Telegiornaliste anno XIX N. 4 (720)
del 1 febbraio 2023
Enza
Michienzi, ponte tra Italia e Stati Uniti
di
Giuseppe Bosso
Dopo esperienze in emittenti televisive e testate giornalistiche in
Italia,
Enza Michienzi si è trasferita a Miami, impegnandosi a partire
dal 2008 in associazioni per la promozione e la divulgazione della
cultura italiana negli Stati Uniti.
Cosa ti ha portato a lasciare l’Italia per gli Stati Uniti?
«Si è trattato di una decisione ponderata, ho atteso che mio figlio
completasse il ciclo della scuola elementare per iniziare poi negli
Stati Uniti la Middle School, la nostra scuola media. Mi sono trasferita
con quello che era all’epoca il mio compagno, oggi marito, e chiaramente
con mio figlio Leonardo. Abbiamo deciso in famiglia di stabilire la
nostra nuova residenza negli stati Uniti quando abbiamo individuato a
Miami nuove stimolanti opportunità di lavoro. In quel momento avevo
temporaneamente accantonato il mio lavoro da giornalista, mi sono
dedicata ad investimenti senza mai abbandonare completamente la mia
professione. Difatti ho collaborato per anni con alcune testate italiane
qui in America e la cosa è andata avanti per dieci anni. Nel 2020 ho
avuto l’idea di fondare un giornale online in italiano per gli italiani
all’estero,
Italia Report Usa, mantenendo di fatto attivo il mio impegno
per la diffusione della lingua e cultura italiana negli Stati Uniti. A
tal proposito ci tengo a sottolineare che tutto quanto è Made in Italy,
qui in USA è apprezzatissimo. Il nostro Paese è considerato dagli
americani una meta da visitare almeno una volta nella vita. Del resto
l’apprezzamento che l’Italia gode negli Stati Uniti recentemente è stato
sottolineato anche dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, quando
ha dichiarato che in pochi mesi da premier ha avuto modo di incontrare
all’estero molti capi di Stato e si è resa conto di come la concezione
dell’Italia nel mondo sia davvero migliore di quella che abbiamo noi di
noi stessi. Dovremmo riflettere su questo aspetto».
Parliamo di Italia Report Usa: anzitutto la testata a quale target è
indirizzato?
«I nostri lettori sono gli italiani che vivono negli Stati Uniti, ma dai
dati in nostro possesso sappiamo che anche in Italia la testata gode di
molte visualizzazioni. Il giornale oggi è fonte di riferimento per la
comunità italiana in Florida».
Qual è il focus della testata?
«Creare un ‘ponte virtuale’ di informazione tra Italia e Stati Uniti;
pubblichiamo notizie americane che non hanno il privilegio delle prime
pagine in Italia o che qualche volta vengono riportate in maniera
distorta. Lavoriamo soprattutto su temi cari agli italiani all’estero e
in particolare a quelli residenti negli Stati Uniti e a Miami, città che
è in espansione, economica e culturale».
Come sta cambiando Miami?
«Quando mi trasferii nel 2008 era una città con una fortissima impronta
caraibica, ma nel corso degli anni si è trasformata davvero in senso
europeo, anzitutto grazie allo sviluppo di due quartieri, Brickell e
Downtown. In quest’area sono stati costruiti negli ultimi 10 anni oltre
500 grattacieli e si è registrata una fortissima immigrazione italiana.
Il nostro consolato conta oltre 550mila iscritti all’Aire, ma questo è
un dato relativo, visto che molti italiani pur vivendo stabilmente negli
Usa non sono censiti».
Ritorniamo a parlare del tuo giornale. Quali sono le notizie care
agli italiani all’estero o magari quelle pubblicate in Italia che
definisci distorte?
«Tanto per farti un esempio, durante la pandemia, il primo decreto
governativo aveva stabilito che gli italiani all’estero non potessero
fare ritorno in patria se non per un definitivo rientro; a noi è
sembrata un’aberrazione questa cosa, inaccettabile, dal momento che la
maggior parte degli italiani all’estero sono persone che lo hanno fatto
per necessità e dovunque tutti noi abbiamo legami affettivi in Italia.
Quindi ho inviato una lettera aperta all’allora ministero degli Esteri
Luigi Di Maio, rivendicando il diritto di fare ritorno nel Paese delle
nostre origini, dove abbiamo lasciato famiglia e a volte anche la nostra
principale abitazione. A distanza di settimane abbiamo ricevuto una
risposta ufficiale dal ministero in cui ci veniva assicurato che il
ministro avrebbe attenzionato la nostra richiesta, e nel giugno 2020 con
il secondo decreto Covid quella voce fu cancellata». Per quanto riguarda
le notizie distorte sono di natura politica, ma lasciamo perdere. Ti
dico invece che durante la pandemia i colleghi corrispondenti dagli
States raccontavano che qui i poveri morivano perché non avevano soldi
per sottoporsi ai continui Covid test, falso! A differenza dell’Italia
qui i covid test sono stati sempre gratuiti e facilmente accessibili».
Italia e Stati Uniti, due realtà diverse anche dal punto di vista del
giornalismo. Tu verso quale dei due modelli ti senti maggiormente in
sintonia?
«Il giornalismo americano, come quello italiano, risponde sempre a un
editore e quindi la linea editoriale è segnata da interessi economici e
politici. La vera differenza credo sia nello schema e nella struttura.
Nella stesura degli articoli italiani la narrazione è più discorsiva,
lineare, mentre gli articoli americani riportano le notizie secondo
capitoli, a volte senza una stretta continuità”».
Da anni si parla di Stati Uniti che hanno perduto in parte la loro
leadership tra le nazioni del mondo. Secondo te si può parlare ancora
oggi di “sogno americano”?
«Penso che questa espressione sia stata inventata e lo verifico tutti i
giorni vivendo da quest’altra parte dell’oceano. La visione
cinematografica dell’America non corrisponde alla realtà. Gli Stati
Uniti sono il Paese delle opportunità ma non regalano niente: si pensa
sempre all’America come fonte facile di ricchezza, ma non tutti sanno
che il mondo del lavoro qui è strutturato con regole a noi sconosciute.
I lavoratori americani non hanno nessuna tutela sindacale, possono
essere assunti e licenziati con la stessa facilità. Le ferie si sommano
in 2 settimane all’anno e molto spesso le turnazioni non prevedono
festività durante il weekend. Non sono previsti per i lavoratori che
perdono il lavoro quelli che noi conosciamo come ammortizzatori sociali.
Scivolare verso la povertà è una tragica realtà anche per chi pensa di
avere un lavoro stabile. La nota positiva è che l’offerta e la richiesta
sono in continua crescita pertanto gli americani cambiano spesso lavoro,
spostandosi da un settore all’altro e da una città all’altra con una
mobilità molto più continua. La competitività è altissima, ma se mandi
un curriculum ad un’azienda, ti rispondono sempre, e generalmente ti
fissano un appuntamento per un colloquio; poi il risultato dipende da
te. In occasione di un viaggio a Chicago ho potuto leggere, sotto un
ponte, un cartello, scritto da un filosofo italiano, che contesta
l’esistenza del concetto di sogno americano, sottolineando che i nostri
connazionali che sono andati fin laggiù alla ricerca di migliori
condizioni di vita hanno dovuto adeguarsi ai lavori più umili, in
condizioni durissime e con molte discriminazioni».