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Intervista a Emanuela Vernetti   Tutte le interviste tutte le interviste
Emanuela VernettiTelegiornaliste anno XVII N. 3 (653) del 27 gennaio 2021

Emanuela Vernetti, raccontare la vita reale
di Giuseppe Bosso

Incontriamo Emanuela Vernetti, inviata di L’aria che tira, programma di La 7 condotto da Myrta Merlino

Come sei arrivata nel team de L’aria che tira?
«La scuola di giornalismo di Napoli che ho frequentato ci ha dato la possibilità di venire a contatto con diverse realtà. Nel 2016 con La7 realizzai un video di prova su Massimo D’Alema, anche se poi col tempo mi sono specializzata principalmente nella cronaca».

Ludovica Ciriello, tua conterranea e collega, ha definito Myrta Merlino “una madre professionale, molto esigente”: condividi questa valutazione?
«Assolutamente sì. È una bella scuola questa trasmissione, Myrta è davvero attenta e puntuale, molto esigente. Soprattutto se si parla della “sua” Napoli».

Nella scorsa primavera sei stata protagonista tuo malgrado di una spiacevole situazione mentre stavi documentando una delle prime serate della movida napoletana dopo la fine del lockdown: è stata l’esperienza più dura per te?
«Ho provato una sensazione di straniamento quel giorno, non solo io, ma un po’ tutti percepivamo una sorta di astio nei confronti dei giornalisti come intera categoria. Come se il problema fossimo noi e il raccontare la pura e semplice cronaca. Peraltro in quel momento io non stavo certo realizzando un servizio sugli assembramenti, ma relativo al punto di vista degli esercenti alle prese con la ripartenza. Quindi la reazione delle persone che mi hanno aggredita è stata ancora più assurda, in un momento in cui, dopo quel terribile shock appena vissuto nei mesi precedenti, tutti dovevamo sentirci chiamati ad avere un comportamento ancora più responsabile. È un po’ ciò che è accaduto con tutte quelle categorie che sono in prima linea in questa pandemia, penso agli infermieri, che pure prima erano stati tanto celebrati, ora addirittura sono insultati sui social».

Quali prospettive hai avvertito per il nuovo anno, con le incertezze legate al virus e alla speranza rappresentata dal vaccino, nel corso degli ultimi mesi?
«Nella prima fase, durante la prima ondata, lo shock ci ha reso più responsabili, ci siamo sentiti investiti di una missione collettiva, abbiamo visto gli striscioni sui balconi, i canti di incoraggiamento, ora invece è il momento più difficile. Durante la seconda ondata la politica ha mostrato la sua inadeguatezza. E allora credo che sia emersa una profonda sfiducia da parte dei cittadini, dovuta anche a una stanchezza profonda: la sensazione che gli sforzi individuali sarebbero comunque stati vanificati da una classe dirigente che non riesce a infondere fiducia in quello che fa. E allora questa è la fase in cui emergono gli egoismi individuali ma anche la disperazione profonda. Il vaccino che doveva essere il simbolo della luce in fondo al tunnel da molti viene accolto con diffidenza. E un segnale importante questo. Spero comunque che sapremo affrontare con una forte tempra quello che verrà».

Ti sta stretto il ruolo di corrispondente?
«Assolutamente no. Non rinuncerei mai al contatto con la gente, al raccontare quello che succede per strada, nella vita reale. È quella la vera sfida per un giornalista. Essere un osservatore delle dinamiche macro sociali ma anche riuscire a darvi profondità, mettendo in evidenza i particolari, le storie dei singoli. Anche quelle più dolorose. E sono davvero riconoscente a tutti coloro che hanno avuto fiducia in me e si sono aperti raccontandomi la loro vita, consegnandomi il loro messaggio. È una bella responsabilità ma anche una grande occasione di crescita personale».

Immagine e professionalità possono coesistere?
«Assolutamente sì».

Chiudendo gli occhi, quale servizio o inchiesta sogni di realizzare in futuro?
«Un documentario, più che servizio, nel senso di andare ancora più a fondo alle notizie. Per quanto il nostro sia un programma di approfondimento, i servizi devono sempre “lottare” contro il tempo ed essere circoscritti a quei due minuti e mezzo, nei quali è davvero un’impresa titanica sintetizzare tutto quello ciò che si è visto e registrato. Avere più tempo, allora, è quello che sogno, per starci ancora più dentro le cose. Magari un reportage su Cuba o sul Venezuela. Mi sarebbe piaciuto per esempio seguire la vicenda della Open Arms un anno fa».

Emanuela Vernetti ha mai dovuto misurarsi con la parola bavaglio?
«Fortunatamente no, mai mi è capitato che mi venisse imposto di tralasciare un argomento a favore di un altro o di tacere su determinate notizie o darvi un determinato taglio. È fondamentale in questo lavoro, se non ci fosse libertà di raccontare, non ci sarebbero gli stimoli nel fare questo lavoro ed essere giornalisti nel vero senso della parola».

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