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Intervista a Raffaella Romagnolo   Tutte le interviste tutte le interviste
Raffaella RomagnoloTelegiornaliste anno XVII N. 27 (677) del 13 ottobre 2021

Raffaella Romagnolo, Di luce propria
di Giuseppe Bosso

Incontriamo Raffaella Romagnolo, scrittrice, che ci racconta della sua ultima fatica letteraria, edita da Mondadori ed ambientata nell'Ottocento, ma molto attuale a ben vedere.

Raffaella, come nasce Di luce propria e da cosa ha tratto ispirazione?
«Dopo Destino, il mio precedente romanzo ambientato nella prima metà del Novecento, desideravo allargare lo sguardo alla storia nazionale immediatamente precedente. Uno dei miei personaggi, Domenico Leone, era stato uno dei Mille e, seguendo lui, leggendo insomma cose garibaldine, ho scoperto l’esistenza del fotografo Alessandro Pavia. Un patriota e, a modo suo, un visionario. Si era infatti messo in testa di ritrarre tutti i reduci dell’impresa raccogliendo tutte le loro immagini in un album. L’Album dei Mille, appunto. Pavia sperava di vendere il suo meraviglioso manufatto a tutti i comuni d’Italia, che immaginava accesi del suo stesso sacro fuoco patriottico. Ma scoprì a sue spese che l’Italia appena nata era un paese straccione, analfabeta, poco propenso a gettare denari nell’acquisto di un album fotografico. La parabola esistenziale di Alessandro Pavia, il suo entusiasmo e la sua inevitabile e dolorosa disillusione, sono state per me la via d’accesso a quel mondo postrisorgimentale che pomposamente arreda le nostre città con le sue piazze Mazzini e i suoi Garibaldi a cavallo, ma che è, nei fatti, un po’ dimenticato».

Possiamo definire Antonio, il protagonista, un personaggio che pur muovendosi in un contesto di due secoli fa un uomo del nostro tempo?
«Mi piace scrivere romanzi ambientati nel passato, che cerco di ricostruire come meglio posso. Ma sono anche consapevole che, quando si guarda indietro, lo si fa con gli occhi del presente, e con le domande che il presente ci pone. E quindi sì, anche Antonio Casagrande, il protagonista di Di luce propria, è un uomo indagato e raccontato a partire da uno sguardo, diciamo così, contemporaneo. Provo a fare un esempio. L’orfano Antonio Casagrande – che non ha idea di cosa sia una famiglia - impiega buona parte del libro a farsene una tutta sua. E finirà col mettere in pratica un’idea di paternità molto diversa da quella comune ai suoi tempi e decisamente più vicina al nostro modo di intendere il rapporto padre-figlio».

E anche l’Italia dell’epoca in cui è ambientata la sua opera, da poco unita ma tutt’altro che prospera e caratterizzata da profonde disuguaglianze sociali, la ritiene non molto diversa dal presente in cui viviamo?
«Senza negare le profonde diseguaglianze in cui viviamo, non si può non dire che l’Italia oggi, rispetto a quella di Antonio Casagrande, è un paese prospero e democratico. La percentuale di votanti nell’Italia postrisorgimentale era irrisoria. Una trasformazione che ci è costata lacrime e sangue. Penso ai fatti di Milano di fine secolo, le cannonate di Bava Beccaris sulla folla in piazza per il pane, non a caso al centro esatto del romanzo. Penso all’avvento del fascismo, cuore del mio romanzo precedente, Destino. Chi oggi parla di dittatura sanitaria dovrebbe riprendere in mano i libri di storia».

Quali sono stati finora i riscontri che ha avuto da parte dei lettori con cui, anche per ragioni legate al covid, ha avuto modo di interagire via social più che in incontri dal vivo, comunque fortunatamente ripresi a poco a poco?
«Vivo con meraviglia e curiosità la trasformazione a cui la pandemia ci ha spinto. Non ho potuto fare cose a cui ero abituata ma ho imparato a farne di nuove. Ho incontrato di persona lettori e lettrici solo durante l’estate, a oltre due mesi dall’uscita di Di luce propria. Con un’intensità che non sentivo da tempo, ho percepito la gioia di incontrarsi grazie a un romanzo. Che poi è quello che deve fare la letteratura, penso: metterci in contatto, indagare l’umanità che ci affratella».

Le sue opere sono state tradotte all’estero in varie lingue, tra cui tedesco e arabo. Pensa, simbolicamente, di poter ‘contaminare’ altre culture con le sue storie, anche reciprocamente?
«La traduzione è un’esperienza molto coinvolgente. Per la relazione con le traduttrici, innanzitutto. Le loro domande, la loro lettura attentissima, ti obbligano a rivedere il tuo testo da una prospettiva nuova, qualche volta spiazzante, sempre feconda. E poi per l’incontro con i lettori. Prima della pandemia ho girato soprattutto nei paesi di lingua tedesca. Nel 2019 ho presentato Destino a Berlino. Era il 25 aprile e mi sono trovata a raccontare dell’eccidio della Benedicta, cioè del più grande eccidio di partigiani della nostra storia nazionale. Un’emozione fortissima, una possibilità di cui sarò sempre grata all’editore tedesco e a i numerosi lettori presenti quel giorno».

Finito un libro, se ne inizia un altro: è già all’opera anche lei per il prossimo?
«Sto lavorando ancora ad un romanzo ancora legato al Borgo di Dentro, ambientazione di Destino e Di luce propria. La vicenda principale si svolge subito dopo la Seconda guerra mondiale, in piena ricostruzione. Sono all’inizio, intravedo la fisionomia dei personaggi, studio le loro emozioni e relazioni; è un momento che mi piace molto, quello dell’avvio di una nuova storia. Vivo, pulsante, carico di possibilità».

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