Telegiornaliste anno XX N.
29 (776) del
13 novembre 2024
Amalia
De Simone, giornalismo passione civile
di
Giuseppe Bosso
Incontriamo
Amalia De Simone, videoreporter d’inchiesta con alle spalle una lunga e
impegnativa carriera fatta soprattutto di inchieste e reportage, spesso
scottanti, che non hanno mai scalfito in lei il sacro fuoco del giornalismo.
Ha realizzato inchieste scottanti, ottenuto riconoscimenti importanti
come la nomina a Cavaliere della Repubblica, ma anche subito iniziative di
rappresaglia come richieste di risarcimenti: ha mai avuto tentennamenti o
pensato di fare passi indietro?
«Se ho continuato è perché ho ritenuto che ne valesse la pena e perché
questo mestiere è una passione civile. Però ci sono degli ostacoli che
sfiancano e ci sono stati momenti molto complicati: si cade e ci si rialza.
Ho sempre pensato che fosse importante provare a raccontare cose che altri
non raccontavano o provare a raccontare quelle stesse cose con uno sguardo
inedito; ho sempre pensato che bisognasse dare parola agli invisibili, fare
le pulci al potere e provare a scardinare i privilegi a favore dei diritti.
Io ci provo sempre, nonostante tutto».
Freelance con meno mezzi ma più libertà di azione: è ancora così oggi?
«Assolutamente no, soprattutto per chi comincia. Essere freelance significa
non avere adeguate tutele sia da un punto di vista del welfare (previdenza e
sanità), sia da un punto di vista della difesa dalle querele temerarie e
dalle liti temerarie in genere; spesso i freelance devono battersi per avere
compensi adeguati e rincorrere gli editori. Realizzare un’inchiesta costa
tantissimo non solo da un punto di vista della fatica fisica, emotiva ed
intellettuale; costa proprio economicamente e questo genere di investimenti
non tutti possono permetterseli. Oggi freelance è sinonimo di precariato, e
qualche volta anche di povertà. Ovviamente quando ti costruisci una storia
giornalistica riconosciuta e riconoscibile, e a muso duro, rivendichi i tuoi
diritti; le cose vanno meglio ma non è una cosa così scontata e non è una
cosa per tutti».
Si è mai posta dei limiti nella realizzazione delle sue inchieste?
«Il mio lavoro racconta indubbiamente che non mi sono posta limiti
soprattutto nel racconto del potere, e qualche volta ne ho pagato anche le
conseguenze».
Le commistioni tra criminalità organizzata e potere, non solo politico,
sono purtroppo un fatto acclarato sul quale però i cosiddetti media
mainstream tendono a sorvolare, per non dire completamente ignorare: secondo
lei come mai?
«È vero, questi temi ormai sono usciti dall’agenda setting delle principali
testate giornalistiche e si fa fatica a proporre questi temi. La spiegazione
sta proprio nella domanda: criminalità organizzata e potere sono due fonti
di condizionamento, a volte violento a volte subdolo, della società.
Bisognerebbe che le redazioni giornalistiche, a garanzia della loro
indipendenza, possano essere messe in condizione di essere svincolate sia
dagli interessi degli editori che da quelli della politica. Per questo
motivo è importantissima la riforma europea
Media Freedom Act».
Ho intervistato molti giovani giornalisti che definiscono l’essere
inviati di guerra la massima aspirazione: alla luce del lavoro che ha
realizzato direbbe loro che guardarsi intorno, più vicino, non sarebbe
altrettanto impegnativo?
«Qualche anno fa mi è stato assegnato un premio internazionale che
normalmente viene assegnato gli inviati di guerra, il premio Maria Grazia
Cutuli, e mi fu assegnato per aver raccontato le guerre di casa nostra.
Spesso alcune vicende italiane, soprattutto quelle che riguardano la
criminalità organizzata, fanno danni e morti paragonabili a quelli di una
guerra. Sono vicende complesse ma che si possono raccontare stando dentro ai
fatti. E questo io lo trovo estremamente interessante e stimolante. Oggi
come oggi andare invece in un territorio di guerra come per esempio
l’Ucraina o il Medio Oriente significa dover scegliere di raccontare una
parte o l’altra perché non si è liberi di muoversi e bisogna stare embedded.
L’esempio più clamoroso è che nessun giornalista può entrare a Gaza, e la
cosa più vergognosa è che la comunità internazionale non insiste per
rimuovere questo ostacolo».
Cosa consiglierebbe Amalia De Simone a un “millennial” desideroso di
intraprendere il percorso da giornalista?
«Gli direi, anzi gli dico perché spesso mi confronto con i colleghi o i
futuri colleghi giovanissimi, di ascoltare quanto è forte la loro passione:
se questa passione è così forte bisogna seguirla con la consapevolezza di
tutte le difficoltà che ci sono. Gli ostacoli vanno conosciuti e ponderati.;
e poi gli direi di tenere sempre la schiena dritta, e di non svendere mai il
bene più prezioso che abbiamo e cioè la libertà».