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Intervista a Natasha Farinelli   Tutte le interviste tutte le interviste
Natasha FarinelliTelegiornaliste anno XXI N. 4 (783) del 5 febbraio 2025

Natasha Farinelli, fiera e orgogliosa
di Giuseppe Bosso

Incontriamo Natasha Farinelli inviata delle trasmissioni di Rete 4 Fuori dal coro e Zona Bianca.

Negli ultimi mesi ha avuto modo di occuparsi di problematiche legate ai disservizi nella sanità, con particolare riguardo alla questione delle liste d'attesa, spesso raccontando storie dolorose. Con quale spirito affronta queste vicende, soprattutto quando deve relazionarsi in prima linea con i diretti protagonisti che raccontano le loro vicende?
«Ci vuole umanità, empatia, profondo rispetto per la persona che si ha di fronte, per il dolore che vive e la battaglia che sta portando avanti. Sono spesso i più fragili ad aver bisogno d’aiuto: malati, anziani, genitori che ogni giorno affrontano problematiche legate allo stato di salute dei propri figli. La loro richiesta inascoltata di cure, la difficoltà di vedersi riconosciuto un diritto, li porta spesso a non avere più fiducia. Cerco di creare un rapporto umano e questo è anche l’aspetto che più amo del mio lavoro. Sbaglio, ma mi prendo a cuore ogni singolo caso. Ci sono mamme che non trovano posto per le terapie dei propri figli con disturbi dello spettro autistico o del comportamento e sono disperate. Avrebbero diritto all’accesso alle cure ma le liste d’attesa sono lunghe anni e non tutte possono permettersi sedute a pagamento. Riuscire a dare speranza a quelle donne e ai loro bimbi, mi ha fatto sentire ancora più felice di aver scelto questa strada».

Mesi fa è stata suo malgrado chiamata in causa dall'Azienda Sanitaria Regionale del Molise per un suo servizio. Cosa può dire a distanza di tempo di questa vicenda?
«Di questa vicenda non posso ancora parlare. Ma, a tal proposito, vorrei esprimere tutta la mia preoccupazione. Si sente spesso parlare di violenza sui giornalisti, di giornalisti aggrediti. La violenza si subisce anche quando, attraverso il mezzo della querela e della denuncia, provano ad intimidirti, tapparti la bocca. Sono orgogliosa di poter lavorare da tanti anni in un programma che non si fa imbavagliare, che denuncia con coraggio e fermezza le ingiustizie, il degrado in cui versano alcune città, la violenza che sono spesso costretti a subire i cittadini, i diritti negati. Senza sconti, facendo nomi e cognomi, mettendoci la faccia, spesso rischiando».

Si occupa sul campo di vicende che coinvolgono la vita quotidiana di ognuno di noi eppure nei confronti della categoria dei giornalisti da anni si percepisce, di pari passo come nei riguardi delle istituzioni, una sorta di sfiducia/insofferenza. Ha mai vissuto in prima persona manifestazioni di sfiducia per il suo lavoro?
«Certamente. Negli anni ho visto crescere il malessere e la sfiducia verso i giornalisti. “Sciacalli” per qualcuno, “attenti solo allo scoop”, “amici di” per altri. Non mi sono mai sentita toccata da certe accuse, ma le ho percepite. Mi è capitato di dover rispondere anche alle provocazioni. Ammetto essere svilente e, alle volte, complicato da gestire quando di fronte hai un muro e tu quel muro devi romperlo, provando ad insinuarti in una piccola crepa. Ma anche questo fa parte del “gioco”, è il nostro lavoro. Con i pregiudizi siamo costretti a fare i conti ogni giorno e spetta a noi dimostrare di essere all’altezza di poter raccogliere un’emozione, una denuncia. Di fronte alla diffidenza è più appagante poi riuscire ad entrare in sintonia e vedere le persone piano, piano, aprirsi, fidarsi. Questo è possibile e dipende da noi».

Rispetto ai suoi primi passi nel mondo del giornalismo si sente arrivata o in continuo work in progress?
«Arrivata? Non si arriva mai. Sa quante volte sbaglio, non riesco a raccontare come vorrei quello che ho di fronte? Ci sono colleghi che realizzano servizi incredibili, rendendo comprensibile a tutti argomenti complessi, trovando la chiave giusta per “arrivare a tutti”. Provo a migliorarmi (non sempre riesco) ogni giorno, “rubo” dagli altri, faccio tesoro dei consigli di chi ha più esperienza di me e mi segue in redazione. Ci sono notti in cui non dormo pensando a come affrontare un servizio. Vivo questo mestiere sentendomi, ogni giorno, una privilegiata. Lo sono. Questo mi carica di responsabilità. Una sensazione che credo conoscano bene tutti i miei colleghi. Insomma: no, non mi sento assolutamente arrivata. Ho pedalato, pedalo e continuerò a pedalare. Mi piacerebbe anche trovare il tempo di mettermi di nuovo a studiare… chissà, magari un giorno!».

Chi è Natasha Farinelli oltre il suo lavoro di giornalista?
«Natasha Farinelli è una mamma e una moglie orgogliosa e follemente innamorata. Fiera di quello che è riuscita a costruire e che cerca di preservare con impegno e spesso fatica. Lavorare e fare la mamma non sempre è facile. A volte si arranca, si convive con i sensi di colpa, il senso di inadeguatezza. “Perché mamma vai sempre a lavorare? A noi non serve niente: abbiamo la camera piena di giocattoli” - mi ha detto una delle mie figlie un giorno. Aveva quattro anni. Da allora, cerco di spiegare alle mie bimbe che il tempo più prezioso è quello che vivo insieme a loro, ma che fare la giornalista per me è molto più di un lavoro. Spero capiscano l’importanza di sentirsi realizzate, di impegnarsi per raggiungere l’obiettivo di un mestiere che ti renda felice. Facendo l’inviata, non avendo orari, festività, week end è fondamentale avere accanto un compagno che ti aiuti e che comprenda, qualcuno con cui dividersi davvero i compiti. Sono fortuna e grata».

Da madre che spesso per lavoro deve raccontare storie tristi e dolorose del mondo di oggi è preoccupata per il domani che le sue figlie potrebbero trovare?
«Molto. Gli incidenti, gli eventi fortuiti, le cose che non si posso prevedere, mi spaventano. La cosa che però mi terrorizza di più, è la cattiveria umana. Quella che di frequente racconto nei miei servizi. Come ogni genitore, anche io vorrei poter proteggere per sempre le mie figlie e so che questo non è possibile. Cerco però di controllare la mia ansia e non trasferirla ad Emma ed Elena. Non sarebbe giusto. Devono vivere la loro vita e devono farlo con la spensieratezza e l’ingenuità della loro giovanissima età. Con il tempo proverò a spiegare anche rischi e pericoli di questo meraviglioso mondo che loro potranno contribuire a rendere migliore».

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