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Telegiornaliste anno XIII N. 21 (531) del 14 giugno 2017
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Cristiana
Svaldi, sopravvissuta a chi voleva ostacolarmi
di Giuseppe Bosso
Incontriamo Cristiana Svaldi, giornalista Mediaset che ci racconta i
suoi esordi, le difficoltà che ha dovuto affrontare ieri e oggi e i suoi
consigli per gli aspiranti giovani giornalisti.
Raccontaci dei tuoi esordi.
«Dopo le mie esperienze da precaria – gratis – in varie radio ed
emittenti, mi sono “imposta” agli autori del programma Lasciate un
messaggio dopo il bip, l’ultima trasmissione condotta da Donatella
Raffai; volevo uscire da questa situazione di precariato; il giornalismo
era la mia aspirazione fin da ragazza, ho vissuto con la mia famiglia a
Bruxelles al seguito di mio padre funzionario della Comunità Europea, ma
non intendevo seguire quel tipo di percorso; così ottenni questo primo
contrattino, sempre a costo zero, per un programma che però non arrivò
nemmeno alla conclusione, visto che la Raffai, grande professionista ma
come ricorderanno gli spettatori e le persone che hanno lavorato con
lei, personalità particolare, fece chiudere il programma e da allora è
sparita dal video. “Rompendo le scatole” qua e là sono arrivati altri
contrattini, sempre di pochi mesi e per pochi spiccioli (ma lavorare
gratis almeno all’inizio è necessario, altrimenti non si va da nessuna
parte) prima a Uno Mattina, a Domenica In con Michele
Guardì, da programmista e regista. Nel 2001 finalmente il mio primo
contratto vero da giornalista a Porta a Porta con Bruno Vespa,
proprio in concomitanza con l’attentato alle Twin Towers dell’11
settembre; lavorai molto quell’anno, partii per New York in quel
momento, anche se io non avevo certo intenzione di fare la giornalista
inviata di guerra; partii a malincuore, ma fortunatamente l’aereo tornò
indietro e cedetti il posto ad un’altra collega. Poi ebbi un colpo di
fortuna rappresentato dalla necessità, per il Tg4, di una sostituzione
estiva, che colsi al volo; feci un colloquio presso la redazione romana
del tg allora diretto da Emilio Fede che andò positivamente».
E come si è sviluppato il tuo rapporto con il direttore?
«In modo alquanto problematico. Fede, lo saprete, è una persona che
tende ad innamorarsi facilmente ma altrettanto facilmente a disamorarsi;
ha provato a non rinnovarmi il contratto con motivazioni ridicole, tipo
che non seguivo la scaletta in occasione dei collegamenti, e cose del
genere... non mi sono fatta intimorire, ho fatto causa all’azienda
facendo loro presente che se avevano dei dubbi sulle mie capacità
dovevano dirlo chiaramente altrimenti avrebbero dovuto pagare le
conseguenze di un licenziamento. Alla fine si è risolto tutto con una
transazione e il mio ritorno al Tg4 a tempo indeterminato; Fede mi ha
tenuto un po’ in disparte sulle prime, e così mi sono trovata a fare
servizi sulle previsioni meteo mentre prima andavo dappertutto con lui.
Sono rimasta tanti anni alla redazione romana del Tg4 fino al confluire
di tutti i tg del gruppo nella società News Mediaset, che ha riguardato
tutti tranne i colleghi del Tg5, obbligati con dolore ad abbandonare le
nostre redazioni, questo “lavorare tutti per tutti” che ha creato un
aumento dei ritmi di lavoro… nonostante me l’abbia fatta sudare comunque
sono grata a Fede per quello che ho imparato con lui. Adesso il clima è
forse più rilassato, ma come saprete abbiamo questa spada di Damocle del
trasferimento da Roma a Milano che colpirà non pochi di noi, e che per
chi ha una storia come la mia alle spalle rappresenta davvero
un’ingiustizia dopo una carriera costruita faticosamente giorno dopo
giorno».
La tua giornata tipo.
«Lavoro prevalentemente nei turni di notte; sono molto casalinga di
giorno, poi cammino o vado in bicicletta in giro per Roma alla ricerca
di storie di una città bellissima che purtroppo sta morendo. Mi stanno a
cuore soprattutto le persone anziane, gli emarginati e gli animali, la
mia vera passione. Nel pomeriggio inizia il mio lavoro in redazione, che
dura fino a mezzanotte, e mi occupo soprattutto di cronaca nera. È un
lavoro che nonostante lo sviluppo tecnologico e i mezzi digitali a
disposizione, come ti dicevo, per i cambiamenti che hanno riguardato il
gruppo è molto più faticoso rispetto al passato».
Alla luce di questa tua esperienza consiglieresti a un giovane di
entrare nel mondo del giornalismo?
«No, non oggi sicuramente. Ai giovani che pensano subito di essere
grandi reporter e di avere la strada spianata, consiglio di leggere, di
avvicinarsi di più alla cultura, diventare persone capaci di parlare, di
esprimersi, di scrivere; vedo gli stagisti, soprattutto a quelli che non
si approcciano alla professione con la dovuta umiltà, che non hanno mai
nemmeno preso in mano un giornale, non parlare nemmeno un corretto
italiano. Rimpiango la vecchia scuola che oggi si è smarrita, dove
contavano davvero le capacità e l’impegno e non le conoscenze e le
raccomandazioni. Il giornalista dovrebbe essere anzitutto una persona
curiosa che si avvicina alla realtà per raccontarla facendo un servizio
alla collettività e non una persona che si può definire tale per il
semplice possesso del tesserino, che io butterei subito, per come è
ridotta la professione adesso soprattutto. Consiglio ai ragazzi: fate
prima un lavoro che vi avvicini alla vita, come può essere anche fare il
lavapiatti, per poi provare questa strada. Ma la vedo molto difficile…
il giornalista non è quello che si aggiorna sui social dove può scrivere
chiunque, ma chi sa ‘sporcarsi le scarpe’ in campagna o in strada, che
le notizie le cerca. Mi spiace sembrarvi eccessivamente pessimista, ma è
la mia esperienza che mi fa parlare così».
La parola domani cosa ti fa venire in mente?
«Per me i giorni sono uno uguale all’altro, lavoro anche nei festivi,
nel week end; quindi domani uguale oggi, ma di questo sono contenta,
giornate ritmiche scandite allo stesso modo. Non voglio vantarmi
ridicolmente, ma posso dire che in tutta la mia carriera non avrò fatto
più di due giorni di assenza per malattia, solo in occasione di un
incidente in cui mi ruppi il ginocchio fui costretta a casa per un lungo
periodo, con molta sofferenza. Non ho mai fortunatamente avuto problemi
che mi hanno obbligata ad assenze, ed è una carta che potrò sicuramente
giocare nel caso in cui qualcuno pensasse ancora di potermi mandare via
un giorno». |
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TUTTO TV Lino
Guanciale, attore dell’anno di
Sara Ferramola
Lino Guanciale, attore abruzzese noto al
pubblico, femminile in particolare, per le numerose
fiction televisive di cui è stato protagonista,
incollando davanti alla tv migliaia di spettatori, è
sicuramente il personaggio dell'anno; ma il suo
curriculum è molto più ampio e certamente non
recentissimo: ha recitato moltissimo anche a teatro e
al cinema, sebbene si sappia che quando si passa per
il piccolo schermo si diventa immediatamente
popolari; e per Lino è stato proprio così.
Debutta a teatro nel 1998 con La Quinta
stagione, per la regia di Ciaccia, e da lì è stato
un continuo crescendo e perfezionamento; al cinema
esordisce nel film Io, Don Giovanni, di Carlos
Saura, nel 2009 e in televisione due anni dopo, nel
2011, con la fiction Il segreto dell'acqua
trasmessa su Rai Uno.
Pur continuando a occuparsi di cinema e teatro, Lino
Guanciale è diventato popolare negli ultimi anni grazie ai
personaggi interpretati nelle fiction, tutte
trasmesse dalla Rai: il primo successo arriva con la
serie Una Grande famiglia e con Che Dio
ci aiuti, entrambe incassatrici di eccezionali
ascolti per tutte le rispettive stagioni, oltre a
La Dama velata, con
Miriam Leone; in tempi ancora più recenti lo abbiamo
visto in Non dirlo al mio capo, insieme a
Vanessa Incontrada, dove interpretava un avvocato
rigoroso, e ne L'Allieva, con
Alessandra Mastronardi aspirante medico legale
che, ispirandosi al suo maestro, finirà per innamorarsene;
agli inizi di quest'anno anche La porta rossa,
stavolta su Rai Due, è stata una serie per la quale
Guanciale ha ricevuto i più ampi apprezzamenti da
parte del pubblico.
Neanche un mese fa, il 18 maggio, è uscito nelle sale
il film I Peggiori, in cui recita insieme al
regista Vincenzo Alfieri; in questo periodo è impegnato per
la Sagra del Cinema a Castiglion Fiorentino,
dove interverrà il prossimo 30 luglio. |
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Eleonora
Molisani, le mie storie del terzo millennio
di Tiziana Cazziero
Incontriamo Eleonora Molisani, una giornalista che ha seguito
la passione per la scrittura, rinunciando a un futuro da
avvocato.
Ciao Eleonora e grazie per aver accettato il mio invito. Tra
essere avvocato e diventare giornalista ha vinto l’amore per la
parola scritta: come e quando hai capito che il tuo futuro era
nel giornalismo?
«Ho studiato legge per seguire una sorta di “tradizione
familiare” ma in realtà ho sempre amato la lettura e la
scrittura: leggo da sempre, scrivo da sempre, e per di
diventare giornalista professionista ho fatto una lunga e dura
gavetta; lavorando molto (per diverse testate italiane, dai
quotidiani, ai mensili, ai settimanali) e non smettendo mai di
studiare e di aggiornarmi, sono riuscita a raggiungere bei
traguardi e soddisfazioni in ambito professionale».
Oggi lavori come caposervizio per un settimanale del gruppo
Mondadori, Tu Style: quali difficoltà hai incontrato nel
tuo percorso, prima di raggiungere i risultati di oggi?
«La difficoltà iniziale di non avere avuto nessun aiuto, ma di
aver dovuto lottare da sola, basandomi solo sulla passione,
sulla tenacia e sulla professionalità; la difficoltà di essere
una donna, specie all’inizio, quando lavoravo per i quotidiani,
dove da sempre vengono preferiti e favoriti gli uomini. La
difficoltà di dover lavorare in un ambiente molto competitivo,
come quello del giornalismo, dove non sempre si respira un
clima di solidarietà e dove non sempre le competenze vengono
riconosciute e premiate».
Nel 2014 hai pubblicato Il buco che ho nel cuore ha la
tua forma: come nasce la voglia di mettersi in gioco come
scrittrice? Di che cosa parla il libro?
«Il giornalista ha il compito di raccontare la realtà in modo
obiettivo: è la cassa di risonanza di chi non ha voce, è il
filtro attraverso il quale le notizie devono raggiungere il
pubblico; scrivere un articolo richiede una tecnica precisa,
non sono concesse opinioni personali, non c’è grande spazio per
la creatività. Avevo voglia di scrivere qualcosa che fosse mio,
in cui ci fosse la mia sensibilità, il mio sguardo sul mondo.
Scrivere un libro (appoggiata da un editore che ha rispettato
al massimo il mio lavoro e la mia creatività) è stato un atto
estremo di libertà intellettuale; un’esperienza che mi ha
arricchito moltissimo».
Racchiudi tanti racconti brevi in un unico libro: qual è
l’elemento comune che li unisce?
«Il sottotitolo è: Storie del terzo millennio. Sono
istantanee della realtà dura e contraddittoria che ci circonda.
Sono racconti brevi che parlano di pedofili, di prostitute, di
madri e padri degeneri, di malattia, di tradimento, di
handicap, di femminicidio, di social network, di connessioni
globali che amplificano la solitudine. Raccontano di vittime
che si trasformano in carnefici; di chi urla e di chi non ha
voce; di quelli che ci piace pensare siano sempre “gli altri”,
ma alla fine siamo noi senza orpelli. Noi, quando ci
espropriano delle certezze e dei totem: quando ci rubano la
maschera e l’armatura; quando ci squarciano il guscio e
disperdono i cocci al vento."
Cosa significa essere una giornalista e com’è cambiato il
mondo editoriale negli ultimi anni? Qual è il tuo pensiero?
«I giornalisti devono diventare operatori della comunicazione
completi. Devono acquisire competenze nuove, al passo con i
tempi e le nuove possibilità dei media. Negli ultimi anni vado
in giro nelle scuole a spiegare come sono cambiati i codici
della comunicazione, grazie alla digitalizzazione e alla
globalizzazione dei media: secondo me bisognerebbe avere la
lungimiranza di puntare su un nuovo modo di fare informazione,
valorizzare il canale digitale, aumentare le sinergie tra i
diversi media (che ormai sono quasi illimitate). Qualcuno ci
sta provando, molti rimangono al palo, puntando ancora troppo
sul veicolo cartaceo, che negli ultimi anni sta perdendo quota.
Per quanto riguarda essere giornalista professionista in
un’epoca in cui tutti possono dire la loro attraverso i blog,
youtube, internet, senza una corretta verifica delle fonti,
senza seguire criteri etici e deontologici, diventa sempre più
difficile; e per non rischiare il tutto vale tutto, andrebbe
ripensata anche la professione, le sue regole, la formazione
dei futuri operatori dell’informazione».
Un ricordo bello e uno brutto nella tua esperienza di
giornalista: quali ci racconti?
«Il ricordo più bello è quando mi è stato affidato da un grande
editore un giornale come responsabile e contemporaneamente un
altro come caporedattore centrale; sono stati anni molto duri
ma pieni di soddisfazione: gestire contemporaneamente quei due
incarichi, diversi anche come tematiche, mi ha insegnato
moltissimo, sia dal punto di vista della gestione dei giornali,
sia del rapporto con le persone. E mi ha aiutato in seguito ad
affrontare ambienti e situazioni diverse. La situazione più
spiacevole, invece, è stata quando - sei anni fa - ho chiesto
un demansionamento, per gravi motivi familiari, dalla qualifica
di caporedattore centrale a quella di caposervizio: da quel
momento ho guadagnato tempo e salute ma mi rendo conto che il
bagaglio professionale che ho accumulato in tanti anni di
lavoro è andato un po’ sprecato».
Qual è il genere che più ami e verso il quale sei più affine
come giornalista? E come scrittrice quale sarà il tuo prossimo
libro? Hai qualcosa in programma?
«Come giornalista amo da sempre la cronaca, la politica, il
costume, la cultura. E attualmente ho la fortuna di occuparmi
di libri, un settore che amo moltissimo: come autrice - non
sentendomi una vera “scrittrice” - non so ancora se ci sarà un
secondo libro. Ho avuto la soddisfazione di vedere alcuni miei
monologhi recitati a teatro quest’anno, ed è stata
un’esperienza che mi piacerebbe ripetere. Ho partecipato a una
raccolta di racconti brevi, Pausa Caffè, uscita pochi
mesi fa, e di certo mi piacerebbe cimentarmi con un romanzo
breve. Sarebbe una bella sfida». |
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