Telegiornaliste anno VIII N. 29 (331) del 17 settembre 2012
La magia di Paola
Goretti
di
Francesca Succi
Non servono presentazioni per una donna così. Dirà tutto lei, Paola Goretti, in
questa splendida intervista che ha rilasciato esclusivamente per i lettori di
Telegiornaliste.com.
Come autrice che rapporto ha con le parole?
«Assoluto, totale, amoroso, carnale. In tutte le direzioni. Le parole sono la
sostanza più intima del mio essere, il mio sangue, il mio respiro, i miei figli.
La mia musica. Mi nutro di loro, più ancora che di cibo reale, che per me ha
sempre avuto un’importanza relativa. Ne potrei tratteggiare infinite sfumature,
nelle carambole vorticanti di cui è composto il loro involucro e la loro
emanazione. Le parole vanno restaurate, indossate, parlate; vanno tenute vive,
messe in circolazione. Soprattutto, vanno incarnate. Il quinto chakra – che
presiede al processo della comunicazione e all’atto della fonazione - non è solo
aria. È aria che diviene carne, materia, spirito, accadimento, mutamento. È Aria
che diventa Realtà».
La sua passione letteraria per Eugenio Montale come nasce e s’intensifica nel
corso del tempo?
«È una vecchia storia, che ha preso corpo tanti anni fa quando, nel 1993, vinsi
il premio Montale giovani con una raccolta di poesie, Gli arcobaleni sul
tappeto, poi pubblicata da Scheiwiller l’anno successivo. Gli sono sempre stata
profondamente riconoscente, l’ho amato moltissimo. L’ho sentito, auscultato,
accarezzato. Di lui ho amato le atmosfere immobili e meridiane, l’articolato
fraseggio antiretorico, il nitore e la complessa musicalità del verso. Poi con
gli anni l’ho tenuto sullo sfondo, per dare spazio maggiore a registri
differenti, più soavi e morbidi, più incantati, più di realismo magico, più
femminili, impastati alla terra. Avevo bisogno di incontrare figure edificanti
di sesso femminile, dopo un’enorme Galleria di Uomini Illustri (Montale,
appunto; Petrarca, Luzi, Manganelli, Borges, Garcìa Màrquez, Guadalupi, Bufalino,
Tabucchi; l’immenso Piero Camporesi. Ma anche i miei adorati Fabrizio de Andrè,
Franco Battiato, Vinicio Capossela), avevo bisogno di incontrare le mie donne.
Così, sono andate in cerca di loro e le ho trovate tutte. Dopo ho mescolato,
cercando di mantenere ben salda la robustezza dell’impianto maschile acquisito
con la grazia soave del sentire femminile, o con gli incendi visionari di
archetipi antichissimi ricollocati nella giusta vibrazione. Con entrambe le
parti, ho cercato di comporre il mio pentagramma e di dipingere con le parole.
Continuo ancora oggi a farlo in ogni impresa: letteraria, saggistica,
progettuale, didattica che mi viene proposta. O, semplicemente, nella Vita; nel
suo flusso emotivo, nel sentimento, nelle Sacre Parole di cui ogni relazione ha
bisogno per essere rigenerata, alimentata, curata, annaffiata, tenuta in
perpetuo movimento».
Quale donna del passato avrebbe voluto essere?
«Isabella d’Este! Lo sanno tutti. Ho un rapporto con lei che a tratti ha
sfiorato la simbiosi. Ci sono una serie di aneddoti esilaranti… Quando andai in
Brasile per lavoro, con due valigie sovraccariche (una era di libri), quelle
serpi delle mie adorabili compagne di viaggio, amiche e colleghe, mi chiesero se
dentro avevo i candelabri di Isabella d’Este… Ho intere pagine di aneddotica. E
interi ciclopici carteggi amorosi dove mi firmo Vostra YS, siglando dal Camarino
della fiamma o dalla stanza degli orologi. Sì, non c’è dubbio. Avrei voluto
essere Lei. Un concentrato di intelligenza, cultura, eleganza e regalità messa
al servizio del bene. Se penso ai rapporti che intratteneva con tutti gli
intellettuali che la circondavano, ai suoi “bei conversari”, all’intrico delle
relazioni, non posso che sentire un flusso di radianza che ancora si propaga
dall’onda lunga della sua persona. Con lei, La cresta sottile del rinascimento
era davvero possibile; era possibile, sul finire del Quattrocento e all’aprirsi
del nuovo secolo, immaginare congiunture talmente colte ed educate da far quasi
dimenticare il sangue che scorreva a fiotti nel crudo delle battaglie
sferraglianti. Lei teneva alto l’esempio di Civiltà, avviava a regole che secoli
dopo sarebbero state le pietre miliari della società galante francese. È stata
un modello, lo è ancora. Nella sostanza del classico. Quella che continuo a
preferire sopra ogni cosa».
Una del presente e, per assurdo, del futuro?
«Oh, ne ho a dozzine! Un’intera Galleria di Donne Illustri che mi piacciono
moltissimo. Monica Guerritore, Mariangela Melato, Eleonora Abbagnato, carattere
e temperamento, disciplina ferrea, risultati immensi. E immensa femminilità.
Adoro la vocalità di Sade, regge l’usura del tempo alla perfezione, il suo stile
è smaltato come trent’anni fa. Adoro la voce di Amalia Gré, l’intensità dei
testi di Mariangela Gualtieri, un miracolo di ardore. E poi il volto di Irene
Papas, meraviglioso di intensità; quello di Fanny Ardant, bellissimo. Quello,
profondamente amato, della mia amica Giuliana Berengan, che a Ferrara non ha
certo bisogno di presentazioni: uno dei più belli, antichi e luminosi che abbia
incontrato in tutta la vita. Ammiro poi profondamente le donne che sono riuscite
ad eccellere nel lavoro, col talento di una creatività robusta e multifocale, ad
essere madri, educatrici e pasionarie di ardore creativo, nella vita e nel suo
pieno godimento. Un esempio? La direttrice del Museo Egizio di Torino, Eleni
Vassilika, un mito. E poi, amo la tempra di mia madre, Lucia; anche se ruvida,
per niente incline ai sentimentalismi (è stato un incubo, a suo tempo, per me
che sono così languida), ha una memoria prodigiosa, una lucidità soprannaturale,
una stravaganza complessa e incollocabile, e la forza di dieci tigri: anche
oggi, a 85 anni suonati. Buon sangue, spero che non menta…
Del futuro vorrei reincarnarmi in una donna molto evoluta, di un’altra razza
umana, immune dalla sofferenza sterile, dalla stupidità e dai gorghi
dell’inferno. Destinata a incontrare solo anime altrettanto avanzate, libere da
ogni pedaggio (specie dai debiti karmici), sgravate dal peso della scelleratezza
e della follia, impartita o subìta. Diciamo che, come donna futura, vorrei
essere la papessa (o fondatrice, sacerdotessa, musa, sirena, maga, fate voi…)
del pianeta Venere, ospitante anime in festa destinate a incontrarsi sulla base
di prospettive sensoriali, evolute, erotiche; nell’allaccio benefico e
fecondante che ogni contatto d’amorosi sensi è in grado di generare con altre
anime; specie con quelle di sesso maschile, a loro volta divenute mature e
sapienti. Io farei da garante super partes, piantata sul mio tronco sacro,
danzante e millenario, per educare alla gioia mediante processi di formazione e
di educazione permanente. Voluptas in Virtus, ecco ciò in cui credo. Fuori dalle
logiche dell’intelletto e del raziocinio. Non è detto che questo futuro non si
realizzi. Avrei giusto in mente un progetto didattico, con la preziosa amica
Francesca Faruolo, direttora di Smell Festival. Ci lavoriamo da ormai due anni,
speriamo di poterlo realizzare presto. Non sarebbe affatto un capriccio, ma una
lezione morale severa e necessaria, per ricominciare veramente tutto da capo,
seguendo gli insegnamenti dei Maestri che incitano ad un risveglio profondo, a
partire dal rinnovamento delle istituzioni. In questo senso, tutti dovremmo
leggere Elogio del moralismo, di Stefano Rodotà. Un grand’uomo. E per di più,
bellissimo. Con questa moralità rinnovata, riedificare la nostra vita. Con gli
insegnamenti più alti del pianeta Venere incorporati alla concretezza del
presente».
La sua voce, così sensuale (e peccato che i nostri lettori non possano
sentirla), è una delle sue particolarità. N’è consapevole?
«Sì, consapevolissima. Me lo hanno detto in tutte le lingue, in molte parti del
mondo; molte persone, dopo aver sentito la mia voce, sono come cadute in trance,
in uno stato di benessere totale indotto dai miei riverberi vocalici naturali.
Col tempo, ho capito che avevo un’energia terapeutica e curativa innata. È una
storia lunghissima, il cui primo episodio fondamentale risale ad
un’interrogazione sostenuta durante le elementari. Avrò avuto 7-8 anni, circa.
La chiamata, la vocazione e il destino erano già segnate. Da grande, molte delle
cose apprese le ho tramutate in libri e in azioni concrete, sia come voce
narrante che come insegnante o saggista, nel nucleo di alcune riflessioni. Ho
dedicato alla voce un intero capitolo del mio libro, Il sentimento della cura:
appunti per un dialogo affettivo (Pavia, 2004), specie alle pagine su La cura
nella sapienza della voce. Lì ho sistematizzato alcuni passaggi sulla teofania
del suono tra oriente e occidente, sulla parola che cura, sul pensiero
pneumatico, sull’aderenza tra significato e significante dopo lo scollamento
teorizzato da de Saussure, sull’ispirazione e l’inspirazione, sul pneuma che
gorgoglia negli atti di fonazione e altri intrecci; sempre passando per la
mistica, la teologia, la letteratura».
Come storica della moda cosa ne pensa del profondo cambiamento che ha subìto
il costume nell’ultimo secolo?
«Qui mi ci vorrebbe un secolo per rispondere! I cambiamenti radicali c’erano
anche a metà Trecento, potrei dimostrarlo argomentando tutta una serie di cicli
pittorici in cui, in un pugno di anni, prendono forma delle trasformazioni
radicali, davvero inimmaginabili fino a qualche tempo prima. Non è una questione
dell’oggi. Diciamo che il Novecento ha un suo cambiamento e una sua logica, che
si sostanzia attorno ad alcuni paradigmi. La novità principale è che la
permanenza degli orientamenti subisce un’accelerata vertiginosa; mode e stili
non si misurano più nell’arco di un cinquantennio o di un ventennio, come
accadeva nel tempo lento delle corti o in quello dell’industrializzazione
ottocentesca, devota al culto feticista della merce. Da quando poi le
sottoculture giovanili sono divenute motori trainanti dell’intreccio
postmoderno, tutte le combinazioni hanno ridefinito il processo storico dentro
una vertigine atemporale, remixando ogni congiuntura. La globalizzazione, il
mondo del web, la crisi economica internazionale hanno fatto il resto. Anche
negli stili di vita, nei comportamenti, nei consumi. Ma parlare di costume
nell’ultimo secolo, in modo così diffuso e generalizzato, davvero non è
possibile».
Per noi è una vera icona di stile. Gliel’hanno già detto?
«A centinaia. Ringrazio e sorrido ogni volta. Faccio un inchino, volteggio.
Faccio la ruota per tre minuti poi volo via, per non prendermi troppo sul serio.
E mi chiedo Ma perché? State parlando di me?».
Quale periodo storico, epoca o decennio la ispira e l’attrae in maniera
totale?
«Nessuno. Non sono una nostalgica, e le mie nevrosi di sovrapposizione
iconografica di me stessa con tutta la fase del Déco, in verità sono sempre
rimaste solo ed esclusivamente fascinazioni di tipo estetico, per forme di
eleganza superficiale. Non certo passioni vincolate a verticalità complesse e
stratificate che in me vanno in direzioni completamente diverse. Io sono e resto
un’umanista all’antica, sono una cinquecentista di formazione ed è al mondo
delle corti di antico regime che la mia anima appartiene. Ma al tempo stesso,
vivo su Urano, ho fortissimi valori uraniani nel mio tema natale; soprattutto,
ho fortissimi valori di collegamento che vanno in tutte le direzioni; passato,
presente, futuro, circolarità. In me è tutto congiunto, allacciato, come in una
forma fluens volteggiante negli slarghi del tempo e della visione; oggi lavoro
sul 1630, domani sul 1870, dopodomani sul 1450 o sul 2015. Funziono così, come
un paradosso. Proietto il passato davanti agli occhi, lo progetto e lo
riprogetto, in continuazione, come ce l’avessi costantemente davanti, non
dietro, mai! Questo è ciò che veramente mi affascina, mi cattura, mi seduce,
visceralmente. Il dèmone a cui ho venduto l’anima. Girovagare in astronave per
tener vive le cose, raccontare, tramandare. Soprattutto tramandare. E riportare
il tempo qui, per condividerlo di nuovo insieme».
Di cosa si nutre attualmente l’anima di Paola Goretti?
«In questo momento, mi sto nutrendo degli ornati neoclassici di Antonio Basoli e
del suo magnifico progetto grafico dedicato all’Alfabeto Pittorico; di alcuni
profumi composti da D’Annunzio nelle sue varie circumnavigazioni rabdomantiche.
Di tutto il sistema del Made in Italy, dal Cinquecento ad oggi (progetti
bibliografici in corso). Di alcuni libri molto ispirati; Ezio Raimondi, Le voci
dei libri; Luce Irigaray, Una nuova cultura dell’energia. Al di là di Oriente e
Occidente. Entrambi, dopo tomi e tomi di altissima dottrina e filosofia, si sono
aperti ad una visione più fluida, infinitamente semplificata, che coniuga corpo
e mente in modo nuovo, per inediti alleggerimenti che molto sono in sintonia con
le corde del mio approccio al mondo. E poi di luce; di luce profondissima. Di
qui a breve dovrò scrivere un lungo saggio ispirato proprio alla luce, per un
importante progettista contemporaneo che desidera avere le sfumature delle mie
parole per dar volume ai suoi corpi luminosi. Per evocare la luce, come
esercizio spirituale necessario per entrare nella parte, ho persino riletto
tutt’estate i miei diari privati tenuti da trent’anni a oggi in quaderni di
velluto e seta, oltre ai carteggi con alcuni uomini che ho molto amato. Ho
imparato cose sensazionali. Molto istruttivo, rileggersi. Fondamentale, per
sperare di non ripetere all’infinito gli stessi errori, schemi, follie. La luce,
insegna a fare luce. Sempre».
Può dedicare un pensiero, come augurio della nuova stagione?
«Beh, visto che questo articolo aprirà la nuova stagione, ecco il mio augurio.
Le cose che tornano erano tue, quelle che non tornano, non le hai mai avute. È
un antico proverbio toscano, appreso da amici fiorentini. Mi sembra bellissimo,
un auspicio per il mese di settembre (mese del ritorno, per eccellenza), da
lasciare a tutti i lettori. Perché torni tutta la bellezza sospesa, le cose
dimenticate, quelle lasciate indietro, quelle sfregiate dal tempo; restaurate,
incantevoli, luminose e concrete più che mai. Buon ricominciamento».