Telegiornaliste anno XVII N.
4 (654) del 3 febbraio 2021
Ilaria
Mura, ogni esperienza una crescita
di
Giuseppe Bosso
Incontriamo
Ilaria Mura,
inviata di molte trasmissioni Mediaset come
Quarto Grado e
Dritto e rovescio.
Gioie e dolori di una vita da inviata.
«Non ci sono né gioie né dolori. C'è soltanto passione... quando ti
prende la passione per "il mestieraccio", come lo definiva lo storico
direttore della
Nuova Sardegna, Aldo Cesaraccio, "quel sacro
fuoco" non ti lascia più. Vivi raccontando con l'occhio del cronista che
trasferisce al lettore o telespettatore, ciò che si raccoglie sul campo.
Confrontarsi con le fonti istituzionali, è di fondamentale importanza
per un'informazione corretta. Ritengo questo lavoro "una missione". Il
giornalista veicola informazioni e dovrebbe dare a chi legge e a chi
ascolta gli strumenti per farsi un'idea dell'evento. Determinante il
contributo dei colleghi operatori di ripresa, che attraverso le
immagini, vanno dritti al cuore di chi guarda. Alcune volte le immagini
sono così forti che rendono superfluo ogni commento. Ovviamente non può
esistere un'informazione priva di connotazione. È ovvio che il
giornalista, fatti salvi alcuni criteri oggettivi che rispettano i
tecnicismi base della notizia, non può prescindere dal suo vissuto per
raccontare un fatto. Io, per esempio, quando intervisto una persona
cerco di cogliere anche gli aspetti della personalità che vanno oltre il
fatto in sé. Non è compito mio "nostro" quello di accertare un reato,
semmai è quello di capire le ragioni e l'umanità sofferente che lo ha
generato. Noi facciamo i giornalisti, gli investigatori fanno le
indagini in un rapporto di reciproca collaborazione e rispetto dei
ruoli. Forse la fatica maggiore, ma preferisco dire impegno, sta nel
convincere le persone a parlare, ad aprirsi, a raccontarsi. Entrare
"nell'arena" mediatica, dove vieni giudicato per ogni tuo singolo
respiro non è facile e ammiro molto chi lo fa, perché dà a chi vuole
essere informato elementi in più per capire a costo di essere giudicato,
talvolta in modo molto duro, perché i processi sommari sono lo sport
preferito di tante persone. È facile giudicare comodamente seduti nel
salotto di casa o in uno studio televisivo, assai più difficile è saper
ascoltare e non farsi coinvolgere».
Come ha inciso il covid sul suo lavoro?
«Con le limitazioni con cui tutti abbiamo dovuto imparare a convivere,
dal distanziamento all’obbligo di indossare la mascherina. All’inizio è
stato difficoltoso, ma col tempo mi sono adeguata».
Nel corso della sua carriera ha dovuto spesso confrontarsi con
vicende di cronaca efferate: dal punto di vista emotivo come ha cercato
di affrontarle?
«La professione aiuta in questo, hai il dovere di mantenere la giusta
distanza anche se la sfera emotiva non puoi controllarla più di tanto.
Molti colleghi di nera col tempo, hanno cambiato settore. Io continuo...
gliel'ho detto, è una missione... Ci occupiamo di cronaca nera non per
curiosità o per morbosità, ma per dovere. Non si può tacere davanti ad
un crimine. La differenza la fai come lo racconti. I delitti che
colpiscono di più sono quelli che nascono dall'appartenente normalità.
Perché le coppie esplodono? Perché un familiare si trasforma nel
carnefice del proprio congiunto? Noi, col nostro lavoro, proviamo a
spiegarlo. Chi si occupa di cronaca nera, secondo me, riveste un ruolo
di ‘sentinella’ della società, quando, come le dicevo, ci si tiene alla
larga dalla morbosità».
L’esperienza che più l’ha soddisfatta e quella che non ripeterebbe.
«Cerco sempre di trovare in tutto quello che faccio un senso, ogni
esperienza è occasione di crescita professionale. Lavoro sempre allo
stesso modo, rispettando soprattutto le vittime e cercando di capire che
cosa può aver trasformato un uomo in un carnefice. Lo scopo è non fare
un racconto fine a sé stesso, ma interrogarsi ed evitare che si ricrei
l'humus in cui attecchiscano condotte delittuose. Non c'è un caso in
particolare che mi sia rimasto impresso. Alla fine resta un po' di
amarezza, soprattutto per le famiglie delle vittime e dei colpevoli,
colpite da un doppio dolore. Diciamo però che il colpevole ha una
chance, quella di ritornare ad essere una persona rispettabile, la
vittima no. Credo nella funzione rieducativa della pena e del valore che
nell'espiazione ha la solitudine».
Mamma e giornalista insieme, si può?
«Certo, ho due bambini molto vivaci che sanno che la mamma fa un lavoro
che la impegna lontano da casa a volte, e per ora, sembrano aver capito.
Spesso sono impegnata in collegamenti in diretta che si protraggono sino
alla mezzanotte. Sorridere e non prendersi troppo sul serio è anche
un'abitudine e noi, in famiglia, lo facciamo spesso (ride, ndr) una
volta mio figlio ha detto alla sua maestra “mamma lavora di notte”, una
frase che io ho ripreso e sottolineato. Lavoro anche di notte, proprio
come molti infermieri, medici e tutte quelle persone che con il loro
lavoro nelle ore in cui i più dormono, rendono un'alba migliore a tutti
noi. Fondamentale la figura del papà. C’è parità di ruoli. A volte tocca
a lui preparare da mangiare e mettere a letto i bambini. Li stiamo
crescendo con questi valori, la parità fra mamma e papà perché, in
futuro, non abbiano più senso le battaglie femministe. Poi, da donna, le
dico che ci tengo a mantenere quelle distinzioni caratteriali legate
alla figura materna e a quella paterna».