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Telegiornaliste anno XIII N. 15 (525) del 3 maggio 2017
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Annalisa
Venditti, il mio romanzo giallo 'insolito'
di Giuseppe Bosso
Incontriamo la giornalista
Annalisa Venditti,
che ci parla del suo libro, Il giorno dell’assoluzione, romanzo
che vede protagonista un capitano dei Carabinieri, Giovanni Borgia, alle
prese con un intricato delitto.
Come nasce il suo libro?
«Volevo scrivere una storia con le tinte del giallo e del poliziesco in
cui i protagonisti si districassero tra colpi di scena e con un’arma del
delitto ‘insolita’, quella del senso di colpa delle vittime».
Giovanni Borgia, il protagonista della storia, trae ispirazione da
persone che ha conosciuto realmente?
«Ho un grandissimo rispetto per l’Arma dei Carabinieri, essendo
cresciuta nel culto della figura di Salvo D’Acquisto. Dovendo scrivere
un romanzo con protagonista un uomo delle forze dell’ordine, ho pensato
subito a un carabiniere. Borgia esiste perché fa parte di questo
romanzo, spero di altri. Non ho tratto ispirazione da nessuno in
particolare. Borgia è un investigatore vecchia maniera che fa indagini
sul campo, leggendo le carte e recandosi nei luoghi a interrogare più
persone: è coraggioso, integerrimo, pulito, un professionista. Con una
vita magari un po’ disordinata dal punto di vista affettivo, ma è un
uomo affidabile e preciso sul lavoro, molto passionale. Ha già molte
fan. Colgo l’occasione per ringraziarne una in particolare, Milena
Barberis, pittrice digitale, che ha voluto farmi un grande regalo
permettendomi di usare una sua opera per la copertina».
Per dire “spero di altri” il suo intento è di inaugurare un ciclo di
romanzi con questo personaggio?
«Il seguito è già in lavorazione e le prossime indagini del capitano
sono annunciate anche alla fine di questo romanzo: spero di poter
accompagnare Borgia a lungo e in molte pagine. Spero che pure lui mi
accompagni ancora per molto tempo in questo cammino di scrittura. Il
futuro non esiste, esiste il presente, sperando che le sue avventure
piacciano al pubblico».
Ma non le sembra che il genere giallo sia già abbastanza esplorato?
«Sicuramente è così, ma io vengo da altre esperienze di scrittura: per
molti anni mi sono occupata di ricerca scientifica, ho pubblicato una
favola di Natale a tinte noir, ho scritto la biografia del generale
Andrea Baroni, il meteorologo tv; sono arrivata a questo romanzo con
l’intento di mettere in campo la mia esperienza lavorativa, visto che
sono abituata a seguire vicende di cronaca e volevo scrivere una storia
certamente di fantasia, un giallo in cui i caratteri psicologici
emergessero all’interno dell’incastro della trama. Volevo far sentire il
rumore dei loro pensieri e avvinghiarli nel labirinto costruito su
misura dal parte del persecutore. Mi interessava mostrare una
particolare dinamica manipolatoria, volevo creare suspense e dare al
lettore l'emozione di molti colpi di scena. Per tornare alla sua
domanda: è vero, ci sono tanti gialli, ma non tutti sono bei gialli».
Qual è stato il riscontro che ha avuto da chi ha letto il romanzo?
«Ho raccolto tantissime impressioni; posso dire che sono stati
apprezzati lo stile, la trama e da quel che mi dicono nessuno riesce a
intuire sino alla fine chi sia il colpevole... pur avendo disseminato
qualche indizio. Ho avuto un importante riscontro anche dai
giovanissimi. Due classi liceali lo hanno letto e apprezzato. Ne abbiamo
parlato assieme. Una bellissima esperienza per me... non posso non
citare una ragazza che mi ha detto di essersi a tal punto immedesimata
nella storia da aver avuto, a un certo punto, l'impressione di far parte
del libro… Come lei stessa mi ha spiegato, la lettura l'aveva coinvolta
e presa. A molti lettori è piaciuta anche la descrizione di Roma, una
città raccontata attraverso i suoi sensi di colpa: antichi e moderni.
Alcuni mi hanno fatto notare che forse faccio molta attenzione ai
dettagli, ma - secondo me - in un giallo il dettaglio può essere la
chiave di volta, la soluzione di tutto. E poi io adoro i dettagli. Però,
più che ai riscontri positivi, tengo molto alle critiche: mi piace
soprattutto sentire cosa, secondo i lettori, non ha funzionato, per
migliorare. Un po' come farebbe in cucina una brava massaia per
perfezionare le sue ricette e i suoi piatti». |
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TUTTO TV Stefano
Brusa. Romics sempre magico
di Giuseppe Bosso
Tra i più apprezzati doppiatori e direttori del doppiaggio
incontriamo
Stefano Brusa, reduce dalla conduzione, con la
collega Perla Liberatori, dell'ultima edizione del Gran
Galà del Doppiaggio che si è svolto, in occasione della
rassegna Romics (dedicata a fumetto, animazione,
videogames e intrattenimento) lo scorso 8 aprile a Roma.
Figlio di Mario, anche lui attore e doppiatore, e fratello
di
Angela Brusa, da noi recentemente intervistata.
Che sensazioni ti ha lasciato questa edizione di Romics?
«Il Romics è sempre un momento magico, che ci
permette di fare anzitutto un punto della situazione
dell’anno passato, a cominciare dalla perdita di colleghi
che purtroppo ci hanno lasciato, che vengono sempre
ricordati, sia dei migliori film, serie e cartoni usciti
durante l’anno e soprattutto dando spazio alle voci
emergenti che in futuro potranno affermarsi nel panorama del
doppiaggio; il pubblico si è fatto sentire anche quest’anno
molto caloroso».
Dove ti potremo “ascoltare” prossimamente?
«Proprio in questi giorni è uscita la nuova stagione di
Love su Netflix, alla seconda edizione dopo un buon
successo della prima, dove la direzione del doppiaggio è di
Laura Boccanera (storica doppiatrice, tra le altre, di Jodie
Foster, ndr), che mi ha scelto per un personaggio che per
carattere sento nelle mie corde, scelta condivisa con
Francesco Vairano (voce italiana, tra gli altri, di Alan
Rickman nella saga Harry Potter e di Andy Serkis nel
ciclo de Il Signore degli Anelli, ndr) , direttore
artistico di Sedif; recentemente è andato in onda su
Mediaset, il film Elser - 13 secondi, storia di un
orologiaio tedesco che era stato vicinissimo, appunto di 13
secondi, dall’uccidere il Fuhrer prima dello scoppio della
seconda guerra mondiale; un film bello perché racconta una
vicenda umana e politica da conoscere; ultimamente mi sono
state affidate delle direzioni del doppiaggio interessanti,
come la seconda stagione della serie Ash Vs Evil Dead,
tratta dall’horror cult La Casa, dove ho avuto la
fortuna di dirigere un maestro del doppiaggio come Michele
Gammino (voce italiana di Harrison Ford e Steven Seagal,
oltre che di Terence Hill, ndr) ; è una grande possibilità
poter lavorare con questi professionisti da cui c’è sempre
tanto da imparare».
Hai modo di dirigere anche giovani leve del doppiaggio in
questa veste: come ti poni nei loro confronti?
«Sempre molto aperto, pensando che potrei essere stato io in
passato al loro posto, consapevole dell’importanza dei
consigli di chi questo lavoro lo faceva prima di me; cerco
sempre di ascoltarli, e nelle distribuzioni che ho fatto ho
cercato sempre di dare spazio ad almeno una o due voci che
fossero emergenti e da premiare. Ma ultimamente sta
diventando molto difficile fare selezione, sono davvero
tantissimi e sentirli tutti è piuttosto complicato, porta
inevitabilmente a fare qualche errore di valutazione; cerco
comunque di dare attenzione a tutti, ma non mi è capitato di
sentire ultimamente ragazzi pronti per ruoli di livello».
Come tua sorella Angela anche tu fai spola tra Torino e
Roma: che differenze hai riscontrato tra i due ambienti?
«Sono arrivato a Roma avendo già alle spalle molti anni di
esperienza a Torino, ma sicuramente avendo molto ancora da
imparare; a parte qualche dettaglio tecnico comunque alla
fine non ci sono molte differenze nel fare questo
meraviglioso lavoro di dar voce a facce che parlano un’altra
lingua, è stato affascinante realizzare che alla fine
facevamo lo stesso lavoro a tanti chilometri di distanza».
In questi giorni è purtroppo venuta a mancare una tua
collega,
Monica Bonetto: qual è il tuo ricordo di lei?
«Con Monica ho condiviso un’esperienza importante legata al
teatro, uno dei miei primi lavori: Il Mago di Oz, in
una rivisitazione di Marco Gobetti, andata in scena a Torino
da una giovane compagnia per la regia di Santo Versace; lei
interpretava la strega buona, e ho il ricordo di una di
quelle esperienze che ti legano per sempre. Ho appreso della
sua scomparsa mentre ero in viaggio; è stato un duro colpo
ma anche l’occasione di ripensare a questi momenti, legati
alla mia adolescenza, che anche per la sua presenza mi
porterò sempre dentro».
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Sara
Jane Ceccarelli, la mia vita in musica
di Alessandra Paparelli
Incontriamo l’artista
Sara Jane Ceccarelli, pianista, cantante jazz,
concertista, interprete: cantante in 10 lingue diverse e di
vari generi musicali.
Come ti sei avvicinata alla musica? A che età?
«Sono figlia di un musicista, e la considero una grande
fortuna: a 3 anni mio padre ha deciso di farmi studiare
pianoforte con un’insegnante giapponese, e credo che questo
abbia fortemente influito sul mio modo di vivere la musica:
inchini, respiri, piccoli gesti “sacri” prima di iniziare a
suonare; dopo 10 anni di studio con lei, insieme a mio
fratello, una breve pausa e ho iniziato poi a cantare,
all’inizio per gioco: cantavo un brano ai concerti di mio
padre, o ai saggi della scuola. E poi a 19 anni è iniziato il
duo con mio fratello».
Come nasce la tua passione?
«La parola passione è emblematica: l’etimologia latina e greca
riconduce ai verbi soffrire, patire, ma anche provare una forte
emozione. Direi che è la definizione che più mi si addice,
perlomeno a livello emotivo; è una dimensione così
profondamente intima che per un lungo periodo ho preferito non
averci a che fare seriamente: sentivo che apriva porte troppo
delicate. Forse è per questo che ho cantato per moltissimi anni
esclusivamente cover, mai presa la penna in mano. Cantare cose
di altri mi faceva sentire protetta. Poi, all'improvviso, black
out totale, e in breve tempo mi sono trasferita a Roma, mi sono
diplomata in canto jazz, ho ripreso a studiare pianoforte
moderno, tante collaborazioni e ho scritto le mie prime
canzoni. Tra lacrime e struggimenti, dubbi e paure, ma anche
molta emozione. Ed è arrivato così l mio primo disco, Colors».
A quali artisti ti ispiri oggi e ti sei ispirata
precedentemente?
«Ho ascoltato la musica più diversa, da sempre, anche se avevo
la tendenza ad ascoltare un intero album per volta, a volte per
mesi e mesi. Ricordo alle medie di essermi “chiusa” prima con
Michael Jackson, poi con Battisti e in terza media con uno dei
primi album dei Beach Boys. Poi sono arrivati i “grandi
interpreti" tipo Stevie Wonder, George Michael, Witney Houston,
Lionel Ritchie e Rod Stewart. Mia madre, canadese, mi ha fatto
ascoltare tanta musica del nord America; mentre mio padre
trascinava i miei ascolti nel jazz... e poi tanta musica
brasiliana e d’improvviso Jamiroquai, i Quintorigo e ora grande
amore per i Police; ho ridotto l’elenco all'osso! Quando mi
sono messa a scrivere, 3 anni fa, le orecchie erano piene di
musica, diciamo che mi ha ispirata tutta la musica che ascolto
da quando sono nata».
Cosa rappresentano il canto e la musica per te?
«Ho avuto sempre la sensazione che il canto corrispondesse a
tirare fuori la parte più nascosta della mia persona. Facendone
un mestiere, si impara a gestire questa emotività anche se
rimane la sensazione di mettersi a nudo di fronte a tanti
sconosciuti: mi piace non avere perso quel pudore che per tanti
anni mi ha fatta sentire vulnerabile… mi dispiacerebbe se
sparisse. La musica, in senso ampio, è per me condivisione.
Esiste insieme agli altri, anche l’ascolto lo preferisco
condiviso. Mi piace molto stare a studio e creare insieme; come
disse Amy Winehouse, "la fama (e i soldi) mi serve per una
sola cosa: poter collaborare con chi voglio, e stare a studio
tutto il tempo che desidero”. Condivido appieno».
Hai una famiglia di artisti che ti hanno ispirata, parlaci
di loro, di tuo fratello.
«Mi sono diplomata poche settimane fa in canto jazz al Santa
Cecilia di Roma, e la mia tesi era dedicata a mio padre e ancor
più a mio fratello, che è da sempre il mio socio, come mi piace
chiamarlo: abbiamo mosso i primi passi insieme (reali e
metaforici), tra me e lui c’è solo un anno di differenza;
abbiamo gusti musicali molto simili, e questo lo dobbiamo a mio
padre che ci ha fatto ascoltare moltissima musica e soprattutto
portati e tanti live sin da bambini. Gli altri due fratelli non
sono musicisti ma grandi appassionati di musica: mi ispiro per
assurdo anche a loro, invidio chi non vive di musica e mantiene
con essa quella sana distanza da appassionato; lotto anche io
per mantenere intatto il fanciullo ascoltatore in me; a casa
mia per molti anni, essendo 4 figli, c’erano sempre accesi
contemporaneamente ben quattro stereo: mio padre che suonava il
suo coda, mio fratello la chitarra in mansarda: non c’era
scampo, le orecchie si sono riempite di tutto e di più».
Sei un vero talento: canti in 10 lingue diverse, esegui vari
generi musicali, porti vari generi e fai conoscere il bello: le
persone hanno bisogno di conoscenza, di sapere?”
«I diversi idiomi sono, almeno per me, una grande ricchezza per
il canto: sono bilingue dalla nascita per cui ho sempre cantato
in inglese e in italiano; ma a queste due lingue mancano dei
suoni che ad esempio troviamo nello spagnolo, nel portoghese,
nell’israeliano, etc... mi sono specializzata sui suoni, e devo
dire che forse è ciò di cui sono più orgogliosa. Ho cantato
tanti diversi generi musicali per mia curiosità personale, e
accettato ruoli e collaborazioni con materiale anche ostico per
me, per il semplice piacere delle sfide. Ho fatto la stessa
cosa nella mia vita con gli sport, ne ho praticati tantissimi!
La curiosità credo arricchisca molto, e anche se alla fine non
si diventa completamente padroni di una disciplina (sia essa un
genere musicale, uno sport, una lingua) il fatto di averne per
un periodo “annusato” i contorni fa sentire appagati, almeno
per me è così. C’è chi si concentra su di un’unica disciplina e
chi come me sembra una pallina impazzita: anche con questo ho
dovuto fare la pace».
Sei accompagnata, tra le tante esperienze fatte e concerti
effettuati, dal maestro Simone Vallerotonda: come nasce questa
splendida collaborazione? quali suoni, quali melodie intendete
portare e far conoscere?
«Quella con Simone Vallerotonda, chitarrista barocco
(tiorba/liuto/chitarra barocca/chitarra battente) è una
collaborazione molto recente, nata grazie a Matteo Casilli, che
ha fotografato tantissimi musicisti italiani e sia io che
Simone ci ritroveremo in questo libro che uscirà a giugno con
oltre 300 volti. Gli strumenti che suona Simone sono di gran
fascino, soprattutto perché il loro suono non si ritrova nella
musica “pop”: è un suono, e un genere, solitamente relegato a
concerti in stile, e luoghi altrettanto in stile! L’idea di
Simone è quella di “sdoganare” questi strumenti sfruttandone i
colori e le peculiarità. Abbiamo suonato in duo, fatto alcuni
tentativi acustici con i miei brani fino ad aggregare Simone al
mio trio per il concerto a ‘Na Cosetta a Roma il 9
aprile, dove per la prima volta si è esibito insieme
all’elettronica: un connubio riuscito. L’idea è quella di
scrivere brani originali insieme, lui è sempre in giro per il
mondo ma inizieremo presto!».
Parliamo – infine - del disco, dei live e dei prossimi
concerti e appuntamenti.
«Il mio primo disco, Colors, è uscito il 7 ottobre 2016,
anche se dall’aprile precedente, con la prima data in assoluto
al Monk di Roma, eravamo già in giro a fare concerti; dopo un
anno tour qua e là per l’Italia e in Danimarca, per il
Copenaghen Jazz Festival, sono orgogliosa di avere ricevuto
incredibili recensioni, devo dire inaspettate ma che ripagano
non solo del duro lavoro, ma anche dei timori… dopo anni a
cantare cover, proporre i propri brani è un po’ come
ricominciare da zero. Ora ho voglia di scrivere cose nuove e
lavorare ad un secondo progetto; per questo primo disco mi sono
affidata ad altre persone sotto molti aspetti, e non me ne
pento; ho trovato un team che mi ha permesso di dire la mia
facendomi sentire protetta. Ma ora ho le idee più chiare e meno
timori: stiamo programmando i concerti estivi e ho
contemporaneamente accettato una collaborazione per l’estate
con un gruppo che ammiro molto, e di cui presto si saprà.
Quindi, come si dice, stay tuned!». |
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