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Telegiornaliste anno III N. 37 (115) del 15 ottobre 2007


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MONITOR Donatella Scarnati: più donne nello sport di Giuseppe Bosso

Nata a Cosenza, Donatella Scarnati vive a Roma da più di trent’anni. Laureata in Scienze Politiche, è giornalista professionista dal 1981. E’ stata la prima donna a realizzare servizi dai campi per Novantesimo minuto ai tempi della conduzione di Paolo Valenti. Oltre che di sport, si è occupata anche di cronaca italiana ed estera per la Rai. Ha scritto Lo sberleffo di Godot con Marco Franzelli, su Alessandro Del Piero.

Donatella, vedere Paola Ferrari condurre 90esimo minuto ti ha suscitato soddisfazione o invidia?
«L'invidia non fa parte del mio carattere. Paola ed io ci conosciamo da tanti anni, da quando nel 1990 Tito Stagno decise di introdurre nella Domenica sportiva uno spazio femminile, che venne affidato, oltre che a noi due, anche a Floriana Bertelli, che era ed è una mia carissima amica. Andai a Milano per conoscere Paola, e con lei creai subito un buon feeling. Abbiamo lavorato bene insieme e ricordo che la nostra rubrica ebbe un grande successo. Quindi ti posso garantire che quando Paola è stata scelta per condurre Novantesimo minuto io sono stata molto, molto contenta per lei».

Un aneddoto dei tuoi esordi
«Ricordo l'intervista che feci a Bjorn Borg, quando il campione svedese decise di tornare a giocare e da anni non parlava con i giornalisti. Riuscii ad intervistarlo grazie ad Adriano Panatta, che era un suo grande amico e che lo convinse a dirmi di sì. Eravamo su un campo del centro Fit di Riano; finita l'intervista per la Domenica sportiva, Panatta mi guardò e mi chiese se volevo palleggiare con lui. Gli risposi che sarebbe stato un sogno. Borg si mise a ridere e cominciò a giocare proprio con me. L'operatore del Tg1 Gianni Gallo non si fece sfuggire lo spettacolo, riprese tutta la scena e ancora oggi, quando rivedo quelle immagini, mi emoziono come quel giorno».

Anni fa Gene Gnocchi ti imitò a Mai dire Gol: ti diede fastidio o ti fece sorridere?
«Nessun fastidio, anzi! Adoro Gene, nel suo campo ha pochi uguali, e quell’imitazione era davvero divertente per come era fatta…».

La Roma di quest’anno è in grado di arrivare fino in fondo in campionato e in Champions?
«Penso di sì. Già nella scorsa stagione Spalletti è riuscito a farla giocare davvero bene; quest’anno si è rinforzata in maniera adeguata, anche dal punto di vista dei ricambi, e credo che sarà in grado di dare enormi soddisfazioni ai tifosi. Non parlerei di sorpresa, ma di conferma, sapendo che la squadra può contare su un motore ancora più potente».

Da qualche anno il mondo dello sport alimenta gli scandali: da Calciopoli al caso-Mc Laren al doping nel ciclismo. Secondo te queste vicende possono far passare la voglia alla gente di seguire i propri campioni?
«I programmi sportivi sono sempre molto seguiti, gli ascolti sono sempre alti, ma credo che sia cambiato lo spirito di seguire lo sport nel pubblico. Anche noi addetti ai lavori avvertiamo questo disagio, e penso che ciò che è accaduto in Formula 1 sia anche più grave della stessa Calciopoli: in quel caso, in un certo senso, abbiamo assistito ad una rifondazione e a un cambiamento. Invece la vicenda che ha riguardato la McLaren ha danneggiato l’immagine di questo sport e anche il comportamento di Alonso non è stato esemplare».

Quali sono secondo te le difficoltà di essere donna e giornalista oggi?
«Sarei contenta di non sentirmi fare più questa domanda. Evidentemente ti riferisci alle difficoltà che incontra una ragazza non tanto con gli altri sport, ma quando commenta il calcio. Mi accorgo che anche se sono sempre di più e non poche quelle che lo fanno con competenza e professionalità, c'è ancora un pizzico di stupore da parte di qualcuno. Fui intervistata, qualche anno fa, da una troupe della BBC che venne in Italia proprio per un reportage sulle giornaliste sportive che avevano scelto in particolare il football, fenomeno che in Inghilterra non era ancora così diffuso. Ti assicuro che nell'ambiente il rispetto c'è e per i protagonisti - calciatori, allenatori, presidenti - è del tutto indifferente. E allora: colleghi maschi cambiate domanda! Lo dico con il sorriso, ovviamente, anche se poi ti rendi conto che una donna che dirige un giornale sportivo deve ancora arrivare, che l'equivalente al femminile di Marco Civoli e Fabio Caressa ancora non esiste, e le telecroniste fanno fatica ad emergere. Piano piano nelle trasmissioni tv qualcosa sta accadendo, penso che sia importante imporre la propria personalità, il proprio pensiero, evitando di sentirsi inferiore al collega che si ha accanto. Le poche donne che hanno la possibilità di avere un ruolo in un programma tv devono sfruttare l'occasione, come vedi non dico che devono dimostrare di essere competenti, perché quello è implicito, ma lo è anche se il conduttore è un uomo!».

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MONITOR Paola Ferrari: largo alle donne nello sport di Giuseppe Bosso

Nata a Milano nel 1960 e giornalista professionista dal 1992, Paola Ferrari inizia a lavorare in Rai nel 1988, con servizi per la Domenica sportiva. E' stata la prima ed unica donna conduttrice del programma, con Giorgio Tosatti come opinionista, dal 1996 al 1999. Dalla stagione 2003 - 2004, è la prima donna a condurre la storica trasmissione Novantesimo Minuto. Paola è madre di due bambine, Alessandra e Virginia.

Paola, come ti senti ad essere additata come modello da tante ragazze che sognano di diventare giornaliste sportive?
«Modello? Non esageriamo! Diventare giornalista era il mio sogno fin da bambina, non avevo dubbi su cosa avrei voluto fare nella vita. Con la passione e l’impegno credo si possano ottenere sempre grandi risultati. La cosa che mi soddisfa è l’aver ottenuto soprattutto il consenso del pubblico femminile, come riscontro dai messaggi che ricevo dalle telespettatrici. Tra donne c’è sempre molta competizione, non è facile piacere anche a loro».

Hai partecipato a Ballando con le stelle...
«E' stata una parentesi per me. Ma l’ho vissuta con simpatia e con piacere, e ricordo l’interesse e la curiosità che suscitò la prima edizione di questo fortunato programma, che del resto presenta molte affinità con la disciplina sportiva. Fu una bella esperienza che mi ha lasciato bei ricordi e anche belle amicizie: Frizzi, Francesco Salvi, Milly Carlucci».

Come ti trovi a convivere con il direttore di Raisport De Luca?
«Beh, non è facile, certo, dividere gli spazi in due, soprattutto in una trasmissione in diretta come la nostra; ma a parte questo non mi crea problemi».

Capello è la grande novità per Raisport: ma non è che sta studiando la nazionale per poi subentrare a Donadoni?
«Dovresti chiederlo a lui! Scherzi a parte, non credo che Fabio abbia accettato la proposta di Raisport tanto per perdere tempo. È una persona seria che crede nelle cose che fa e ci mette sempre impegno e passione. Del resto, non è una novità per lui: prima di diventare il grande allenatore che conosciamo, aveva avuto un’esperienza come commentatore sportivo a Mediaset. Devo dire che mi ha sorpreso per la sua enorme disponibilità, maggiore di quanto mi aspettassi. Anche il pubblico l’ha apprezzato molto. È davvero piacevole lavorare con lui».

Cosa possono dare opinionisti come l'ex tecnico del Real alle trasmissioni sportive?
«Moltissimo. La loro esperienza diretta è un utile supporto anche per noi giornalisti».

Vietare le trasferte a rischio alle tifoserie è la soluzione del problema violenza?
«Non ho la bacchetta magica: non saprei quale possa essere la soluzione per un problema comunque grave, e gli episodi che hanno riguardato i derby di Genova e Torino sono stati davvero amareggianti per chi ama questo sport. Io credo che in ogni caso non si debba mai abbassare la guardia, a cominciare anche dai piccoli episodi di violenza spicciola che non vanno sottovalutati. È inconcepibile che le società possano venire ricattate da questi gruppi violenti che non hanno nulla a che vedere con il calcio».

Sei stata la prima donna a condurre Novantesimo minuto: ti è dispiaciuto vederlo sparire?
«Certo, ma non tanto per il fatto che lo conducessi io, quanto proprio per quello che rappresentava per gli italiani. Da sempre era un appuntamento della domenica da non perdere, il momento in cui vedere i gol delle partite appena giocate. Quella dei diritti televisivi sul campionato è certamente una questione da rivedere, non solo per quanto riguarda la serie A, ma anche per la B».

Hai mai avuto problemi con i conduttori uomini con cui hai lavorato?
«Eccome! Purtroppo vedo che questo è un ambiente ancora molto misogino, in cui le donne devono combattere per avere i loro spazi e non essere relegate in ruoli di secondo piano o, peggio, di mera immagine. Cerco sempre di essere vicina alle colleghe con cui lavoro proprio per questo».

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CRONACA IN ROSA Caccia all'orso di Erica Savazzi

Che il disprezzo dell'uomo per i suoi simili, che l'odio reciproco, le vendette, le torture siano sempre esistiti non fa notizia. Fa notizia la furia ingiustificata, la violenza gratuita, la mancanza di ogni empatia o della più religiosa misericordia nei confronti dei propri simili. E ancora peggio se vittime della barbarie sono degli innocenti.

Come è successo a Bernardo e a una sua compagna, traditi dalla loro natura di animali selvaggi che cercano cibo per garantirsi la sopravvivenza, traditi dalla semplicità della natura, in cui un animale morto è solo carne da mangiare, e non una trappola letale.

Perché gli orsi bruni marsicani - specie protetta dal 1939 - meritassero di morire non si è capito. Vendetta per aver ucciso qualche pecora? Omicidio intenzionale con lo scopo di mettere in difficoltà un'istituzione come il Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise? Noia? Ricatto criminale?

Fa male constatare che quello che molti uomini hanno costruito con il loro lavoro, la pazienza e con i soldi dei contribuenti nel giro di molti anni possa essere distrutto in un attimo da dei "folli". Non per caso, per incidente, per malattia, ma per deliberata volontà di nuocere. E con uno sforzo che è costato tempo e denaro, il sacrificio di altre bestie, grammi di veleno, spostamenti in incognito. Per cosa?

Ricordate la storia di Bruno, freddato per le sue razzie in Baviera? C'erano state polemiche e tentativi di impedire quell'uccisione. In quel caso - non giustificabile, non condivisibile - però c'era un "chi" - addirittura una istituzione - e c'era un "perché" - i danni e il supposto pericolo per gli abitanti. In Abruzzo non c'è nulla di tutto ciò. Il gesto di un anonimo che sbaglia sapendo di sbagliare, con nessuno da tutelare, tranne forse i propri interessi.

Più fortunata era stata l'orsa Jurka, che - sempre a causa delle scorribande tra i pollai - fu sedata e riportata in cattività. Niente più libertà nei boschi, ma neanche una morte causata da cacciatori - cecchini.

In comune un elemento: ciò che dà fastidio deve essere eliminato. Nel rapporto uomo - orso, con il bipede che decide come disporre del quadrupede, così come nel rapporto uomo - uomo, in cui qualcuno si erge a giudice dell'esistenza altrui. Un brutto vizio, ma a quanto pare insito nella natura umana.

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FORMAT Platinette, tra tv e carrello della spesa di Valeria Scotti

E’ sottile il connubio tra la bionda Platinette e la sua vera identità dagli abiti meno appariscenti, Mauro Coruzzi.
Da anni ormai, Platinette è un’immancabile presenza nella radio e nella tv italiana. Sarcasmo e occhio critico, ma anche disponibilità nel parlare di tutto. Non solo del piccolo schermo.
Abbiamo raggiunto telefonicamente Mauro - e il suo alter ego - a Milano.

La tv di oggi: disagio e inadeguatezza di alcuni personaggi. Qual è il suo pensiero?
«Faccio parte della schiera di persone inadeguate. Non ho nessun talento e devo ringraziare qualche santo o il destino per ciò che è accaduto. Non sono d’accordo sul fatto che la tv sia fatta di incompetenti e incapaci. E’ lo specchio del tempo attuale, così come lo era la televisione degli anni Sessanta: una tv che corrispondeva al boom economico, alla rinascita, ai ceti meno abbienti che diventavano più benestanti.
Oggi non c’è bisogno di un talento specifico per diventare qualcuno. Semmai, in televisione, questo è l’ultimo anello di una catena. E’ necessario il talento per andare a sgambettare quando direttori di multinazionali o di banche sono inquisiti al pari di delinquenti di natura meno popolare? Se la nostra è un’esistenza al confine con l’irreality, la televisione corrisponde al Paese».

Perché tanto interesse verso i reality?
«Perché in quest’epoca è difficile condurre una vita reale. Almeno nelle grandi città sembra essere questo il tenore dei rapporti. Non si conosce il vicino del pianerottolo ma si spia la vita di qualcun altro in tv. Non ho un’etica che mi impedisca di guardare i reality e di apprezzarli. Anzi, per molti versi li adoro. E vorrei conoscere l’alternativa per quelli che li criticano. Milleluci cinquant’anni dopo? Studio Uno senza Mina? Alcuni reality sono belli, altri meno. L’importante è che ci sia l’assortimento.
Mi spiace solo che non ci sono reality per anziani. Ma mi rendo conto che la televisione punta ai giovani e che questi vogliono rivedersi in tv».

Lei è stato opinionista di Amici e protagonista di alcuni battibecchi con il pubblico. Pensa che questo abbia potuto rendere più feroce la competizione tra i ragazzi in gara?
«Mi piace la discussione animata, il confronto, il perorare delle cause e non dare tutto per scontato. Non ho voglia di accomodamenti, soprattutto quando sono ad Amici. Lì ho una parte che mi inorgoglisce. Mi occupo di musica da molto tempo per cui ho la presunzione di saperne abbastanza per poter giudicare l’operato dei ragazzi. Amici è l’unica trasmissione dove il talento viene messo in luce, dove si dà la possibilità di proporsi. Basta con le critiche ingiustificate verso l’unico programma che dà spazio al talento quotidianamente e, per alcuni mesi, anche in un appuntamento serale».

Recentemente ha vinto la Radiogrolla come miglior voce femminile. Il programma mattutino Platinissima, su Radio Deejay, è una sua creatura. Cosa rappresenta per lei questa radio?
«Anno dopo anno, mi viene data la possibilità di fare il mio primo lavoro. Nasco infatti come figlio della prima radio libera italiana a Parma, nella metà degli anni Settanta. La televisione è un qualcosa in più. Radio Deejay è la numero uno tra le radio private e mi dà la possibilità di mostrare un altro aspetto di me. Forse migliore rispetto a quello televisivo».

Parrucche, make-up, paillettes. Platinette quanto è simbolo di omosessualità?
«Io sono così per una questione di “compensazione artistica”. Non sono simbolo di qualcuno o di qualcosa, anzi ho un rapporto conflittuale con le associazioni che rappresentano gli omosessuali, che si candidano in politica e dicono ad esempio che i gay sono tutti di sinistra. Preferisco pensare che sono una persona libera e come tale, se qualcuno trova interessante ciò che faccio, ben venga. Se poi è omosessuale o etero, è l’ultimo dei miei problemi».

Lei ha masticato tv, radio, teatro. Ha scritto una biografia, ha cantato. In cosa si ritrova maggiormente?
«In nessuna. Preferisco prendere il carrello e andare a fare la spesa. In quello sono imbattibile. Ho un vero talento nel cercare i cibi più calorici, nello spendere il più possibile e nel sentirmi mediamente in pace con me stesso quando il frigorifero è pieno, pienissimo. Se avessi mai un momento di debolezza, so che aprendolo, troverei una risposta ai miei desideri. Nella vita non è così facile. In cucina un po’ di più».

Se Mauro Coruzzi non fosse stato Platinette?
«Credo sarei diventato prima un insegnante e poi un bravo professore di italiano. Mi sarebbe piaciuto e in fondo, questo è un po’ un rimpianto».

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CULT Wim Wenders: Palermo, the dark side di Antonella Lombardi

«Palermo è una città molto complessa e conflittuale. E’ bella, e allo stesso tempo non è una città facile. Ha molte cicatrici che mostra con onestà, come poche altre città al mondo sanno fare, e come non fa più Berlino. E’ questo che mi attrae, la sua onestà nel mostrare le ferite». E’ l’impressione che Palermo ha fatto su Wim Wenders, il regista del "Nuovo cinema tedesco" affascinato dal «lato profondo e dark della città», dove si trova per girare il suo prossimo film, The Palermo Shooting, storia di un fotografo berlinese in crisi esistenziale, che a Palermo incontra una restauratrice che scardinerà i suoi principi.

Nel cast ci sono vere e proprie leggende del cinema, come Lou Reed, Patti Smith, Dennis Hopper e, nella parte del protagonista, Campino, cantante di una band molto popolare in Germania, Die Toten Hosen. A impersonare la donna che metterà in discussione le sue priorità, l’attrice italiana Giovanna Mezzogiorno che, come lei stessa dice, dovrà «dividere la scena con una città. Sarà una bella gara».

Alla Mezzogiorno è affidato un compito non facile: dimostrare di essere all’altezza delle aspettative del regista, che l’ha scelta dopo essere rimasto affascinato dal ritratto dell’Annunciata di Antonello Da Messina esposto a Palazzo Abatellis, a Palermo.
Come confessa Wenders: «E’ un’impresa impossibile trovare un’attrice che abbia non dico una vera somiglianza, ma la stessa anima e luce interiore dell’Annunciata. Io credo che oggi questa sia Giovanna Mezzogiorno».

All’autore di Paris, Texas, Falso Movimento, The Million Dollar Hotel e, tra gli altri, Buena Vista Social Club, Telegiornaliste ha chiesto come, il suo sguardo, si poserà sulle ferite della città:
«Come quello di un dottore – risponde - il regista è un po’ come un medico. Se deve vedere bene all’interno delle cicatrici, deve prima pulire l’area, altrimenti rischia di fare un danno maggiore».

E la doppia anima della città, sospesa tra la vita e la morte, è la caratteristica che più ha colpito Wenders: «La cultura che ho visto a Palermo ha un lato molto profondo e oscuro, un rapporto particolare con la morte che scorre nel substrato della città. Io credo che una città possa avere un forte diritto alla morte solo se ha un forte rapporto con la vita. Laddove c’è il buio c’è anche la luce.
Il compito di un regista è quello di esporsi al luogo e alla luce dei luoghi. La luce di Palermo, che abbiamo studiato – sottolinea il regista de Il cielo sopra Berlino - avrà una parte importante nel film».

Una scelta stilistica che si rispecchia nella trama: «Campino è un fotografo che ama manipolare l’immagine digitale, Giovanna è una restauratrice. Entrambi guardano la città, ma con occhi diversi. Lo sguardo è un elemento importante nei miei film». L’autore preferisce non aggiungere altri particolari sulla storia che, dice, «riguarderà la vita e la morte». E se proprio deve scegliere un genere, del suo nuovo progetto Wenders dice che sarà «un thriller romantico. Non mi piacciono le categorie, preferisco muovermi al di fuori di esse. Trovo difficile incasellare un film».

E’ quasi impossibile, per un regista che sceglie Palermo come set per girare un film, raccontare una storia che prescinda dalle vicende legate alla mafia?
«Ci sono registi più bravi di me che possono fare film sulla mafia», ribatte Wenders, e puntualizza: «Normalmente faccio film per qualcosa, non contro qualcosa. La mia storia testimonierà l’amore per questa città».

Una città non facile, assordante, caotica, ma che con i suoi suoni ha affascinato anche il protagonista Campino: «Mi ricorda Napoli e Buenos Aires, dove sono stato e dove si fanno delle esperienze dure, che a me piacciono. E’ come se uno passasse attraverso il salotto di una casa privata, dove i proprietari non sono gentili a tutti i costi, ma non sono neanche scortesi. Sono indifferenti».

E tra le voci che comporranno la colonna sonora del film ci sarà il violoncello di Giovanni Sollima, ma anche la voce straziante della cantante siciliana Rosa Balistreri, come auspica Wim Wenders, che in proposito aggiunge: «C’è una canzone in particolare di Rosa, (Quannu moru, ndr) che esprime Palermo meglio della mia sceneggiatura».

Nella produzione della pellicola sono coinvolte la Film Commission siciliana e la Provincia di Palermo. Un vincolo? In realtà, secondo il regista, «i contributi regionali non sono soldi politici, io mi sento libero, mentre con altri fondi questo non sarebbe possibile. In Europa questa è ormai una prassi, mentre negli Stati Uniti ad esempio non succede: possono darti anche 50 milioni di dollari, ma non sarai mai completamente libero nelle tue scelte».

Infine, una nota sul mare, a tratti trascurato o indebitamente sottratto. «I palermitani si sono dimenticati di avere il mare», sostiene Wenders: «Questa è una città che dà le spalle al mare, e lo trovo un aspetto molto interessante. Non spetta a me restituirvi il mare, dovete riprenderlo da soli. Io, però, ve lo ricorderò».

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DONNE Se le schiave si ribellano di Antonella Lombardi

«Se non fosse per la Polizia di Stato oggi sarei ancora sulla strada o sarei morta in qualche bosco». Inizia così la storia di Adelina Alma Sejdini, costretta a prostituirsi, ceduta di mano in mano ai trafficanti di carne umana, e salvata, dopo quattro anni di violenze, dalle forze dell'ordine italiane.

«Sono albanese. Nel 1996, quando avevo 22 anni, sono stata sequestrata. Mi hanno costretto a salire in una macchina, mi hanno violentata e portata in un albergo dove sono stata picchiata e torturata. In Italia sono arrivata dopo, sbarcando a Brindisi in gommone, insieme ai miei estorsori». Adelina è stata ripudiata dalla sua stessa famiglia «perché avevo disonorato la loro razza». Il confine tra vittime e carnefici è apparso troppo debole ai loro occhi che «non hanno capito, ma ormai non ci sentiamo più».

Oggi la donna, dopo aver denunciato e fatto arrestare i propri sfruttatori, ha fondato un'associazione, Tricarico, per le vittime della prostituzione. Ha anche un blog dove dà consigli e riceve lettere, anche dei clienti delle prostitute, come quello che l’ha aiutata a denunciare, dandole un passaggio in Questura. Sotto il trucco pesante, lui nota i segni di ematomi diffusi in tutto il corpo di Adelina. Lei ha il cuore in gola. Fugge nascosta sotto un sedile dell'auto, mentre il pensiero corre al 1997, quando, dopo essere stata espulsa in Albania, decide di denunciare il racket della prostituzione alla «Polizia albanese che però mi ha venduto ad altri sfruttatori».

«Ero completamente sotto choc - spiega Adelina - avevo bisogno di tranquillità, dovevo fidarmi e per fortuna ho trovato degli agenti che sono andati oltre il loro dovere d'ufficio. In loro ho visto un gesto d'umanità che non ho mai visto in vita mia. Grazie alla Polizia, dopo la mia denuncia sono stati arrestati quaranta criminali, 36 albanesi e quattro italiani. Ottanta sono stati denunciati, e tra le donne salvate nell'operazione, una ragazza di 14 anni. Avevo visto che era minorenne, ma non potevo immaginare quanto, l'ho scoperto solo dopo le radiografie fatte dai medici per accertare l'età. Anche quello è stato uno choc».

Mancano tre mesi al 2000, e per Adelina è in arrivo il Capodanno più bello: la donna supera i controlli medici e psicologici, si converte al cattolicesimo e sceglie come padrino di battesimo l'ispettore della Questura di Varese che l’ha aiutata nella fase delicata della denuncia, Luigi Manco, e per la cresima il maggiore dei Carabinieri Mario Tusa. A lui Adelina ha dedicato uno dei due libri che ha scritto: Dio e le stelle del cuore. Quattro anni leggendari contro il traffico di esseri umani guidati dalla forza di Dio e dal maggiore Mario Tusa. «L' ufficiale Tusa ha salvato nel giro di quattro anni più di 500 donne in Basilicata - spiega Adelina - costrette a fare le schiave. Una tenacia che ha saputo trasmettere ai suoi uomini, motivandoli».
Il primo libro, Adelina lo ha dedicato alla Polizia, e si chiama Libera dal racket della prostituzione.

Dimenticata la famiglia di origine, dove giovanissima Adelina viene stuprata dallo zio e dal nonno, ogni sera, la donna, per l'associazione Tricarico libera la vita, con tre volontari gira le strade dove altre schiave ascoltano la sua storia, prendono numeri di telefono e volantini. Non è un compito facile e poi ci sono loro, i padroni, pronti a saltare fuori e chiarire chi è che comanda, come Adelina stessa spiega: «Le ragazze sono terrorizzate, non sanno chi hanno davanti, ma quando hanno qualche dubbio su di me mostro le cicatrici che ho sul corpo».

Oggi lancia un appello a tutti i sindaci d'Italia: «Se sono interessati a vincere realmente il racket della prostituzione, io metto gratuitamente tutta la mia esperienza a disposizione. Non ci vuole molto, le cose troppo studiate sono complicate».
Parola di Adelina Alma Sejdini.

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TELEGIORNALISTI Marzio Di Mezza: meglio romanziere di Giuseppe Bosso

Marzio Di Mezza, architetto pentito e giornalista professionista sempre meno convinto, è redattore di Canale 8. Nel 2001 ha pubblicato il suo primo romanzo, dal titolo Le nuvole.
Mentre sta dando alle stampe il suo secondo romanzo, ha già iniziato a lavorare al terzo. Di Mezza dal 2007 è presidente dell'Associazione dei Giornalisti Politici della Campania.

Marzio, fare informazione oggi a Napoli cosa significa?
«Porsi davanti a una realtà diversa nella sua problematica rispetto alle altre metropoli. Ci troviamo alle prese con un tessuto sociale tra i più degradati in Italia. Questo può significare, per me e molti altri colleghi che rincorrono il sogno di fare gli inviati di guerra, che si può stare in trincea anche qui. Non meno importante, la difficoltà per un giovane giornalista è rappresentata dalla sfiducia che le poche testate che ci sono ripongono nelle risorse umane. Di conseguenza, chi non ha la fortuna di avere un regolare contratto deve fare i conti con il precariato e il lavoro nero. Insomma, non è proprio il massimo…».

Da presidente dell’Associazione dei giornalisti Politici della Campania qual è la tua opinione sul rapporto tra politica e informazione nella realtà partenopea e in generale in Italia?
«Negativa, purtroppo. Esiste un condizionamento, e forte, da parte della politica sull'informazione. Il dato italiano è fin troppo evidente e tristemente noto. Il dato locale restituisce un quadro davvero poco entusiasmante. Con la nostra associazione a gennaio prossimo pubblicheremo un dossier su questo rapporto nell'ambito di una serie di iniziative alle quali stiamo lavorando».

Da alcuni commenti che ho letto sul tuo blog mi pare di capire che non hai molta simpatia per Beppe Grillo, che però è indiscutibilmente il personaggio del momento: cosa pensi del suo successo e di quello del V-day?
«Grillo ha da sempre raccolto l’attenzione del pubblico, ricordo fin da bambino come nelle prime edizioni di Fantastico avesse un grande seguito. Era veramente bravo. Ma già allora i suoi monologhi erano considerati scomodi. Negli anni poi ha dismesso gli abiti del comico per dichiarare guerra al sistema. Naturalmente ha sfruttato la sua notorietà, condizione che gli ha consentito di poter contare su di un cospicuo arsenale. Questo può essere un bene e un male. La sua è una guerra totale. Non capisco, a parte lui, chi si salva. Comunque sarà il tempo a vedere se e come questo suo metodo gli darà ragione».

Anche tu hai un blog: l’informazione del futuro sarà questa?
«La tecnologia ha fatto passi da gigante e lo sviluppo di internet è stata la conseguenza. Il blog è una delle più alte forme di democrazia derivate dalla tecnologia. Certo è che bisogna distinguere tra i blog che vengono usati come diari dalle persone e quelli, come appunto quello di Grillo, che hanno la loro connotazione informativa. Vedo comunque che il futuro va sempre più in quel senso».

Niente Notte bianca a Napoli quest’anno: giusto, secondo te?
«Credo che una grande città come la nostra debba saper sviluppare da sé i propri eventi, puntare sull'originalità e sulle idee, senza copiare dagli altri. La Notte bianca in Italia è stata fatta per la prima volta a Roma: la Notte bianca è Roma! Non ci facciamo una bella figura a rincorrere gli altri, oltretutto non ottenendo nemmeno gli stessi risultati. Napoli dovrebbe vivere di farina del suo sacco. Abbiamo una cultura millenaria e una fantasia che ci riconoscono in tutto il mondo. Ho visto bene, invece, l'operazione che ha consentito di far rivivere la Piedigrotta. Sono convinto che in pochi anni e lavorandoci con costanza, potrebbe diventare uno dei principali eventi in Europa. Queste sono le sfide che dovremmo inseguire».

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SPORTIVA Marion, che delusione! di Mario Basile

E’ stato un duro colpo quello che ha subito il mondo dello sport la scorsa settimana: Marion Jones, la reginetta dello sprint mondiale, ha confessato di aver fatto uso di doping, nel periodo che va dal 1999 al 2002.

Viene finalmente a galla la verità dopo anni di sospetti, congetture, e tentativi più o meno riusciti di ritorno alle gare, dopo le accuse di Victor Conte. Quest’ultimo, fondatore del laboratorio farmaceutico BALCO, affermò durante un’intervista di aver fornito alla Jones sostanze stupefacenti prima e durante le Olimpiadi del 2000. Ma nessuna prova schiacciante avallò questa tesi.

E pensare che nel maggio scorso i suoi tifosi, così come noi su queste stesse pagine, salutammo con gioia e soddisfazione il ritorno di Marion, quando si aggiudicò il Reebok Grand Prix di New York, convinti di trovarci di fronte al ritorno di un’atleta che col doping non c’entrava nulla.

Invece, era tutto vero: le accuse di Conte, a cui la Jones aveva perfino chiesto 25.000 dollari di danni morali; era vero che il record di cinque medaglie vinte, a Sydney 2000, non fosse figlio di talento e preparazione; era vero, infine, che anche i titoli conquistati al mondiale 1999 e 2001 erano fasulli.

Marion ha confessato tutto agli investigatori federali, anche di aver mentito all’epoca dell’indagine BALCO. Ha detto, in lacrime, di non essere a conoscenza di cosa gli rifilava Trevor Graham, il suo allenatore. «Pensavo fossero integratori. Ho iniziato ad aver sospetti quando ho notato alcuni cambiamenti nel mio corpo e una maggior facilità nei recuperi fisici». Si trattava, invece, dello steroide tetraidrogestrinone, noto come THG. Possibile che un’atleta del suo calibro se ne sia accorta dopo tre anni?

Nonostante la confessione, dense nubi si affacciano sul futuro di Marion. L’Agenzia Antidoping statunitense USADA l’ha squalificata per due anni, obbligandola a restituire le medaglie vinte e i premi in denaro, anche se voci di corridoio sostengono che la Jones sia vicina alla bancarotta. Si aspetta, inoltre, che si pronunci sulla vicenda il CIO, mentre il tribunale di New York potrebbe condannarla per falsa testimonianza. In questo caso, Marion rischia fino a cinque anni di reclusione e una forte multa.

Profonda delusione, quindi, per gli amanti dell’atletica e dello sport in generale. Cade inesorabilmente uno dei miti sportivi degli ultimi decenni. Le uniche a sorridere, forse, della triste vicenda sono le associazioni antidoping, da sempre impegnate nella antica battaglia contro l’uso di sostanze proibite. Un sorriso smorzato, però, dal fatto che, con la revoca della vittoria di Marion Jones nei 100m di Sydney 2000, la medaglia d’oro andrebbe alla greca Ekaterini Thanou: colei che fu squalificata, nel 2004, per aver eluso tre controlli antidoping. Scherzi del destino.

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