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Intervista a Sara Lucaroni   Tutte le interviste tutte le interviste
Sara LucaroniTelegiornaliste anno XX N. 19 (766) del 5 giugno 2024

Sara Lucaroni, storie che ti cercano
di Antonia Del Sambro

La passione per il giornalismo declinata in quella per le parole. E le parole usate per raccontare il mondo, le persone, i fatti ma solo dopo averli verificati e ascoltato i singoli protagonisti delle storie. Un giornalismo vecchia maniera che Sara Lucaroni ha fatto suo trasformandolo e adattandolo alla società e al suo tempo. Scelta premiante e coraggiosa che le è valsa infiniti riconoscimenti e che continua a essere la stella polare del suo lavoro. Questa è la nostra chiacchierata per i lettori di Telegiornaliste.

Sara benvenuta su Telegiornaliste e grazie per avere accettato di raccontarti ai nostri lettori. Sei passata da tante e importanti esperienze come giornalista fino a diventare una scrittrice premiata e considerata. Cosa ti ha lasciato ognuna delle tue esperienze?
«Intanto grazie a voi per questa opportunità. Nel mio piccolo, nel tempo, ho scritto di guerre, immigrazione, neofascismo, inchieste giudiziarie, legalità, fenomeni sociali come i suicidi in divisa. Ma devo dire che forse il filo che lega queste esperienze è un metodo personale: seguire l’istinto, studiare, e ascoltare. L’ultimo punto, ascoltare, è il più importante. Credo di aver messo da parte questo».

Parliamo un attimo del tuo libro. Da dove nasce l'esigenza di raccontare questa storia e quanto è stato coinvolgente per te scriverla?
«Il mio ultimo libro nasce da una telefonata a cui ho risposto per caso, in un momento di forti dubbi e incertezze professionali, dieci anni fa. E dall’idea che certe storie ti cercano e tu non puoi ignorarle. La luce di Șingal è un reportage narrativo sul genocidio della minoranza yazida in Iraq, per mano dello Stato Islamico. È un resoconto credo puntuale dei fatti avvenuti in quell’area: gli strascichi della guerra del 2003 in Iraq, le pastoie della dittatura e della guerra civile siriana, la storia del Califfo Al Baghdadi e la sua ideologia di morte contro l’Occidente, la tragedia della violenza sulle donne nei conflitti, i misteri di una minoranza piccolissima e speciale, gli yazidi, gli ultimi custodi delle antiche culture mesopotamiche, vittime di 74 genocidi nella loro storia. Ma è soprattutto un racconto molto personale, dentro le difficoltà e le emozioni che vive un giornalista quando si reca in un teatro di guerra. Io non sono una vera inviata che segue in prima linea ogni conflitto: mi sono concentrata in un’area specifica, Iraq e Siria, e seguo e racconto da oltre dieci anni storie da questi due paesi. Le guerre che li hanno sconvolti, gli equilibri e gli squilibri geopolitici che li condizionano ma soprattutto le loro minoranze, le loro società, le persone che li abitano sono l’obiettivo del mio interesse. Di yazidi scrivo da dieci anni, specie per Avvenire. Da noi in Italia non vive una loro comunità, e la loro storia è ritenuta “di nicchia”. A me non importa: tutto quel che succede nel mondo ci riguarda. Dopo quello di Gaza, il loro è stato l’ultimo genocidio al quale abbiamo assistito senza fare granché; è stato fortissimo per me e dunque coinvolgente scriverne da lì, dalle case sfollate sulla montagna di Șingal, quando ancora l’Isis rapiva e uccideva e preparava attentati in Europa, lo è stato nel tempo, quando sono tornata più volte per raccontare il “dopo”... e lo è ancora oggi».

Tu sei una vera giornalista di inchiesta, forse di un certo giornalismo che un pochino si è perso nel tempo. Per questa ragione ti chiedo: in una società ormai 3.0 che corre e fagocita notizie e informazione ha ancora senso fare inchieste e prendersi il tempo necessario per farle?
«Assolutamente sì, approfondire e indagare è centrale oggi più che mai. In un’epoca in cui molti media tradizionali imitano a specchio i social media, prendendone più i difetti che non apprendendone e sfruttandone le potenzialità, credo che dobbiamo tenere saldi alcuni punti: uno, non rinunciare mai all’approfondimento. La complessità del mondo non può ridursi sempre a una “card” su Instagram o un thread su X, o video su TikToc, o ad una frase estrapolata da un contesto acchiappa click. Il contesto serve e se è complesso, va spiegato e con le parole giuste, perché le parole costruiscono il mondo e gli danno forma. Due, acquisire maggiori competenze per verificare dati, informazioni, materiale video e fotografico. Questo vale per ogni singolo giornalista e anche per le grandi redazioni che da noi non hanno ancora team di lavoro dedicati al debunking. La velocità nella pubblicazione non sia un imperativo, è più importante la correttezza e l’attendibilità di ciò che si pubblica. E tre, Andare sul posto, esserci ogni volta che è possibile. Sporcarsi le scarpe, macinare chilometri, soprattutto guardare negli occhi le persone».

Di cosa sei più orgogliosa del tuo lavoro e cosa invece cambieresti se te ne dessero l'opportunità?
«Mi piace quel processo anche personale che si innesca quando devi raccontare una storia. Di questo mestiere mi piace il fatto che, se fatto con coerenza e passione, ti insegna ad imparare, capire, andare a fondo, essere curioso, non avere paura. Ti mette dubbi e ti mette in gioco, mostrandoti prospettive, spaccati, realtà e tirando giù il muro dei giudizi e dei pregiudizi, dunque allargandoti la vista su un altro pezzetto di mondo, un altro e un altro ancora. Ti costringe ad essere ogni volta la migliore versione di te. Cambierei invece volentieri questo clima di delegittimazione verso la stampa e il lavoro e la figura dei giornalisti. Mai come in questo momento storico siamo necessari e competenti per permettere ai lettori o ai telespettatori di riconoscere e respingere le fake news; smontare la propaganda, orientarsi al meglio dentro il flusso di informazioni, avere sempre una propria opinione informata; conoscere la complessità di guerre e scenari politici».

Che libro c'è in questo momento sul tuo comodino?
«Adesso sto leggendo Abel di Alessandro Baricco. Ma sul comodino in verità tengo impilati certi libri a cui voglio bene, che mi hanno portato fortuna, o mi hanno cambiato la prospettiva sulle cose, mi hanno magari soccorsa e accompagnata in un momento difficile, perché a volte te li mette davanti l’Universo, come fossero risposta ad una domanda o ad una richiesta di aiuto. I loro sono dei fari, sul mare, di notte. Al momento tengo lì vicino: Donne che corrono coi lupi di Clarissa Pinkola Estés; Oriana, una donna, di Cristina De Stefano: una biografia molto bella di Oriana Fallaci, e il suo Niente e così sia. Poi Novelle fatte a macchina di Gianni Rodari, Storia di una gabbanella e del gatto che le insegnò a volare di Luis Sepúlveda; Il mondo non finisce di Charles Simić, Le braci di Sandor Marai, le Meditazioni metafisiche di Cartesio; La prova matematica dell’esistenza di Dio di Kurt Göedel e La grammatica di Dio di Stefano Benni. C’è anche un numero di Dylan Dog: Johnny Freak».

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