggia ed unisex.

Per la collezione Harris Tweed, ispirata al look della regina Elisabetta II da ragazza, ottenne nel 1992 il titolo di Dama e l’OBE (Order of the British Empire). Si presentò alla cerimonia con un’ampia gonna che, sollevatasi per un colpo di vento, rivelò l’assenza di mutandine.

Vera artefice del ritorno del corsetto, Vivienne Westwood riportò sulle passerelle dell’haute couture anche gonne a palloncino e crinoline, accostate alle immancabili, vertiginose e famosissime zeppe mock-croc, come quelle della caduta di Naomi Campbell in passerella nel 1993. Tra le modelle, la sua musa fu Sarah Stockbridge; Linda Evangelista, la sua preferita.
Oggi, contro la volgarità globalizzata, è lei stessa ad ammettere che scandalizzare non è più possibile: l'unica vera sfida della moda è alzare al massimo il livello del gusto.

Milano ha recentemente ospitato a Palazzo Reale una grandiosa mostra che ripercorre i 35 anni di carriera di Vivienne Westwood, curata dal Victoria & Albert Museum e tappa di un tour che ha toccato città come Shangai, Tokyo, Düsseldorf e San Francisco. Una celebrazione della Dama del brit-fashion, quella che... "questa donna è stata una Punk".

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TELEGIORNALISTI Paolo Del Genio, l'amore per il calcio di Giuseppe Bosso

Giornalista professionista dal 1997, Paolo Del Genio è inviato di Telecaprisport. Nel suo passato, varie esperienze per emittenti napoletane, parentesi radiofoniche e una collaborazione con Il Giornale di Napoli.

Il ritorno del Napoli in serie A è stato caratterizzato da un rendimento soddisfacente della squadra ma anche da polemiche legate, per esempio, alle trasferte vietate ai tifosi e a un atteggiamento rigido della giustizia sportiva nei confronti della squadra. Cosa ne pensi?
«Il rendimento del Napoli finora è stato positivo, e devo dire che risponde a quanto mi aspettavo. Bisogna lamentarsi per l’atteggiamento scandaloso del giudice sportivo Gianpaolo Tosel nei confronti del Napoli, soprattutto per il caso Zalayeta che si è ripetuto a distanza di poco tempo. Non so spiegarmi il perché di questo comportamento a due pesi e due misure nei confronti degli azzurri. Non ho nulla di cui lamentarmi, invece, per quanto riguarda gli arbitri».

Si può dire che il Napoli dia fastidio a qualcuno?
«Non penso. Anzitutto non mi sembra che, per ora, quei “poteri forti” del calcio, sia pure con tutto quello che è successo, possano avere problemi dalla presenza del Napoli come accadeva tanti anni fa. Piuttosto, la cosa che mi infastidisce è l’atteggiamento superficiale dei grandi media nazionali che parlano in prima pagina del Napoli solo per i problemi di ordine pubblico o per il folklore della curva, ignorando che la squadra sta andando molto bene in campo».

Cagliari-Napoli vietata ai tifosi azzurri: c’entrano qualcosa gli incidenti in Sardegna legati al trasporto dei rifiuti campani?
«Assolutamente no. Sono decisioni unicamente determinate dalle intemperanze dei tifosi partenopei in trasferta. Da questo punto di vista, non possiamo lamentarci della giustizia sportiva che è intervenuta in occasione dei disordini, mentre non ha detto nulla quando la tifoseria è stata buona».

Malgrado questo e malgrado gli anni di crisi, i napoletani non hanno perso il loro entusiasmo per il calcio...
«Certo, ma è un entusiasmo diverso. Quello dei giovani è sempre forte e acceso. Chi invece ha vissuto i trionfi dell’era Maradona, ha inevitabilmente risentito degli anni bui, delle retrocessioni e del fallimento. Ma a parte qualche lamentela, il rendimento della squadra quest’anno è stato positivo e i tifosi hanno ben ragione di essere soddisfatti».

Dove può arrivare il Napoli?
«Credo che manterrà questa posizione e, per quest’anno, può anche andare bene».

Lavezzi è sicuramente uno dei grandi protagonisti della stagione. Potrà diventare un simbolo come Maradona?
«No. Maradona è stato unico per quello che ha fatto in campo e come personaggio. E’ storia, ma è bene guardare avanti e il Napoli di oggi sta investendo molto in un progetto che punta alla valorizzazione del collettivo, ai giovani. Lavezzi è una piacevole sorpresa, e del resto la sua importanza sta anche nelle statistiche che lo vedono determinante almeno per la metà delle reti segnate dalla squadra».

De Laurentiis e Marino possono rappresentare, dal punto di vista societario, una forza rispetto alle grandi del Nord?
«Mah, è difficile. Il Napoli potrebbe contrastare lo strapotere del nord riuscendo a raggiungere i livelli delle tre grandi - Milan, Inter e Juve - oppure schierandosi compatto con le altre società per bilanciare quelli che ho chiamato “poteri forti”. Ma quest’ultima eventualità è difficile perché le altre società non hanno questo desiderio di coalizione. Credo che il Napoli sia in grado di riuscire a porsi subito al di sotto delle tre grandi potenze che sono, però, ancora molto lontane per potere d’acquisto e fatturato. Il Napoli, per ora, è in grado di fronteggiare bene altre realtà come Roma e Fiorentina».

Calciopoli, doping, violenza negli stadi. Riesci ancora ad amare questo sport?
«Certo che sì. Quello che è stato è stato, ma io credo ancora nella regolarità delle partite, in quello che dice il campo e che determina alla fine il risultato finale. Altri fattori, purtroppo, ci sono sempre stati e ci saranno sempre: non si può pensare di cancellarli del tutto, ma si possono contenere. Al momento questi fattori esterni incidono per il 20-30% dei risultati. Ma credo che, con uno sforzo in più, possano scendere almeno al 10 per cento».

L'emergenza rifiuti che ha colpito la nostra regione: quale messaggio può dare l’informazione in questo contesto?
«Se l’informazione potesse davvero operare in maniera libera, dovrebbe far capire alla gente che la classe politica attuale ha sbagliato e va sostituita in toto. Sembrerà un discorso qualunquista, ma i fatti sono questi. Che abbia governato la destra o la sinistra, sia a livello nazionale che a livello locale, nessuno è mai riuscito ad affrontare il problema in maniera seria e adeguata e, alla fine, i risultati si sono visti. Finché l'informazione sarà legata alla politica e ai politici, non potrà mai compiere il suo dovere fino in fondo».

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SPORTIVA Azzurre alla meta di Mario Basile

Nella vita di tutti i giorni sono mamme, mogli, fidanzate, impiegate e studentesse. Vite scandite dalla routine quotidiana. Ma ciò che rende diverse queste donne è che sono rugbyste. Anzi, sono la nazionale di rugby femminile. Ventitré ragazze dal cuore grande, simbolo orgoglioso delle oltre quattromila che praticano questo sport nel nostro Paese, e delle altre che si dilettano ancora a livello amatoriale.

Pensi a “donna” e a “rugby”: due termini che metteresti agli antipodi senza troppi fronzoli. Li avete presenti gli uomini che fanno rugby? Le mischie, le botte, i placcaggi? Figurati se una donna potrebbe fare questo. E invece, lo fanno eccome.

Il rugby femminile in Italia esiste da oltre vent’anni. Squadra pioniera, la Benetton Treviso a cui poi si sono via via aggiunte altre: dal Monza al Riviera del Brenta passando per la capitolina Red&Blue Rugby, fino ad arrivare alla formazione sarda del Grazia Deledda.

Tutto si svolge nel dilettantismo più totale. Di sponsor e soldi, neanche l’ombra. Ma questi, in fondo, sono problemi anche del rugby maschile che solo negli ultimi tempi sta appassionando gli italiani grazie alla nazionale e al Sei Nazioni.

I più attenti, o meglio quelli che leggono i trafiletti invisibili dei giornali, si saranno accorti che al Sei Nazioni ci sono anche le nostre ragazze del rugby. Ad oggi hanno giocato due gare uscendo sconfitte in entrambe le occasioni, rispettivamente contro Irlanda ed Inghilterra. Troppo grande il divario fisico. Le avversarie sono sempre più alte delle nostre. La nostra migliore giocatrice è la veneta Paola Zangirolami, un metro e sessanta di cuore e talento.

Il Sei Nazioni, però, può far miracoli. E non necessariamente sul campo. Le ragazze della nazionale hanno destato la curiosità dei media e sono state protagoniste di alcuni show televisivi in cui hanno raccontato il loro mondo e l’amore per questo sport. E’ l’inizio di una rapida ascesa? Difficile.

Adesso c’è da pensare ai prossimi appuntamenti del Sei Nazioni: il primo col Galles a Cardiff questa domenica, poi l’8 marzo in Francia contro le padroni di casa per poi chiudere, il 16 dello stesso mese, con la Scozia a Venezia.

Intanto, che il connubio donne e rugby non sia qualcosa di impensabile l’hanno scoperto anche in Iran. La venticinquenne Elham Shahsavari e Zahra Nouri guidano la squadra nazionale allenata dal tecnico Alireza Iraj. Giocano col velo e si dicono innamoratissime di questo sport.
Se non è emancipazione questa…

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