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Intervista a Maria Elena Cosenza   Tutte le interviste tutte le interviste
Maria Elena CosenzaTelegiornaliste anno XVIII N. 8 (692) del 2 marzo 2022

Maria Elena Cosenza, in eterno movimento
di Giuseppe Bosso

Incontriamo questa settimana Maria Elena Cosenza, inviata di Videonews, Mediaset.

Parlaci del tuo lavoro. Come sei arrivata a Mediaset?
«Ciao a tutti! Per prima cosa grazie per la vostra attenzione. La mia passione per il giornalismo nasce nel 2009, con il terremoto che mise in ginocchio la mia amata città, L’Aquila. Immediatamente dopo quella terribile esperienza, tra il dolore, il senso di smarrimento e l’impotenza di una ragazza che aveva appena 18 anni mi chiesi: “Ma io cosa posso fare per la mia città?”. “Raccontare” fu la risposta. E lì iniziò il mio percorso in questo mondo, per me del tutto nuovo. Come accade a tutti coloro che iniziano a fare giornalismo in piccole realtà, iniziai anch’io in una televisione locale raccontando le vicende giudiziarie che seguivano il sisma, ovvero il processo alla Grandi Rischi e tutti i filoni collegati. Fu proprio in quella circostanza - che per me era una delle prime esperienze lavorative - che mi trovai a confrontarmi, nel mio piccolo, con chi questo mestiere lo maneggiava da anni e ne era padrone. Io amo definirmi una sognatrice. E in quel momento - che ricordo come fosse ieri - sognavo di poter lavorare, un giorno, per quelle grandi testate giornaliste che erano lì, vicino a me, in cerca di notizie. Solo qualche anno e diverse esperienze dopo riuscii finalmente a fare una sostituzione a Skytg24. Mi ricordo che ero talmente emozionata che avevo il terrore di fare qualunque cosa. Sentivo il peso della responsabilità di raccontare ad un pubblico ampio, a migliaia di persone. Firmare il mio primo servizio fu quella che io definisco “un’emozione da brividi”, bellissimo. Ed ora che ve lo sto raccontando ancora rivivo quel momento. Davvero intenso. Subito dopo l’esperienza in Sky sono arrivata a Mediaset. Un’altra emozione incredibile. Io, poi, sono appassionata di cronaca nera e qui riesco fortunatamente ad occuparmi anche di questo settore. Ma non solo. Mi piace, infatti, il cambiamento nel lavoro. Per cambiamento intendo l’evoluzione, la crescita professionale. Così in questo momento scrivo anche di politica su un quotidiano cartaceo che si chiama La Notizia. Mi piace fare tante cose insieme e non avere tempo libero. Amo questi ritmi intensi».

Come ha inciso nella tua vita professionale e non solo l’impatto che da ormai due anni ha avuto il covid nella vita di tutti noi?
«Sono esattamente due anni che viviamo in uno stato d’emergenza e per fortuna il premier Draghi ha annunciato la settimana scorsa che il 31 marzo questa condizione terminerà. Un momento molto atteso da tutti. Una condizione che ha inevitabilmente modificato le abitudini e lo stile di vita di ognuno di noi. Per quanto mi riguarda credo mi abbia fortificata. I primi mesi sono stati di puro terrore nell’andare a lavoro. Avevo paura del contatto umano. Riflettendoci ancora adesso, è sconcertante come le persone abbiano avuto paura di avvicinarsi ad amici e parenti che di solito si abbracciano e stringono forte. Devo anche ammettere che io non sono mai stata una persona molto affettuosa o che ama gli abbracci, però in quei primi mesi ammetto di averne sentita la mancanza. Nel lavoro è stata un’esperienza straziante quando comunicavamo quotidianamente il bollettino del Ministero della Salute. Rimanevo impressionata dal numero delle vittime di ogni giorno. Ho conservato il mio blocco appunti che utilizzavo per fare una stima settimanale. Sembrava una guerra. Terribile. Ma dalle esperienze più brutte dobbiamo trarre gli insegnamenti migliori. Mi auguro che d’ora in poi si punti a migliorare il nostro sistema sanitario garantendo le migliori cure possibili a tutti. L’auspicio è che non si ripeta mai più che i medici si trovino a scegliere chi dover curare».

Durante il lockdown e durante la lenta, faticosa, ripresa della normalità, quali sono stati i momenti, le interviste o i servizi realizzati che ti hanno maggiormente coinvolta?
«Ricordo che prima che il covid arrivasse in Italia, lo guardavamo - anche con un po’ di incredulità - in Cina. Feci la prima intro (che sarebbe il contributo di introduzione) con immagini molto forti: c’erano accumulati negli obitori centinai di corpi senza vita in poche ore. Ma non potevamo immaginare che da lì (era gennaio) in poco più di un mese, quella potesse diventare anche la nostra realtà. Ripensandoci ora, quel periodo fu lavorativamente davvero difficile, perché le informazioni sul covid erano poche e incerte. Non era un problema dei giornalisti, il punto era che si trattava di un virus totalmente nuovo anche per gli esperti e quindi totalmente sconosciuto. Per conoscere i virus ci vogliono mesi o anni e noi quel tempo non lo avevamo perché le vittime erano, giorno dopo giorno, migliaia. Bisognava stare attenti ad ogni parola perché la gente a casa era smarrita, spaventata e ci ascoltava con attenzione per cercare di capire cosa stava succedendo».

In precedenza sei stata anche impegnata all’ufficio stampa dell’ordine dei medici abruzzese: questa esperienza ti è stata utile in questi ultimi due anni in cui l’informazione si è dovuta occupare in particolar modo di argomenti legati al mondo della sanità?
«L’esperienza come ufficio stampa dell’Ordine dei medici è stata per me importantissima. Innanzitutto bisogna fare una distinzione tra informazione e comunicazione. Quando si lavora per gli uffici stampa si fa comunicazione, ci si rapporta con i colleghi della stampa e si cerca di veicolare nella maniera più chiara e semplice possibile le informazioni necessarie. Nel settore sanitario la questione è ancora più delicata perché si parla di salute. I medici hanno un loro modo di comunicare legato agli studi specifici fatti e può risultare difficile a chiunque non abbia una laurea in medicina comprendere cosa stanno dicendo. In quel caso, devo essere onesta, sono stata avvantaggiata dal fatto che tutta la mia famiglia lavora nell’ambito sanitario e quindi per me quel linguaggio specifico era più semplice. Certo è che quella esperienza mi è stata davvero utile negli ultimi due anni. Ogni volta che ho intervistato medici o virologi sentivo di parlare la stessa lingua».

Due anni fa era diffusa l’idea che questa brutta pagina ci avrebbe reso persone migliori. In questi giorni è scoppiata la guerra in Ucraina, la cronaca italiana ci racconta sempre di violenze, soprattutto sulle donne, e di risse e aggressioni in parallelo con la ripresa della movida: siamo stati eccessivamente ottimisti secondo te?
«Onestamente non credo di saper dire se siamo stati eccessivamente ottimisti. L’unica cosa che posso constatare è che negli ultimi mesi ci siamo trovati ad affrontare i temi più duri della nostra società. La violenza sulle donne purtroppo è tra quelli sempre attuali e con il lockdown i casi di violenza domestica sono aumentati, lo dicono i numeri. Le risse e le aggressioni con la ripresa della movida io li considero fenomeni diretta conseguenza di un trauma, soprattutto tra gli adolescenti. Nessuna giustificazione, dunque, ma ritengo necessario un percorso di assistenza psicologica per questi giovani che non si rendono conto di quanto sono violenti. In questo senso il bonus psicologo appena approvato lo ritengo fondamentale, anche se un po’ in ritardo rispetto ai due anni di pressione e di restrizioni. Per quanto riguarda il conflitto Russia-Ucraina, sono anni che i due Paesi hanno delle questioni irrisolte, mai mi sarei aspettata che si arrivasse a questo. È una guerra che porterà migliaia di morti proprio vicino a noi. La mia sensazione è che siamo smarriti: sosteniamo l’Ucraina ma abbiamo paura di essere troppo duri con la Russia e per di più non vedo in atto nessuna opera di mediazione. Temo, purtroppo, che questa vicenda non si risolverà a breve e che ne pagheremo le conseguenze tutti quanti per anni. C’è da ricordare, infatti, che il 40 per cento del gas che utilizziamo in Italia proviene proprio dalla Russia».

Molto attiva e seguita sui social, tra facebook e instagram: è anche un modo per creare un filo diretto con le persone che hai modo di intervistare o di incontrare nel tuo lavoro?
«La vita che vedete sui social è la mia vita privata, non tutto ovviamente. Ma c’è sicuramente poco del lavoro, se non cose che mi sono particolarmente a cuore. Trovate, infatti, il mio tempo libero, ciò che mi piace fare, le mie passioni, l’arte, lo sport. Non so se si vede ma amo viaggiare, condividere i miei momenti con i miei amici più cari, poche ma buone persone. Insomma in tre parole: amo la vita».

Dove vuole arrivare Maria Elena Cosenza?
«Questa è una domandona. Maria Elena non vuole arrivare e non vuole avere mai la sensazione di essere arrivata. Vuole vivere in eterno movimento. Non vuole accontentarsi e vorrebbe trovare ogni giorno, in ogni cosa, l’entusiasmo di una sfida nuova che la faccia sentire viva. Grazie per il tempo che mi avete dedicato. Stay tuned!».

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