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Telegiornaliste anno XVI N. 27 (644) del 21 ottobre 2020
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TGISTE Adele
Monaco, la mia passione calcistica
di Giuseppe Bosso
Incontriamo Adele Monaco,
che con Sonia Sodano
fa parte della redazione del programma sportivo Donne nel pallone
Calcio e giornalismo, due tue passioni che sei riuscita a conciliare,
vero?
«Credo che il calcio, insieme alla musica, sia stata la prima passione
che mi ha rapita da bambina. Mio zio Raffaele, tifosissimo del Crotone,
mi portò la prima volta allo stadio quando avevo 5 anni. La celebre
frase della canzone Tammurriata nera che recita e ‘a femmena è
rimasta sotto ‘a botta ‘mpressiunata è perfetta per descrivere quel
momento. Ero rimasta totalmente “impressionata” da quello sport, fu
davvero una “botta” che mi rapì il cuore. Il calcio era diventato parte
di me, volevo guardarlo, capirlo e addirittura giocarlo. Ricordo
perfettamente quando a 6/7 anni, durante l’estate, inseguivo con scarsi
risultati mio cugino Michele di 9 anni più grande per poter giocare a
calcio con lui e i suoi amici. Quei miei tentativi furono vani, ma in
più di un’occasione lui giocava con me e mi accontentava, alimentando
sempre più questa passione. Indubbiamente la mia famiglia ha giocato un
ruolo fondamentale nel mio avvicinamento al calcio, da mio nonno
appassionato di Gianni Rivera a mia madre che ancora oggi segue con
passione le partite, ai miei zii e i miei cugini con i quali ho tanti
ricordi di “momenti calcistici” vissuti insieme. Quando ho iniziato a
intraprendere la carriera da giornalista, lo sport non era tra gli
argomenti di cui mi occupavo ma, qua e là nei miei pezzi, cercavo di
“infilare” qualche riferimento al calcio o ad un calciatore. Entrare nel
team di Donne nel Pallone mi ha permesso di conciliare entrambe,
e questo mi ha reso molto felice».
Com’è nata la tua partecipazione alla squadra femminile dell’Ordine
della Campania e quali riscontri hai avuto finora da questa
iniziativa?
«Lessi di questa iniziativa di formare una squadra femminile dell’Ordine
della Campania su Facebook e pensai: devo assolutamente entrare in
squadra! In quel momento non ero ancora giornalista, mancavano pochi
mesi al conseguimento del tesserino. Una volta ottenuto, la prima cosa
che feci fu contattare la collega Emma Di Lorenzo, già in squadra, per
chiederle di poter entrare. Era il 17 luglio 2018 quando andai al loro
ultimo allenamento di stagione, Mister Silvio Lascheri, e tutte le
colleghe mi accolsero con gioia. Nel febbraio 2019 riprendemmo gli
allenamenti che ci hanno poi portato a disputare diverse amichevoli con
l’AfroNapoli e a partecipare al torneo Braccialetti Rosa a Villaricca.
Allenamento dopo allenamento, partita dopo partita, il rapporto con le
colleghe e compagne si è intensificato, ho trovato delle amiche, delle
confidenti, delle persone che sono ormai entrate nel mio quotidiano e
con cui condivido cose personali. Siamo una grande famiglia».
E in squadra c’è Sonia Sodano con cui negli ultimi anni hai lavorato
a stretto contatto: come si è sviluppato il vostro rapporto?
«In quel primo allenamento di cui ho parlato poc’anzi, ho conosciuto
Sonia personalmente. Dopo pochi mesi, mi chiamò per chiedermi di
partecipare come opinionista nel suo “salotto rosa” di Donne nel
Pallone. Io fui felicissima e accettai immediatamente. Era la mia
prima esperienza televisiva, ero molto emozionata, ma Sonia è una
perfetta conduttrice e padrona di casa, sa mettere tutti i suoi ospiti a
proprio agio. Da lì, la mia partecipazione al programma è stata più
assidua, nel frattempo con Sonia si intensificava l’amicizia, così come
con Gabriella Calabrese, già opinionista fissa, redattrice del
Napolionline. Nel 2019, dopo tanti momenti personali condivisi, Sonia mi
chiese di entrare nella redazione del programma. In ogni suo progetto,
coinvolgeva sempre me e Gabriella, tutto ciò ha fatto nascere
un’amicizia speciale, una complicità che di solito si ha con qualcuno
che si conosce da tanto tempo, ma che tra noi è stata quasi immediata.
Oggi lei per me è una persona speciale e un’amica fondamentale, mi sento
molto fortunata».
Fai parte di una generazione di giovani giornaliste sportive che si
affacciano con passione ad un ambiente che però non sembra ancora averle
accettate completamente, come dimostrano alcuni spiacevoli episodi degli
ultimi anni: ti è mai capitato di subire discriminazioni o di non essere
ritenuta attendibile?
«Le discriminazioni e i pregiudizi esistono in qualunque campo, nello
sport ancora di più. Ricordo sui banchi di scuola delle medie, quando
parlavo di calcio, c’erano molti compagni di classe, maschi, che mi
dicevano di tacere in quanto “femmina che non capisce nulla”. Muovo
adesso i primi passi nel mondo del giornalismo sportivo, fortunatamente
non ho mai subito particolari “attacchi”. Se penso ad episodi come
quello accaduto all’arbitro Annalisa Moccia o ad altre colleghe che
fanno questo mestiere da anni, provo tanta amarezza. Il pregiudizio è un
lato oscuro dell’animo umano, fa male a chi lo subisce, è necessario
parlarne fino allo sfinimento, solo con la corretta comunicazione
possiamo vedere la luce in fondo al tunnel dell’ignoranza».
La riapertura degli stadi al pubblico, sia pure gradualmente, è un
segno di ripresa dopo quello che abbiamo vissuto?
«La nostra vita era un continuo assembramento, a lavoro, in fila alla
posta o alla banca, allo stadio, in teatro, al ristorante, nel locale o
al centro commerciale; tutti noi ci assembravamo senza sapere cosa
significasse questa parola. La nostra società è fondata su un certo tipo
di vita e di contatto umano che è difficile da modificare. Il non poter
andare ad un concerto o allo stadio a vedere una partita è qualcosa che
con il cuore non si accetta. La mente lo capisce ma il cuore, la pancia,
loro non lo accettano. L’emozione che provi quando dagli spalti di uno
stadio vedi un gol della tua squadra del cuore è una gioia che ti rimane
per sempre dentro. Gli stadi ti permettono, per gli ampi spazi, di
accogliere tante persone in sicurezza e per questo, sono contenta che si
stia riaprendo gradualmente, è un messaggio di speranza che ci aiuta a
tornare alla cosiddetta “normalità”».
Quali sono le tue previsioni per la stagione delle tue squadre del
cuore, Crotone e Napoli?
«Per quanto riguarda il Crotone, la gioia per il ritorno in Serie A è
inimmaginabile. Il mercato fatto dalla società fino ad ora non mi è
dispiaciuto, i nuovi innesti hanno bisogno di amalgamarsi meglio con i
veterani. Sono certa che Mister Stroppa riuscirà a creare un’unione
nella squadra e un’intesa che porti ad un buon gioco. Mi auspico dei
buoni risultati col tempo, mi sento positiva sul girone di ritorno e,
ovviamente, sulla permanenza in Serie A. Il Napoli, invece, squadra del
cuore lo è diventata col tempo, grazie al mio compagno Gianni, super
tifoso azzurro. Per come io vivo il calcio, non è stato difficile
appassionarmi. La grinta e la passione che gli azzurri mettevano in
campo mi ha rapito il cuore. Per quanto concerne questa stagione, come
molti mi aspetto grandi cose. Oshimen è davvero un portento, si è
percepito da subito che la sua presenza ha fatto bene all’intera rosa,
basti vedere la partita di campionato contro il Parma in cui il
nigeriano partiva dalla panchina e, nel secondo tempo, una volta entrato
in campo, ha dato una scossa a tutti i suoi compagni e ha permesso di
portare a casa i 3 punti. Mister Gattuso, poi, lo vedo perfetto per la
panchina azzurra, ha quella grinta giusta che fa bene al Napoli e ai
napoletani». Adele Monaco, la mia passione calcistica». |
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Chiara Oliviero, da Hercules a Netflix
di Giuseppe Bosso
Intervistiamo
Chiara Oliviero, doppiatrice con cui
ripercorriamo il suo percorso e le sue prospettive.
Come si è avvicinata al mondo del doppiaggio, ricorda la
sua prima volta in sala?
«Ho iniziato prestissimo, a 9 anni doppiando una bambina
nella serie Hercules, molto popolare negli anni ’90,
e lì per la prima volta mi trovai in sala, catapultata in
una realtà che a me appariva strana e diversa da quella che
ero abituata a vedere da spettatrice. Era un gioco,
ovviamente, in quel momento, ma piano piano è diventata una
cosa diversa».
Con quale attrice o personaggio si è sentita maggiormente
coinvolta?
«Sono tante, ma se devo scegliere penso al film La vera
storia di White Boy Rick dove ho doppiato la sorella
del protagonista, una ragazza problematica, fragile, con
risvolti drammatici, e solo a rivedere quelle scene ho
provato una forte commozione. Anche quando ho doppiato
Elizabeth Lail nel film Countdown, ho potuto
immergermi nelle mille sfaccettature del suo personaggio.
Aldilà della trama fantasy-horror, ha interpretato una
ragazza combattiva, che improvvisamente si ritrova
pesantissime responsabilità sulle sue spalle. Viene
calunniata, perde il suo fidanzato, soffre per l’improvvisa
morte della madre, si sente responsabile, ma nonostante
tutto non perde mai la lucidità e va dritta verso la
soluzione. Tutto condito da un tenerissimo amore per il
padre e per la sorellina, che cerca costantemente di
proteggere».
Anche il vostro ambiente ha inevitabilmente risentito
dell’emergenza covid: come ha vissuto la ripresa dopo il
lockdown?
«Le società hanno lavorato per metterci a disposizione un
ambiente più̀ sicuro; il rientro è stato strano, con i
tablet per i copioni, i plexiglas per dividerci
dall’assistente a cui non eravamo abituati; abbiamo
ricominciato così, ma per me che sono ipocondriaca è stato
molto rassicurante. Le società̀ hanno lavorato per metterci
a disposizione un ambiente più̀ sicuro; il rientro è stato
strano, con i tablet per i copioni, i plexiglas per
dividerci dall’assistente a cui non eravamo abituati;
abbiamo ricominciato così, ma per me che sono ipocondriaca
è stato molto rassicurante».
Prossimamente dove potremmo ‘ascoltarla’?
«Ci sono molte cose in cantiere, cose che avevamo lasciato
in sospeso e che stanno per ripartire, come la serie
Hollywood su Netflix o il reboot di Streghe; un
film di Natale prodotto dalla Disney e Valeria, che è
una trasposizione spagnola di Sex & The City in versione
adolescenziale».
E proprio a proposito di Netflix e di altre piattaforme
che hanno cambiato molto per lo spettatore, si può dire che
abbiano fatto lo stesso anche per il vostro mondo?
«Sicuramente è stata una novità che ci ha permesso di
prendere parte a molti interessanti progetti rivolti ad un
bacino di utenza molto più ampio. E mi fa piacere apprendere
che gli utenti italiani tendenzialmente preferiscono
visionare serie doppiate piuttosto che in lingua originale,
è come rendere omaggio al nostro lavoro e non può che farci
piacere».
Giulia Tarquini che intervistammo tempo fa l’ha indicata
tra le sue più care amiche: è così nel vostro settore?
«Sì, è un mondo dove è facile relazionarsi. Si potrebbe
pensare ad un ambiente sedentario dove si incontrano sempre
le stesse persone, ma non è così, ogni giorno puoi entrare
in contatto con tanti colleghi, e alla fine ci conosciamo
tutti. Poi ovviamente c’è qualcuno con cui ti trovi
maggiormente in empatia ed è facile sviluppare rapporti di
amicizia, condividendo il tuo lavoro che occupa la maggior
parte del tempo». |
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DONNE Ilaria
Rossetti, le cose da salvare di
Tiziana Cazziero
Le cose da salvare, edito da Neri Pozza, raccontare
la tragedia del crollo del Ponte Morandi attraverso l'opera
di una giovane ma ormai affermata scrittrice,
Ilaria Rossetti.
Ciao Ilaria e grazie per questa chiacchierata. Quando hai
capito che la passione per la scrittura poteva diventare
qualcosa di concreto e importante?
«Ho sempre scritto, fin da bambina, ma ho iniziato a farlo
più seriamente in tarda adolescenza. Nel mio caso c’è stato
un momento particolare, la vittoria al Premio Campiello
Giovani nel 2007, che mi ha fatto capire di voler percorrere
la strada della scrittura in modo concreto».
Le cose da salvare è la tua ultima pubblicazione
avvenuta con Neri Pozza. Parlaci di questo libro e di come
sei arrivata a questa pubblicazione.
«Venivo da molti di anni di silenzio, il mio ultimo romanzo
risaliva al 2011: ero allora molto giovane e sentivo di non
avere ancora trovato la mia voce. Avevo quindi deciso di
prendermi una pausa dai progetti letterari e leggere,
soprattutto. Nel 2018, finalmente, arriva il momento in cui
mi sento di poter tornare a raccontare una storia. Avevo in
mente di raccontare di legami familiari, del rapporto che ci
lega con le cose e le persone che non appartengono più al
nostro presente e del modo in cui facciamo i conti con i
crolli che accadono nella nostra vita. Come spesso accade
quando si comincia a scrivere, queste erano idee ancora
nebulose, poco concrete. Così, il 14 agosto 2018, vedendo
per la prima volta le immagini della devastazione del ponte
Morandi, ho intuito che in quella tragedia poteva esserci
non solo la cronaca, ma anche una potentissima metafora. Nel
2019 ho inviato il romanzo concluso al Premio Neri Pozza e
ho ottenuto la vittoria».
Come nasce Le cose da salvare? Leggendo la trama
si evince la vicinanza alla tragedia del ponte Morandi di
Genova, com’è stato per te scrivere questa storia?
«Ragionando sul crollo del ponte Morandi, mi sono posta una
domanda molto con-creta: se fossi stata tra gli inquilini
dei palazzi sotto il ponte genovese, che dovettero
abbandonare in pochi minuti le loro abitazioni, senza sapere
se un giorno avrebbero potuto farvi ritorno, quali oggetti
mi sarei portata dietro? Quali cose avrei salvato? Però non
m'interessava scrivere un reportage sul Morandi o su Genova,
perché sarebbe stato un lavoro diverso, un lavoro
giornalistico. Ho voluto rendere quegli avvenimenti una
sorte di archetipo letterario. Il crollo del ponte è
diventato una suggestione fortissima, mi sono chiesta che
cosa poteva rappresentare per un individuo e per una
comunità: un ponte che crolla cosa scatena, oltre a una
dinamica di rottura? Mette in discussione gli status quo?
Che cosa collega davvero un ponte e che cosa significa
abitarne le due estremità? Per queste ragioni ho scelto di
non nominare mai il Morandi e di non nominare Genova. Volevo
scrivere di un mondo in cui tutti potessero riconoscersi,
allontanarmi dalla cronaca e dalla sua presa diretta».
Quali sono le tue cose da salvare? Ognuno di noi ha i
suoi effetti più cari, diversi per ciascuno, se fossi tu in
quella situazione, quale sarebbe il primo pensiero? Cosa
salveresti?
«Indovina? Non lo so ancora. Nemmeno scrivendo questo libro
mi sono data una risposta, ma forse è meglio così, credo che
in quel che ha detto Javier Cercas una volta, e cioè che il
romanzo è il genere che protegge le domande dalle risposte.
Spero solo di saper fare una scelta di cuore e di pancia».
Parlaci di Petra, la protagonista, giornalista che si
trova ad affrontare il dilemma di un uomo che non vuole
rinunciare alla sua casa, anche se questo significa
rischiare la vita in ogni istante.
«Petra è una giovane giornalista, da poco rientrata da
Londra, che si trova ad affrontare il lutto della perdita
della madre e l’incarico di intervistare Gabriele Maestrale.
All’inizio non vorrebbe occuparsi di questa storia, ma dopo
le prime reticenze riesce a creare un legame con Gabriele ed
è l’unica che viene autorizzare a mettere piede
nell’appartamento pericolante. E così, Petra e Gabriele,
dopo l’iniziale diffidenza, trovano il modo di parlarsi e
capirsi, e forse di trovare le loro cose da salvare».
Gabriele, che uomo è? Ti sei ispirata a qualcuno in
particolare che conosci?
«Gabriele è un ex professore di scuola media, separato, che
il giorno del crollo del Ponte, mentre tutti gli altri
inquilini del palazzo scappano dagli appartamenti, non
riesce a muoversi, perché non riesce a capire quali siano le
sue cose da salvare. È un uomo stanco, che in realtà ha in
serbo ancora delle sorprese: è soprattutto una persona
libera, che ragiona con la sua testa e si mantiene coerente
con le sue scelte. Ed è anche che è un uomo generoso, capace
di un potente gesto di solidarietà verso il prossimo».
Cosa si deve aspettare il lettore leggendo questo libro?
«Sicuramente non deve pensare che sia un libro su Genova e
sul crollo del ponte Morandi, perché – come dicevamo sopra –
non lo è. È la storia di più fragilità che si intrecciano,
di persona che provano a stilare un inventario emotivo della
propria vita, iniziando proprio dagli oggetti che hanno in
casa. È la storia di una famiglia, di una città, e anche di
una forma di dissidenza verso lo status quo».
Ci altri personaggi di rilievo nella storia?
«C’è Alfio, il padre di Petra, appena rimasto vedovo, che si
trova a fare i conti con un antico amore riemerso
improvvisamente dal passato, e due donne misteriose che
entreranno nella vita di Gabriele, determinando le sue
scelte finali. Ma di più non direi, per non rovinare la
sorpresa al lettore!».
A cosa stai lavorando in questo periodo, puoi accennarci
qualcosa?
«Sto lavorando a un nuovo romanzo e ad alcuni racconti, ma
ancora non posso dire nulla...».
Grazie per il tuo tempo, se vuoi aggiungere qualcosa,
questo spazio è tuo.
«Grazie a voi per l’attenzione! Vi auguro un tempo denso di
letture e scoperte».
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