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Intervista a Miriam Gualandi   Tutte le interviste tutte le interviste
Miriam GualandiTelegiornaliste anno XXI N. 29 (808) del 12 novembre 2025

Miriam Gualandi, disillusa ma ottimista
di Giuseppe Bosso

Da quattro anni in forza a Byoblu, incontriamo Miriam Gualandi.

Su Instagram così si descrive: l'unica cosa che coltivo è lo scetticismo. Metto in evidenza i cortocircuiti logici della società (o almeno ci provo): possiamo definirla, per così dire, 'fuori dagli schemi'?
«Mi sono sempre considerata una “diversa” e sono sempre stata interessata a quelli che non si erano allineati, in qualsiasi ambito. Alle superiori portai una tesina sul “canone inverso”, cioè su tutte quelle correnti letterarie, artistiche o scientifiche considerate “disallineate” per la loro epoca. Io mi ritengo semplicemente una persona che fa domande, che si chiede il perché delle cose e non si ferma a una spiegazione superficiale solo perché lo ha detto “l’esperto di turno”. Grazie alla grancassa mediatica oggi anche l’ultimo dei cretini può essere considerato un esperto e a pesare spesso non è la competenza ma l’influenza politica o gli sponsor. Cerco tuttavia di non cadere nell’errore contrario, cioè di mettere in discussione tutto sempre e per partito preso. Il beneficio del dubbio, però, me lo concedo sempre».

Negli ultimi anni si è caratterizzata soprattutto come autrice di suoi contenuti che divulga tramite i suoi profili, sui temi legati all'attualità: è un segno del nostro tempo questo, per così dire, 'mettersi in proprio' nel mondo della comunicazione?
«La maggior parte del mio tempo e delle mie energie sono dedicate all’emittente televisiva per cui lavoro da quattro anni, ma negli ultimi mesi ho cominciato a sviluppare dei progetti personali, che non entrano in conflitto con l’azienda. Purtroppo sì, l’età moderna ci costringe a esistere sui social: se non esisti lì è come se non esistessi da nessuna parte. E se ciò è persino auspicabile per i “civili”, è letale invece per chi come me ha un seppur piccolo ruolo pubblico. Non è il mio caso, ma la maggior parte dei comunicatori si mette in proprio un po’ per forza e un po’ per etica. Se lavori da solo nessuno può dirti “questa notizia non puoi trattarla”, cosa che spesso accade nella stampa o nelle emittenti mainstream. Altra cosa incredibile ma vera: gli editori pensano che il lavoro giornalistico sia un hobby e che pertanto non vada pagato o al limite sottopagato. Mettersi in proprio quindi cerca di ovviare a questo problema tramite donazioni o monetizzazioni che non sempre però bastano a pagare l’affitto e le spese della vita. Di fatto, quello che dico sempre, è che il giornalista libero e indipendente puoi farlo se hai una stabilità economica pregressa. Se questo lavoro lo fai per mangiare allora buona fortuna. Per ora ho potuto fare entrambe le cose».

Quali sono i pro e i contro di questa modalità, anche se in qualche modo sono intuibili?
«Tra i pro sicuramente la libertà di scelta contenutistica. Puoi parlare di quello che ti pare, quando ti pare, nel modo che ritieni più opportuno. Nella mia newsletter su Substack (La penna avvelenata) sto provando a utilizzare un linguaggio più informale rispetto a quello che utilizzo quando invece sono inviata o realizzo un servizio per il telegiornale di Byoblu. La televisione è ancora istituizionale, ha dei tempi molto diversi dai social. Che di contro sono veloci, il tempo di attenzione è sempre più limitato, la concorrenza immensa e gli algoritmi ti remano contro, soprattutto se i tuoi argomenti non sono “allineati”. Così spesso ti trovi a lavorare ore per un contenuto che poi ha pochissime visualizzazioni o a crucciarti perché non riesci a crescere su Instagram o TikTok. Il contro più importante, secondo me, è che i social media sono solo apparentemente liberi. Sono uscite diverse inchieste giornalistiche che dimostrano come, per esempio, durante l’emergenza sanitaria Twitter e Facebook fossero obbligate a bloccare, bannare e oscurare tutti i contenuti e i profili che diffondevano notizie diverse rispetto alla velina ufficiale. E ciò ha riguardato non solo la casalinga di Voghera (la cui censura è in ogni caso sbagliata), ma anche professori universitari, scienziati, testate giornalistiche. Si trattava di imposizioni governative e della Cia negli Stati Uniti. Cercatevi i Twitter Files per capire di cosa parlo. L’errore è stato credere che i social sarebbero rimasti per sempre una grande agorà libera. Non è così e gli abbiamo consegnato le chiavi della cosa più importante che abbiamo: l’informazione. Basta un blackout o Zuckerberg che decide di chiudere tutto e anche la nostra voce viene spenta. Non solo il giornalismo, pensate quante migliaia di lavoratori che basano tutto sulla rete rimarrebbero improvvisamente a mani vuote».

Avverte in ogni caso una maggiore possibilità di interagire direttamente con gli utenti/cittadini piuttosto che tramite i cosiddetti 'canali tradizionali'?
«Sicuramente si crea un rapporto più immediato. La televisione, la radio o i giornali sono “lontani” mentre la piattaforma social dà l’illusione di una vicinanza anche fisica con l’altra persona, soprattutto con il personaggio pubblico con cui puoi eventualmente scambiare dei commenti. È una cosa bella perché si crea una community anche reale di persone che poi si interessano a te, oltre che al prodotto che porti. L’altra faccia della medaglia sono i cosiddetti haters: quelli che ti attaccano e ti insultano senza neanche conoscerti o non avendo letto nemmeno una parola di quello che hai scritto. Io cerco di rispondere sempre con gentilezza e un pizzico di ironia, ho scoperto che una battuta di spirito spesso disinnesca la rabbia. Non sempre, ma a volte capita».

Rispetto ai suoi primi passi nel mondo del giornalismo è cambiata qualcosa dal punto di vista delle sue aspettative nei riguardi della professione?
«Sono più disillusa. In generale, le isole felici non esistono, durano per poco tempo e solo finché non entri in contatto con le vere dinamiche interne. Fare questo lavoro è difficile, per le varie ragioni che ho esposto anche sopra. Un amico mi ha detto una volta che se vuoi guadagnare non puoi fare la giornalista e forse in parte è vero. Se uno riesce a ottenere un contratto poi non riesce ad andarsene anche se il luogo di lavoro dove si trova è tossico, perché sa che altrove non troverà le stesse condizioni contrattuali. Anche questo ha un peso sul tipo di informazione che uno si trova a fare ed ecco perché molti poi fanno lavori collaterali come uffici stampa e social media manager. Penso che molta responsabilità la abbiano anche gli Ordini Professionali. Ogni anno do 100 euro all’Ordine dei giornalisti per rinnovare la mia iscrizione, sono costretta a fare corsi di aggiornamento per avere i crediti formativi che non ho mai capito a cosa servano davvero. Ma se domani perdessi il lavoro dovrei fare affidamento sulle mie conoscenze e sulle mie forze perché l’Ordine non mi reinserisce nel mercato. Prende ma non dà, non vigila realmente sulla “mafia” che c’è dietro il rilascio dei tesserini professionali e da ultimo non ha neanche un database per reinserire i giornalisti nel mondo del lavoro, almeno non che io sappia. A fronte dell’obolo che paghiamo ogni anno mi sembra profondamente ingiusto. Cerco però di essere ottimista e di pensare il mio lavoro sempre come una risorsa, non solo per me stessa ma anche per gli altri. Soprattutto per chi mi legge o mi guarda».

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