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Intervista a Rossella Scribano   Tutte le interviste tutte le interviste
Rossella ScribanoTelegiornaliste anno XVIII N. 18 (702) del 25 maggio 2022

Rossella Scribano, appassionata alle persone
di Giuseppe Bosso

Incontriamo Rossella Scribano, giornalista ragusana con una lunga esperienza, anche all’estero.

Hai molto viaggiato in questi anni, fin da quando lasciata la tua natia Ragusa hai partecipato a Miss Italia per poi intraprendere la strada del giornalismo. Con quale spirito?
«Ho intrapreso la strada del giornalismo un po’ per caso, ero appassionata alla storia delle persone, soprattutto di chi non ha voce, da battagliera che non sopporta le ingiustizie, è una vocazione che parte da dentro, nonostante io mi senta un po’ un “ibrido” rispetto al ruolo standard del giornalismo, visto che sono anche una creativa che mette in campo una serie di modi di essere e strategie di approccio al lavoro molto personali. Ma la base è quella, dare voce a chi non riesce a farlo, o raccontare esempi di vita che per me sono importanti, lo spirito di una comunità nasce anche da queste occasioni di condivisione di esempi virtuosi. A questo aggiungo questo approccio creativo, visto che la comunicazione deve conquistare l’attenzione di chi ascolta, inserendo elementi “che catturano” per esempio nel racconto delle storie».

Eri intenzionata fin da subito a tornare in Italia oppure durante i tuoi soggiorni all’estero hai preso in considerazione la possibilità di trasferirti per cercare in uno dei Paesi da te visitati di affermarti nel giornalismo?
«No, non ci ho pensato perché vivere fuori ti fa capire quanto ami la tua terra, la tua cultura… sono state esperienze stimolanti che mi hanno aperta a nuovi orizzonti, aiutato a migliorare miei aspetti umani, caratteriali come la tolleranza, il non giudicare, accogliere come valore aggiunto ogni elemento di diversità, qualità che porti anche nel tuo approccio professionale quando interagisci con le persone, ed è bello accogliere sempre l’altro cogliendo le sue sfaccettature senza giudicarlo. Anche imparare le lingue e culture. Ma per il resto mi faceva soffrire il clima, la mancanza del cibo italiano… ti potranno sembrare frasi fatte, ma è stato così per me».

Hai spaziato in vari settori, dalla gastronomia agli eventi alla cronaca: in quale ti sei sentita maggiormente coinvolta?
«Il giornalista è chiamato spesso ad essere un ‘tuttologo’ in senso buono, perché spesso si trova ad interfacciarsi e approfondire i più disparati argomenti prima di proporli al pubblico. A tal proposito ricordo sempre che noi dovremmo rappresentare “il tramite” per le persone, oggi purtroppo c’è la tendenza a peccare di “narcisismo digitale”. Si tende alla personalizzazione delle informazioni a discapito della verità sostanziale dei fatti, con la conseguenza di non fornire più un’informazione chiara e neutrale al pubblico. Essendo una curiosona, ho amato tutte le cose che ho affrontato allo stesso modo perché tutte mi hanno arricchita molto sia umanamente che professionalmente, poi non ti nego sono anche una secchiona che si prepara moltissimo su ogni argomento. Tuttavia dopo la pandemia ho creduto fosse molto importante rispetto anche ai feedback che raccolgo quotidianamente tramite i miei canali social, che uso molto per confrontarmi e rimanere in contatto con le persone, che si dovesse parlare maggiormente e meglio di salute mentale e ritornare “alla persona”. Io per prima ho fatto un percorso psicologico per ritrovare una serenità che avevo perso e migliorare la qualità della mia vita e relazioni. Penso sia importante aggiustare il tiro verso un’attenzione all’individuo e al suo mondo emotivo, fatto dunque non solo di competenze tecniche ma anche trasversali, e farlo sia nella sua sfera personale che professionale. Penso che in primis gli ambienti di lavoro, incubatori e al contempo volano delle evoluzioni sociali, debbano ascoltare le esigenze delle nuove generazioni. Queste sono le tematiche di cui vorrò occuparmi nel prossimo periodo e che mi hanno particolarmente coinvolta. Mi piacerebbe diventare un punto di riferimento in relazione a questa sfera che non è tangibile ma è fondamentale per ogni tessuto sociale sano ed equilibrato. Sono tematiche che devono essere normalizzate e rese sempre più fruibili; è il mio obiettivo “core” a livello personale e umano».

Gioie e dolori di una vita da inviata, sempre in giro per l’Italia.
«Sì, i dolori sono legati al fatto che una vita così ti fa perdere un po’ la cognizione del tempo e di te stessa, perché vivi immersa in queste tematiche che affronti e finisci per trascurare la vita privata, soprattutto quando i ritmi sono particolarmente intensi e puoi incappare in una serie di imprevisti. Ma devo dire che le gioie non mancano, i rapporti che si instaurano con le persone che intervisti o che collaborano con te, ed è una delle cose che ho più amato, storie anche di pochi minuti ma che ti contaminano. Io dico sempre che prima delle notizie, ci sono sempre le persone, che meritano rispetto e tatto, soprattutto in relazione al tema che affronti con loro. Mi sento un po’ ’zingara dentro’ inteso come cittadina del mondo, anche durante la pandemia ero in continuo spostamento e apprezzavo sempre la possibilità di vedere posti nuovi».

Hai scritto la sceneggiatura di un docufilm sui piccoli cugini Alessio e Simone e sulla loro tragedia che ci ha sconvolto tre anni fa: com’è nata questa idea e come ti sei avvicinata alle loro famiglie?
«Ho scritto in una notte in cui non riuscivo a prendere sonno questa sceneggiatura, dopo aver visto in tv un’intervista delle madri che chiedevano che i loro figli non fossero dimenticati. Mi sono chiesta, nell’impotenza di quel momento di dolore inimmaginabile “come posso permettere a queste madri di avere una memoria dei loro figli che si conservi nel tempo?”. Ed è qui che ho avuto l’idea, tenendo conto delle potenzialità che il mondo del cinema ti consente di utilizzare, di provare a riscattare la memoria di Alessio e Simone dalla tragedia, a cui il loro ricordo era incollato. Loro erano molto di più, due ragazzini meravigliosi che avevano un’immensa voglia di vivere, e che sono stati strappati alla vita troppo presto e ingiustamente. Così ho contattato un bravissimo giornalista e amico, Paolo Borrometi, che conosce le famiglie, le ha contattate proponendo l’idea che poi ho girato al regista Andrea Traina che ha accolto il progetto mettendo a disposizione la sua professionalità. Un’esperienza emotivamente forte che porterò nel cuore sempre, e che adesso è nell’ultima fase di montaggio a cui seguirà poi la proiezione ufficiale che è già in programma».

Siamo passati nel giro di due anni dalla paura per il covid a una guerra: questi eventi hanno cambiato la tua prospettiva di futuro?
«Sì, questi anni provano sotto molti aspetti a condizionarci. Il senso di disillusione, di paura, di incertezza possono essere tuttavia trasformati con la condivisione; anzitutto è vero che ‘siamo tutti sulla stessa barca’. Anche nei momenti di sconforto, in cui potresti perdere le motivazioni per affrontare il futuro, si riafferma invece quella voglia di combattere, che è importante condividere con chi amiamo. Questi anni ci hanno fatto tornare a capire il valore delle cose davvero importanti, dei rapporti veri con le persone che tengono davvero a noi. E io sono un’ottimista cronica, penso sia davvero importante tornare alla nostra interiorità, togliendo i substrati che tendono a trasformarci, ma ciò accade solo quando queste tematiche sono fruibili a tutti. Un po’ un umanesimo 2.0 in cui rimette al centro la persona anche con le sue ombre, che sono comunque importanti e dobbiamo imparare a parlarne in maniera più serena. Vanno innescati circoli virtuosi perché ciò avvenga, a partire dal coinvolgimento dei più giovani, quindi a partire dai centri di educazione per antonomasia, primi tra tutti la scuola, che avrebbe bisogno di una netta riforma e aggiornamento tout court, più vicina ai tempi e alle esigenze delle nuove generazioni di studenti ma anche di insegnanti».

Cosa farà Rossella Scribano da grande?
«Questa frase sarà molto probabilmente l’input per un tema che metterò giù in un libro, altro progetto che vorrei realizzare in futuro. Perché vedi, lungo la mia strada, ho conosciuto settantenni che nell’animo erano ventenni e proprio in quella fase della loro vita hanno ricominciato a vivere, secondo varie forme (frequentare l’università, viaggiare, relazionarsi con giovani, portare avanti la passione della vita). E quindi anche gli si potrebbe chiedere, cos’altro vuoi essere o fare da grande? Chi ci dice quando arriva questo “da grande” in fondo? Questo per me vuol dire, che si può sempre ricominciare. Che si può sempre ripartire da noi stessi e dalla versione più vera e felice di noi. Non ci sono limiti anagrafici. Ecco, potrei dire che da grande vorrei essere la versione più vicina al mio “se” più autentico, che sia tra cinque anni, un anno o un mese. Se dovessi invece parlarti dei miei obiettivi a lungo termine, come dicevo, diventare un punto di riferimento per le tematiche di cui ti ho parlato e che affronto quotidianamente, che penso siano importanti perché penso possano avere un impatto positivo sugli altri. Tra gli strumenti per realizzarlo, amo per esempio il public speaking, una forma di scambio e contaminazione con “l’altro” potentissima e che in queste occasioni assume una grande importanza; vorrei poter scambiare queste esperienze di condivisione con un pubblico sempre più vasto, un ritorno alla nostra umanità che supera l’ossessione per un involucro patinato e vuoto, che ha fatto danni, che ha stancato o semplicemente non basta più. Forse è il caso di lanciare questa provocazione… Mi piacerebbe realizzare un umanesimo digitale… Stay tuned dunque. Resto una siciliana e noi si sa se ci mettiamo in testa una cosa o un sogno, siamo testardi come i muli così iconici della nostra terra! E finché qualcosa in cui crediamo non si realizza, non molliamo. Ecco il mio personale messaggio e auguri per tutti: non mollate mai e credeteci sempre e fortemente».

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