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Telegiornaliste anno X N. 26 (414) del 7 luglio 2014
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TGISTE Emanuela
Ronzitti, l’informazione il mio amore
di Silvia Roberto
Incontriamo
Emanuela Ronzitti, giornalista con alle spalle esperienze in diverse
emittenti.
C’è stato un episodio che l’ha spinta verso questa professione?
«Direi più di uno; di sicuro è stata la grande curiosità nel capire fino
in fondo come stanno davvero le cose a spingermi verso questo mestiere».
Quali le sue prime esperienze?
«Fin da piccola sono stata affascinata da coloro che svolgevano questa
professione utilizzando un mezzo che reputo sia quello che racconta
meglio l'informazione; non appena conclusi gli studi universitari ho
deciso che la mia strada doveva andare verso questa direzione, e dopo
alcuni anni di esperienza trascorsi a scrivere sulla carta stampata mi è
capitata l'opportunità di lavorare in televisione; ricordo che la mia
prima conduzione si svolse in un piccolo studio dove c'eravamo solo io
ed una telecamera; era un tg che veniva trasmesso dalle televisioni
regionali alla stessa ora e in tutta Italia. Poi da li si sono aperte
nuove collaborazioni con altre emittenti, e questa mia grande passione
per l'informazione televisiva è andata sempre più crescendo».
Quale collaborazione o lavoro le ha dato maggiormente, sia dal punto
di vista professionale che come soddisfazione personale?
«In verità non c'è stata in particolare un'esperienza professionale che
mi abbia dato più soddisfazione di un'altra; ogni lavoro che ho
intrapreso mi ha regalato, in modo diverso, grandi soddisfazioni e nuovi
strumenti per migliorare».
C’è una persona che ammira in particolar modo nel suo ambito
lavorativo?
«Molte; se devo fare proprio qualche nome, mi viene subito in mente
Nicola Porro e il suo modo brillante e pungente di condurre; non è da
meno Gerardo Greco, che, grazie alla sua pluriennale esperienza negli
States ha importato in Italia un modo nuovo, dinamico, direi innovativo
di fare giornalismo televisivo. E poi ci sono gli intramontabili
direttori Bruno Vespa, Mario Orfeo e Claudio Brachino, da sempre tre
grandi professionisti e veterani di questo mestiere».
Oramai è una telegiornalista affermata: se potesse tornare indietro
rifarebbe lo stesso percorso oppure cambierebbe qualcosa?
«Non cambierei nulla: ogni scelta, ogni passo compiuto è stato
fondamentale per imparare e capire tante cose di questo lavoro; a mio
parere questa è una professione che non si apprende sui libri o tra i
banchi di scuola, ma solo facendo esperienza e una lunghissima gavetta».
Un consiglio per le aspiranti telegiornaliste?
«Rimanere sempre con i piedi per terra e mai montarsi la testa! Ci vuole
tanta umiltà, determinazione e infinita passione per fare bene questo
mestiere». |
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NONSOLOMODA Una
camera d'albergo? No, è un'auto! di
Veronica Speranza
Pionieri dell’avventura, da oggi c’è una nuova soluzione per
i viaggi.
Quattro posti letto, wc, doccia, cucina con gas ed acqua calda,
un modo ideale per trascorrere una vacanza low-cost e non si
tratta di una soluzione da scomodo campeggio.
La novità è la
SwissRoom Box, che oltre a prevedere la possibilità
di prolungare una berlina tre volumi, offre nel pacchetto anche
un letto interno al veicolo, un tavolo, la
doccia e il lavello.
Avere la possibilità di abbattere i costi e di condurre vacanze
itineranti senza dover per forza farsi carico delle spese di un
camper?
È possibile, si tratta di allestire un camper laddove manca… il
camper.
La spesa iniziale certo non è irrisoria, ma potrebbe trattarsi
di un investimento vantaggioso che ammortizzerebbe i
costi di un paio di viaggi.
Parliamo di 1.650-2.200 euro per il kit tavolo
più letto, mentre per il letto interno, la doccia, l’attacco
elettrico, il lavello e il gas, la cifra lievita fino ai
6.000 euro circa.
Attenzione però, non tutte le auto sono compatibili con
il Box, quindi prima di sostenere la spesa è
consigliabile controllare che la propria vettura sia inclusa
nella lista! |
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Fatiha
Chakir, Aljalira per l'integrazione
di Giuseppe Bosso
Nell’Italia sempre più multietnica e con una comunità
islamica in costante aumento anche il mondo della
comunicazione inizia ad adeguarsi e a svolgere la sua
funzione di integrazione; nasce così Aljalira, primo spazio
informativo contemporaneamente in lingua araba e in italiano
su un’emittente italiana, che da marzo va in onda su
Lira tv,
storica emittente salernitana. A condurlo Fatiha Chakir, che
nel capoluogo campano ricopre l’incarico di vice presidente
provinciale della consulta per l’immigrazione.
Come nasce il progetto Aljalira?
«Da un’idea che hanno avuto il direttore di Lira tv Raffaele
Budetti e il direttore della Coldiretti di Salerno Salvatore
Lofredda, che hanno deciso di occuparsi non occasionalmente
degli immigrati, ma di dedicare loro uno spazio, primo in
assoluto in italiano e in arabo; altre emittenti avevano già
sperimentato spazi in lingua araba, ma fini a loro stessi,
senza spazio per l’integrazione, che è invece l’obbiettivo
primario che avevano in mente. Farlo solo nella loro lingua
non aiuta gli stranieri, che possono benissimo far
riferimento a Internet e alle loro testate. Se invece li
aiuti a interagire anche in italiano vai oltre».
È un esperimento che le tv locali possono seguire meglio
dei canali nazionali?
«Non lo voglio dire per piaggeria, ma direi che l’emittente
del dottor Budetti è quella che in questo momento ha
maggiormente a cuore gli stranieri, contrariamente ad altre
emittenti, anche Rai e Mediaset, che a loro hanno dedicato
nient’altro che piccole ‘meteore’, spazi di breve durata;
Budetti ha avuto genio, ma anche cuore, in questo; un tg che
non si incentra sulla figura negativa dello straniero che
viene messa in rilievo per cose negative, ma che parla di
immigrazione ‘buona’, quella che vuole entrare a far parte
del tessuto sociale, delle persone che vogliono farsi
conoscere come i ‘nuovi’ italiani. Un esempio che abbiamo
trattato proprio ultimamente è la Festa dei popoli, evento
tradizionale di Salerno che per il secondo anno consecutivo
si terrà anche a Pertosa, località del Cilento, grazie
all’impegno di un ragazzo rumeno che si è particolarmente
dato da fare per questo trovando il massimo sostegno e
l’appoggio delle istituzioni, che hanno apprezzato la sua
idea».
Inevitabilmente l’attualità impone di parlare dello
sbarco avvenuto a Salerno: come hai vissuto questo momento e
quali credi saranno le conseguenze?
«Episodio bruttissimo in cui abbiamo assistito a una vera e
propria tragedia; mi ha colpito, ma credo che sia stato così
per tutti, vedere non solo adulti ma anche tantissimi
bambini e anziani, come non era mai accaduto; ero stata a
Lampedusa con la Protezione Civile e con l’OIM a San
Nicolavarco, ma in quelle situazioni erano per lo più uomini
e pochissime donne tra di loro. Adesso vediamo donne,
anziani e bambini che con la loro presenza testimoniano
quando disperata sia la loro condizione di vero e proprio
stremo, con l’unica, per quanto di difficile realizzazione,
speranza nella fuga verso un’altra terra; l’unica
alternativa alla morte in mare o nei loro Paesi d’origine;
ma purtroppo l’Italia non è pronta all’accoglienza, per
quanto volenteroso sia stato l’impegno della Caritas e di
quanti si sono attivati per loro; ma non basta questo:
accoglienza vuol dire anche far capire a queste persone che
la volontà di dar loro le possibilità che non hanno potuto
avere nei loro Paesi richiede anche il loro impegno a
guadagnarsi la nostra fiducia con il lavoro e con
l’integrazione nel tessuto sociale. Se scelgono l’Italia
come meta è puramente per una questione geografica, visto
che per lo scafista è innegabilmente più facile attraccare
qui che non in altri Paesi dove i controlli sono
maggiormente serrati; nelle persone con cui ho avuto modo di
parlare ho purtroppo riscontrato perdita di tutto, anche
forse della dignità, provata ulteriormente anche dai
maltrattamenti sui barconi. Far rinascere speranza in queste
persone per gli italiani è forse più doveroso che per altri
popoli europei, avendo anche loro conosciuto un periodo di
immigrazione e di discriminazione in altre terre. Capisco
che è facile dire: ma anche noi italiani abbiamo i nostri
problemi. Certo, ma non dobbiamo dimenticare che nonostante
tutto noi viviamo nella massima libertà, a differenza di
loro che a dispetto della tanto decantata ‘primavera araba’
scappano anche da persecuzioni e discriminazioni di ogni
tipo, anche religioso; in definitiva nei Paesi nordafricani
c’è stato solo un cambio di dittatura che forse si è
dimostrata persino peggiore di quella dei predecessori
deposti dagli eserciti che hanno assunto il controllo».
Un tg come questo aiuterà l’integrazione?
«Senz’altro è uno strumento utilissimo. E lo dimostrano le
tantissime telefonate ed email che riceviamo dalle tante
comunità presenti sul territorio salernitano (senegalesi,
rumeni, nigeriani, filippini, srilankesi, marocchini solo
per citarne alcuni) che hanno creato una vera e propria
rete. Ci ha particolarmente fatto piacere venire a
conoscenza da alcuni imprenditori che i loro dipendenti si
organizzano in gruppo per vedere Aljalira in modo che anche
chi non ha il televisore possa farlo; agli arabi sicuramente
fa piacere anche sentire la loro lingua, ma siamo utili
anche per altre comunità che desiderano essere sempre
informate su ciò che accade a Salerno e dintorni».
Quali riscontri hai avuto dalla comunità islamica?
«Come ti dicevo al di là del nome arabo Aljalira è un vero e
proprio tg per tutte le comunità straniere presenti sul
territorio salernitano, e in ogni puntata abbiamo avuto modo
di ospitare un referente; ma abbiamo ospitato anche le
istituzioni, gli enti locali che hanno aderito con interesse
e partecipazione; con la loro presenza vogliono far capire
alle comunità straniere di essere amici pronti al massimo
dialogo. Il prefetto, il questore, il rappresentante delle
forze dell’ordine non devono più essere visti come una
figura pronta a sfruttarli, ma come un’autorità che è
preposta anche al loro servizio; la figura del ‘caporale’,
bruttissima, non sta solo nei campi o nelle fabbriche, ma
anche ai piani alti. Ecco, è questo che vogliamo eliminare
nella loro concezione delle istituzioni. Indichiamo anche
bandi, scadenze, programmi: tutto quello che può servire
perché agli stranieri siano dati i mezzi per interagire e
integrarsi. Aljalira deve fungere da ponte tra comunità e
istituzioni, non limitandosi solo a dare notizie. Anche per
questo siamo sempre disponibili per ogni comunicazione o
segnalazione di soprusi, di sfruttamento. È la risposta
effettiva dell’accoglienza».
Ti hanno mai chiesto di condurre con il velo?
«Sì. E ho risposto perché non lo faccio; Aljalira è un
format aperto, moderno, che vuole dare l’immagine della
donna moderna, emancipata e rispettosa dell’Islam, ma anche
di se stessa; l’Islam vero non è integralismo e jihad; non
dimentichiamoci che il Corano stesso non parla di chador e
di velo, di coprirsi il capo; questo avviene durante la
preghiera, ma allo stesso modo del cattolicesimo, come
facevano tanti anni fa gli evangelisti con il foulard o le
donne di un tempo che andavano in chiesa con il capo
coperto, o come adesso si va in Vaticano dal Papa. Il velo è
una scelta, non deve essere né un’imposizione né un
riconoscimento di fede. Il musulmano vero si riconosce con
le azioni, è questo il messaggio che cechiamo di
trasmettere; l’Islam ‘buono’, che parla di pace, di amore e
di fratellanza come sostiene il Corano, al quale sono
sconosciuti i concetti di jihad e di guerra; basti pensare
ai cinque pilastri dell’Islam, che sono ancorati a questa
idea; e uno di questi è l’elemosina, che, attenzione, non è
intesa come il gesto di regalare dei soldi al povero, ma
essere buoni con il prossimo, aiutare chi è in difficoltà; è
per questo che non conduco con il velo, sarebbe un segnale
di accettazione dell’Islam integralista».
Barbara Serra, giornalista
italiana che lavora ad Al Jazeera, ci
disse che secondo lei
non erano ancora maturi i tempi per una succursale italiana
del suo network, viste le differenze generazionali tra
l’immigrazione inglese e quella italiania: in futuro credi
ci sarà questo spazio?
«Lo crede Budetti, che sta infatti lavorando anche per
espandere il progetto Aljalira, anche tramite i contatti che
abbiamo avuto con un canale tematico marocchino e altre
emittenti. Attraverso questi ‘gemellaggi’ si può pensare
davvero in grande. Quanto all’aspetto generazionale, direi
che siamo molto avanti anche in Italia, ormai siamo in tanti
figli di genitori immigrati negli anni’70 nati in Italia che
iniziano a loro volta ad avere figli. Al Sud ci sono meno
famiglie rispetto al Nord. In questo un ruolo importante lo
hanno ricoperto e continuano a ricoprirlo le scuole; è bello
vedere che si imparano anche i dialetti e che in questo modo
il cittadino italiano capisce che l’immigrato non è un
qualcosa di cui avere paura. È stato bello, per esempio,
tempo fa, ospitare un rappresentante della comunità
senegalese che venne accompagnato da suo figlio, il quale fu
molto contento della cosa e mi disse che aspettava il giorno
dopo per raccontare a scuola ai suoi compagni di come suo
padre avesse avuto la possibilità di essere invitato da
Aljalira come una grande soddisfazione».
Come ti sei trovata ad affrontare questa esperienza da
telegiornalista?
«Innegabilmente ci sono state delle difficoltà all’inizio
legate a questa nuova iniziativa, soprattutto per farsi
capire dalle persone che non hanno potuto studiare e che
quindi non capiscono l’arabo ‘classico’, la lingua degli
intellettuali e delle persone colte, ma il ‘dialetto’, il
linguaggio della strada; quindi nella prima parte, quella
delle notizie, parlo l’arabo ‘classico’, nel senso che ti ho
detto, mentre negli ultimi dieci minuti, quelli dedicati
all’ospite, mi esprimo in ‘dialetto’; lo scopo non è quello
di fare una bella figura parlando correttamente un
linguaggio colto ma quello di farci capire da quanta più
gente possibile, senza ‘intermediari’ che possono magari
avere dei loro interessi particolari. È anche a questa
novità che mirava Budetti».
Al di là di questa conduzione di tipo ‘istituzionale’ è
un percorso che pensi di seguire in futuro?
«Certamente, è un trampolino di crescita per un percorso che
vorrei proseguire». |
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“fibula” all’infibulazione: un’altra pagina di atroce violenza
contro le donne. Parte 2
di Maria Tinto
Segue dal n. 413
Durante i nostri colloqui emerge il vissuto di Farisa in
tutta la sua crudezza: era solita ritornare ogni anno
per le vacanze in Etiopia con la mamma; ci fu un’estate in
cui lei si ammalò e Farisa fu portata in Africa dai parenti
che vivevano in Italia.
La mamma le aveva raccomandato di non lasciare mai la casa
paterna e di non trovarsi mai da sola con le zie e le
cugine, evidentemente temendo che alla figlioletta fosse
fatto del male, quel male da cui aveva cercato di
tenerla lontana.
Dai suoi ricordi frantumati: «Una grande festa… la promessa
di doni… in fila insieme ad altre bambine… musica, danze… ma
poi la donna cattiva… il fuoco… le urla… il dolore… e poi
ancora silenzio… pianto… disperazione».
Ricordi spezzati di un passato troppo doloroso,
troppo pesante da sopportare; quell’inganno chiuso in uno
scrigno in fondo al cuore, che adesso riemerge e
chiede ragione ad un corpo martoriato, deturpato, rifiutato…
Questo è troppo per Farisa: è troppo anche per il suo
ragazzo che non capisce, che non può comprendere.
Ora c’è quel vuoto, quell’assenza, la mancanza di ciò
che le apparteneva, di quello che è stato rubato alla
sua femminilità negata, assassinata in nome di una
cultura della sopraffazione e della sottomissione che vuole
la donna solo un corpo da possedere, asservito al
piacere del maschio.
Farisa, con l’aiuto della madre adottiva, si è sottoposta alla
defibulazione e alla ricostruzione del clitoride;
oggi è una donna e madre felice, aiuta le altre donne in questo
difficile percorso di consapevolezza e di rinascita.
Ci auguriamo che la sua storia possa dar luce e coraggio
alle donne che ancora oggi credono nella necessità di essere
accettate dal maschio per essere donna, e che
quest’accettazione sia imprescindibile dalla rinuncia della
propria femminilità, della propria dignità, della propria
libertà e del proprio piacere sessuale.
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DONNE Salwa
Bugaighis, uccisa per aver contrastato l’integralismo di
Deborah Palmerini
Donna, avvocato, impegnata in politica contro l’estremismo
islamico: troppo per una libica. Così il 26 giugno, nel
giorno delle elezioni per il rinnovo del Parlamento,
Salwa Bugaighis è stata giustiziata. La sua "colpa"
essere appunto una donna libera di pensare che anche
in Medio Oriente la gente possa vivere libera.
È riuscita ad esprimere il suo ultimo voto, poi, tornata
a casa in compagnia del marito, un commando armato ha
fatto irruzione e l’ha colpita alla nuca: una vera
esecuzione che non le ha lasciato scampo; dopo il raid si
sono perse le tracce del marito, probabilmente rapito dai
cinque uomini incappucciati i quali, per fare irruzione,
avevano gambizzato le guardie fuori l’abitazione a Bengasi.
Nel 2011 Salwa era stata in prima linea durante la
rivoluzione contro il regime dittatoriale di Gheddafi.
Era poi entrata a far parte del Consiglio nazionale di
transizione (Cnt) il governo dei ribelli libici,
dimettendosi però dopo soli tre mesi in forte polemica,
a causa della scarsa presenza femminile negli organismi della
nuova Libia. «Sanno che le donne hanno avuto un ruolo
decisivo nella rivoluzione ma ora pensano che il potere sia da
destinare agli uomini», furono le parole con le quali
amaramente lasciò il governo.
Nei giorni precedenti l’attentato, durante un’intervista,
Bugaighis aveva invitato i concittadini a recarsi alle urne
per rinnovare il parlamento in un’ottica meno succube del
regime islamico; in quei giorni erano in corso
bombardamenti nel suo quartiere per far boicottare le urne.
Non è certo che quell’intervista sia stata la causa scatenante
del raid, certo è che quello di Salwa è soltanto l’ultimo
caso di omicidio di attivisti impegnati a contrastare gli
estremisti.
L’impegno di Salwa partiva dalla sua professione di avvocato;
sotto il regime di Gheddafi infatti si era fatta non pochi
nemici rappresentando le famiglie dei prigionieri della
struttura di detenzione Abu Selim di Tripoli, e spingendo
il governo a dire la verità su quanto fosse accaduto
agli oltre mille prigionieri scomparsi, la maggior parte
islamisti di Bengasi.
L’uccisione di Salwa Bugaighis ha sconvolto la comunità
di attivisti, politici e diplomatici: «Tutti i sostenitori
della verità sono minacciati», ha detto Hassan al-Amin,
altro noto attivista ed ex capo della commissione diritti
umani in Parlamento, fuggito all’estero dopo avere ricevuto
minacce di morte.
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