Telegiornaliste anno XIX N. 30 (746) del
29 novembre 2023
Anna Vera Viva, straordinario talento
di
Antonia Del Sambro
Scrittrice, sceneggiatrice, ideatrice di docufilm, artista colta e
sofisticata e napoletana di adozione dal 1982,
Anna Vera Viva
è la voce più elegante e insieme verista della nostra narrativa di
genere. Nei suoi lavori letterari si respira l’esistenza autentica di
questo tempo e del fluire della Storia e il suo linguaggio è colto e
ugualmente semplice e immediato per arrivare a tutti. Ne
L’Artiglio
del Tempo, suo ultimo lavoro letterario, questa sua straordinaria
capacità di scrittura per immagini viene fuori più intensa e luminosa e
così per parlare di questo suo bellissimo romanzo e della sua vita di
scrittrice abbiamo deciso di intervista per tutte le lettrici del nostro
giornale e farci raccontare tutto da lei. Buona lettura!
Anna Vera, innanzitutto benvenuta sul nostro giornale e grazie per
aver accettato la nostra intervista. Tra le voci della narrativa
italiana e della narrativa napoletana la tua è ormai una delle più
apprezzate e amate. E proprio di Napoli e della sua storia recente e
passata parla il tuo libro. Quanta ispirazione ricevi dalla tua città e
quante storie ancora avresti da raccontare?
«Grazie a voi per avermi accolta tra le vostre pagine e per avermi dato
la possibilità di parlare della mia città. Napoli è continuamente fonte
d’ispirazione e non soltanto per me. In tutte le epoche chiunque abbia
avuto a che fare con l’arte, che fosse essa scritta, dipinta o cantata,
ha sentito la necessità almeno di passarci se non, addirittura, di
fermarsi e qualche volta per sempre. Questa città è uno di quei luoghi
fertili per l’immaginazione di chiunque e questo dipende forse da fatto
che possiede un patrimonio talmente ricco e variegato: storico,
artistico, musicale, architettonico, lessicale, paesaggistico,
culinario, che è una cornucopia piena di infiniti stimoli. Quindi anche
le storie che possono nascere da tutto ciò sono infinite».
Ne L’Artiglio del Tempo il personaggio di padre Raffaele a cui
hai dato vita e forma già nel tuo lavoro precedente torna proprio a
Napoli e proprio in quel quartiere tanto difficile quanto affascinante
chiamato Sanità. E da qui in poi la trama e la location sono un tutt’uno
con la tua narrazione. Cosa ti ha emozionato di più mentre stavi
scrivendo e raccontando questa storia?
«Effettivamente un’ambientazione come quella del Rione Sanità, con le
sue singolarità storiche e umane, fa presto a diventare uno dei
personaggi principali del racconto. E sicuramente colora ogni
avvenimento di una tonalità personale e intrigante. Invece, la parte più
affascinante, di tutto il lavoro che c’è stato per arrivare alla stesura
di questo romanzo, è stata quella della ricerca. Perché, oltre alla
ricchezza dei mondi che sono andata ad indagare c’è tutta una parte di
testimonianze raccolte che mi ha permesso di guardare a quei tempi con
gli occhi di chi li aveva vissuti e di percepire quelle che erano state
le emozioni che avevano provato in quei frangenti».
Una trama ambientata in quartiere napoletano come Sanità è destinata
inevitabilmente a essere una storia corale e quindi ti chiedo, al di là
dei tuoi due straordinari protagonisti, Raffaele e Assuntina, quale è il
personaggio di questo tuo ultimo romanzo che più ti è rimasto nel cuore?
Chi faresti tornare in un tuo prossimo libro anche solo per un cammeo?
«È sempre triste abbandonare i propri personaggi, perché con loro si
dividono mesi o anni della propria vita. S’impara a pensare come loro, a
immedesimarsi a tal punto da crederli reali. Quando poi si arriva a
ultimare un romanzo, si è consapevoli che anche a quella simbiosi si è
scritta la parola fine. E questo, a volte, è davvero doloroso. Nel cuore
mi sono restati quelli che, di questo romanzo, sono i rotori principali:
Il vecchio Samuele Serravalle e il piccolo Antonino. Mi è restato il
loro modo di amarsi, quella comprensione profonda e totale che ognuno di
noi vorrebbe provare. Ma non credo che ci sia la possibilità di farli
tornare, purtroppo».
L’Artiglio del Tempo parla di storia e di rivalsa, di morte e
di espiazione e anche quando nella trama arriva un omicidio vero e
proprio anche questo è trattato come punto di partenza per arrivare a
parlare di equità e armistizio o tregua. Dato quindi che siamo ben oltre
il giallo storico tu come lo definiresti il tuo lavoro?
«Dover per forza incasellare tutto, definirlo, mi è sempre parsa una
forzatura. Perché non abbiamo degli strumenti validi che ci consentano
di farlo e diventa, inevitabilmente, un’operazione di sottrazione di
alcuni aspetti a favore di altri. Dove ci sono più elementi, ad esempio
un’indagine, la storia, la crescita dei personaggi, l’analisi del
territorio e sociologica, l’approfondimento psicologico, si è costretti,
per poter dare una definizione, a sceglierne solo uno a discapito degli
altri. Perché non c’è un'unica parola che definisca tutto questo. O
meglio, c’è soltanto una che può farlo: Romanzo. Allora, sarebbe un bene
che si usasse solo questa, dividendoli poi in buoni o cattivi romanzi».
Se dovessi scegliere una sola frase del tuo libro, solo una tra le
tante che hai scritto, quale sceglieresti e perché?
«Scelgo una frase che dice Padre Raffaele a delle scolaresche, e la
scelgo perché la condivido profondamente e perché credo sia l’unica
strada per essere degli uomini liberi.
Chi ha il compito di educarvi,
deve cercare di sviluppare in voi il senso critico, la coscienza, la
liberta di pensiero. È il più grande dono che può farvi. Perché se,
anche in buona fede, vi spinge a adottare i suoi pensieri, vi convince
di cosa secondo lui è giusto o sbagliato, sta facendo di voi degli
schiavi. Oggi delle sue idee, domani di chiunque altro sia altrettanto
bravo a manipolarvi».