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Intervista a Diana Lama (2)   Tutte le interviste tutte le interviste
Diana e Diego LamaTelegiornaliste anno XX N. 25 (772) del 9 ottobre 2024

Diana Lama, dietro Valeria Galante
di Giuseppe Bosso

Dopo il grande successo di La casa delle sirene, edizioni Mondadori, arriva La casa della colpa il secondo capitolo delle vicende della famiglia Morelli, sullo sfondo di un percorso storico che inizia a ridosso dell’Unità d’Italia per attraversare il passaggio al Novecento, l’avvento del fascismo e le due guerre mondiali in una Napoli alle prese con infinite problematiche. Ma a lungo, per un anno, i lettori si sono chiesti chi fosse l’autrice, Valeria Galante. E lo scopriamo incontrando nuovamente Diana Lama.

Bentrovata Diana, anzitutto chi è Valeria Galante e com’è nata questa idea che ha coinvolto te e tuo fratello Diego?
«Siamo appunto noi dietro Valeria Galante, Diana e Diego Lama, due fratelli che scrivono, con modi e stili diversi. Confrontandoci e parlando di storie della nostra famiglia, che ci avevano raccontato durante l’infanzia, è nata questa idea di provare a elaborare qualcosa sulla base di quei ricordi, e all’editore l’idea è piaciuta».

Uscire allo scoperto dopo il grande successo di La casa delle sirene cosa ha comportato per voi?
«Anzitutto vorrei spiegare il “perché” di questa idea di scrivere dietro uno pseudonimo, mio antico sfizio che ho voluto finalmente soddisfare, anche se gli editori tendono a non apprezzare. Anche Diego si è divertito all’idea, ma abbiamo anzitutto dovuto considerare il fatto che essendo entrambi legati a generi specifici questa iniziativa avrebbe potuto spiazzare i nostri lettori, o suscitare pregiudizi da chi non potrebbe concepire come due scrittori di gialli si possano cimentare in un racconto storico su una saga familiare. La finale del Premio Bancarella la scorsa estate è stata qualcosa di inaspettato, il successo del primo libro travolgente e a quel punto non abbiamo avuto altra scelta che uscire allo scoperto, proprio in considerazione del fatto che le premiazioni e le presentazioni non potevano svolgersi senza la presenza fisica di quell’autrice che ovviamente non esisteva in quanto Valeria Galante».

Quanto c’è di autobiografico in questi due libri, una storia che parte da una tragedia familiare nelle prime pagine?
«I riferimenti alla nostra famiglia ci sono ma molto mascherati. Almeno due episodi sono realmente accaduti o comunque li abbiamo rappresentati per come ci sono stati raccontati. Il resto è comunque stato in parte adattato, in parte ispirato da altre vicende legate ad altri rami della nostra famiglia. Ma la cosa più importante è che noi tenevamo a raccontare una storia di donne e di evoluzione della figura femminile in quella Napoli borghese di seconda metà Ottocento/inizio Novecento».

Metaforicamente possiamo dire che questa lettura che si snoda attraverso il racconto di più generazioni è anche una rappresentazione di come tante illusioni legate all’unità d’Italia, all’inizio del ventesimo secolo e al regime fascista sono venute a cadere, in particolare parlando di Napoli?
«Sì proprio perché l’evoluzione di quella Napoli con il suo stile architettonico e la sua società segue di pari passo quella del destino di queste donne, legato appunto ad illusioni: illusioni di amore, illusioni di innalzamento sociale, di libertà… donne che acquisiscono la consapevolezza di dover combattere ed essere in qualche modo artefici del loro destino».

Importante è anche la presenza di personaggi o figure che pur non essendo presenti attivamente rappresentano i cosiddetti ‘convitati di pietra’, e parlo di Teresa per il primo libro e di un gatto per il secondo. Superstizioni popolari o reale influenza di questi eventi tragici?
«Anche qui ci siamo divertiti ad alternare racconti familiari e invenzione di nostra marca, con un omaggio a Edgar Allan Poe che qualcuno potrà cogliere. Ma non diamo una risposta definitiva. Ci è piaciuto giocare con il mistero».

Nelle recensioni che ho visionato molti lettori vi hanno contestato una eccessiva negatività riscontrabile tanto nei personaggi maschili quanto in quelli femminili, che alla meno peggio sono definiti deboli nell’accettare con rassegnazione un destino già segnato: cosa rispondi a questi lettori?
«Ho letto alcune recensioni e quelle negative sono utilissime se ti fanno cogliere dei punti che potrebbero esserti sfuggiti. Un paio invece le ho trovate alquanto ingiustificate perché non mi hanno dato l’impressione di aver capito realmente cosa avevamo raccontato. I personaggi negativi, come dici, abbiamo cercato di renderli reali, parliamo sempre di un’epoca in cui una donna non aveva alcun diritto, dalla possibilità di disporre del suo patrimonio al poter scegliere chi sposare, spesso sottoposta a violenze fisiche o psicologiche, condizione che prescindeva dal rango sociale, fosse anche elevato come quello di una famiglia della buona borghesia come quella da noi raccontata. E lo potrete leggere sia attraverso un personaggio maschile, molto negativo ma che io amo tantissimo, e uno che è il suo esatto opposto».

Dal punto di vista narrativo avete operato una suddivisione in blocchi, per così dire, in cui il lettore vive per così dire la storia dal punto di vista d ciascuna delle protagoniste, ma sempre in terza persona: è anche questo cha caratterizza un romanzo storico più che un romanzo dove un lettore spinto dalla emotività può essere portato a ‘tifare’, per così dire, per i personaggi piuttosto che valutare le loro vicende?
«Non amo particolarmente la narrazione in prima persona, per quanto non manchino esempi bellissimi; ma preferisco la terza persona perché consente di concentrarsi meglio sulla storia. La cosa che più ci è piaciuta è essere riusciti a far andare spesso questi personaggi oltre il loro periodo, in modo da consentire al lettore di avere di loro una visione attraverso più prospettive, come una triangolazione che conferisce veridicità al racconto proprio per le più interpretazioni».

La storia è articolata cronologicamente anno doppo anno, ma con frequenti salti temporali: non è una tecnica che rischia di peccare dal punto di vista della coerenza e della linearità dell’esposizione?
«Abbiamo cercato proprio da questo punto di vista di articolare i 50 anni del primo libro e i 45 del secondo con una scansione che prevedesse in coda ad ogni capitolo un colpo di scena, un evento fondamentale per gli sviluppi successivi. Siamo partiti del presupposto che ogni famiglia in ogni anno deve affrontare una serie di eventi, siano positivi o negativi, in modo da fotografare quei determinati momenti in relazione a quelli della storia».

Elvira Morelli, protagonista principale del primo libro, è sicuramente il personaggio più complesso, che certamente non potrà apparire al lettore come la classica ‘eroina in lotta contro il mondo’, ma anzi come colei che finisce per diventare a sua volta parte di quel mondo che l’aveva plasmata, è così?
«Qualcuno potrebbe vederla così, a me piace considerare Elvira anzitutto una combattente, a tratti ambigua, anche crudele, che nella migliore delle ipotesi chiude un occhio quando non è essa stessa a spingere gli eventi perché prendano la piega da lei desiderata. Ma fondamentalmente è una donna che ragiona con il metro della sua epoca, non diversamente dalle altre donne dell’epoca che erano principalmente orientate a trovare un buon partito da sposare».

Senza fare spoiler posso dire che ho particolarmente amato il percorso interiore che caratterizza, nella parte finale, uno dei vostri personaggi che passa, negli anni del fascismo, da una piena e incondizionata fiducia nel regime e in Mussolini a una totale repulsione quando consapevolmente capisce che quella strada porterà l’Italia e anche la vita sua e della sua famiglia nel baratro: anche una lettura politica, se vogliamo?
«Storica direi, piuttosto, descrivendo la realtà di persone che in quell’atmosfera facevano la scelta più facile per convenienza, ma molti altri, immersi in quel clima finivano per abbracciare quella figura che si proponeva come ‘salvatore’ e risolutore, aderendo al regime con loro convinzione senza rendersi conto di quello che era realmente, perché sprovvisti di punti di riferimento per poter fare una obiettiva valutazione. Ma sono anche le persone che a un certo punto hanno saputo aprire gli occhi e vedere in modo diverso quella realtà».

La gastronomia e la moda dell’epoca sono un dato ricorrente del libro: scelta casuale o da voi ponderata?
«Abbiamo fatto una ricostruzione storica accurata sulla base di ricerche, documentandoci e studiando molto questi aspetti, sui quali non abbiamo potuto contare su ricordi o lasciti di famiglia. Se riesci a sviluppare un contesto plausibile e verosimile, poi ti puoi anche concedere qualche ‘licenza’ che non dovrà intaccare quella base».

È una storia che si è esaurita o avete in mente di proseguire il racconto, giungendo a ridosso dei giorni nostri?
«Sì, la Mondadori ci ha chiesto di proseguire, e siamo all’opera per il terzo capitolo che si concluderà verosimilmente attorno al 1990, per chiudere questa trilogia».

Sono passati undici anni dal nostro primo incontro, avvenuto nel 2013, in cui avevamo parlato de L’anatomista: com’è cambiata da allora Diana Lama?
«Per certi versi tanto, per altri sono tale e quale. Mi sono divertita nel cimentarmi in un nuovo stile ma le mie radici sono di quel genere; si cambia, sperando di migliorarsi anche umanamente».

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