Telegiornaliste anno XVII N.
16 (666) del 5 maggio 2021
Chicca
Maralfa, raccontare un cinico
di
Vivian Chiribiri
Chicca Maralfa è nata e vive a Bari. Giornalista
professionista, è responsabile dell’ufficio stampa di
Unioncamere Puglia. Il suo nuovo romanzo
Il segreto di
Mr. Willer è un giallo dai toni noir che scompone gli
schemi e crea scompiglio.
Generalmente, uno dei primi approcci ad un romanzo ci
spinge a studiare le identità dei personaggi per cercare
quello che più ci somiglia, quello che più ci attira o
quello a cui più ci si affeziona. Qual è, se c'è, quello di
Chicca Maralfa?
«In tutta sincerità ho un approccio diverso e non costante
nella procedura. È come se fossi guidata da una mano
invisibile. Inizio a scrivere un romanzo se mi colpisce un
accadimento. Che può essere riconducibile a un personaggio o
a una vicenda. Di cronaca, storica, o semplicemente frutto
dell’osservazione di un comportamento altrui. Può anche
capitare che tutte queste cose si sovrappongano. Lo studio
delle identità è contestuale allo sviluppo del romanzo. A
seconda di come i personaggi si muovono nella vicenda sono
portata ad approfondire, in terza immersa o in prima
persona, le loro psicologie. Dai comportamenti ai loro
pensieri – solo pensati o rivelati – si delinea la loro
personalità, il loro carattere, la loro identità. Certo, è
inevitabile affezionarsi ai personaggi che più ci
assomigliano».
Parliamo di Mr. Willer, personaggio principale del
romanzo. Come lo vedono gli occhi di Chicca donna e come,
invece, gli occhi di Chicca autrice?
«Chicca Maralfa donna lo detesta. Non sopporto il suo modo
di trattare le donne, come si esprime, il linguaggio sempre
sopra le righe, come usa tutto e tutti per fare audience. È
un uomo molto cinico, stronzo senza mezzi termini, un
opportunista che non guarda oltre la punta del proprio naso.
Ma non posso non apprezzarne il talento artistico,
l’intelligenza fuori dal comune, l’intuito, la capacità di
linkare arte, musica, cultura, cronaca, storia, costume, per
sviluppare in pochissimo tempo un unico discorso, la
rappresentazione della realtà coerente con la sua narrazione
in streaming. Mi riferisco alla sincronia fra contenuto e
contenitore, significante e significato. Ci vuole talento,
non è cosa da poco e lui ne ha. Come autrice lo trovo un
personaggio incredibile, un demone 4.0 che mi attira
moltissimo, per effetto di una specie di sindrome di
Stoccolma, che è la stessa di cui soffrono i sui numerosi
follower. Odi et amo. Lui rappresenta l’azzardo, il gambler,
il giocatore che ti spiazza su un ipotetico tavolo da gioco,
l’imprevedibile, le tante zone d’ombra dell’animo di
ciascuno di noi, l’amatore totalizzante, l’audacia, la
genialità».
Spesso ci si batte sull'attendibilità del web, visto come
riflesso pallido di una realtà ben più viva e articolata.
Come mai hai scelto proprio l'etere come luogo dove
ambientare il romanzo? In che modo l'ambientazione ha
influenzato la stesura del romanzo?
«Perché ormai è la nostra realtà. Ne siamo immersi fino al
collo tutti, chi più chi meno. Vorremmo farne a meno ma non
possiamo, perché la comunicazione oggi – soprattutto dopo la
pandemia – è diventata dipendente dai social, che a loro
volta sono diventati l’unica occasione per avere notizie
immediate, anche di tanti amici, per scambiarsi opinioni, in
una parola sola per “sapere” e talvolta per “essere”. Posto
dunque sono. Esisto. Al di là del digital marketing, ormai
esploso in tanti ambiti, anche il live streaming è diventato
uno strumento potentissimo e l’ascesa di Twitch – 40milioni
di utenti nel 2021 secondo le previsioni – la dicono tutta,
secondo le proiezioni di eMarketer. Cito il Sole 24 ore: ‘a
fare la differenza è l’engagement di utenti e streamer, che
nel solo mese di gennaio 2021 hanno prodotto 2 miliardi di
ore di video. La gamification è nel linguaggio, col pubblico
che diventa co-host. Anche in questo caso la pubblicità,
estremamente profilata, si trasforma in strumento di
intrattenimento e modello interattivo... è la dittatura
della nuova video-generazione, che vuole partecipare allo
spot, non più soltanto ammirarlo. Willer è tutto questo. Ma
Il segreto di Mr. Willer è anche un noir, c’è il morto e c’è
l’indagine, più tradizionale, su un caso immerso in questo
mondo, fatto di haters e di fake news, in cui la verità è
più un’opinione che un fatto. C’è da immaginare la
difficoltà di un percorso investigativo in questo mondo,
fatto di telecamere, whatsapp e tanti altri luoghi di
scambio in cui cercare prove».
Quanto, secondo te, il web e, più in particolare, i
social influiscono sulle emozioni legate alla sfera della
nostra vita quotidiana e personale? Interferiscono in
qualche modo?
«Hanno il demerito di averci resi tutti un po’ più
narcisisti e dipendenti dal consenso dei like. E pure quello
di aver consegnato al successo figure improponibili,
autorizzando i più giovani a pensare che si possano fare
soldi e carriera in poco tempo, con una trovata di genio o
semplicemente mettendosi in vetrina con la propria
esistenza. Quindi non studiando per crearsi un futuro, una
specializzazione, una professionalità. Hanno esasperato i
toni – i cosiddetti leoni da tastiera – e amplificato i
doppi: ognuno si racconta o si rappresenta nel modo più
funzionale alla propria idea di business o semplicemente di
consenso. Hanno eroso il concetto di verità. È una realtà
che ha profondamente condizionato anche il mondo
dell’editoria, nella ricerca di autori preferibilmente con
molti follower. Non riesco a sentirmi in sintonia con queste
logiche. Io cerco di ‘usarli’ in modo coerente con il mio
modo di essere. Certo, cerco consenso anche io, faccio
promozione dei miei romanzi ma ad esempio non userei mai un
figlio in genere per far leva sui sentimenti e stimolare
commenti o like. Lo proteggerei e basta se gli/le voglio
bene. In questo sono molto giornalista, i minori non si
mostrano. Non consentirei mai a chi lo fa e a me non piace.
Questo credo sia l’unico problema dei social. Ti fa perdere
il senso del limite. Siamo tutti estranei e facciamo la
parte di sentirci grandi amici. Poi magari non ci salutiamo
per strada. Orrore. L’amicizia è altra cosa. I sentimenti
sono altra cosa. I figli sono altra cosa. Che poi i social
siano uno strumento di democrazia potentissimo è vero, senza
alcun dubbio. Molte battaglie di civiltà sono cominciate sui
social e finite in Parlamento. Ma vanno ‘usati’ per quello
che sono. E soprattutto collocati nella propria vita come
tali: strumenti».
Oltre ad essere scrittrice sei una giornalista. Che
consiglio daresti a chi vuole intraprendere la carriera
giornalistica in un mondo, ormai, 2.0?
«Direi prima di tutto di leggere tanto, libri e quotidiani
nel loro formato cartaceo o digitale (cioè il pdf del
quotidiano) per capire come una notizia viene recepita e
impaginata e commentata. Intendo proprio la posizione nella
pagina. Poi mi concentrerei sullo stile e sulla struttura
del pezzo: attacco e chiusura fondamentali. Se mi occupo di
un ufficio stampa guarderei le agenzie di stampa per capire
come scrivere un comunicato stampa che funzioni ed evitare
che il mio lavoro sia destinatario degli improperi di chi
deve ‘passarlo’ – chi sta dall’altra parte non ha tempo di
fare modifiche strutturali, cioè di andarsi a cercare la
notizia all’ultimo paragrafo. Anche perché se scrivo un
comunicato non so mai quanto spazio potranno riservarmi e
quindi devo predisporlo perché sia una irrinunziabile
‘breve’, cioè boxino, in cui nulla si perda della parte
essenziale del testo, in seguito di un taglio da parte del
redattore. Questo per cominciare. Il resto è solo competenza
tecnologica, quindi studiare i nuovi media e specializzarsi
su quelli. Ma l’ABC resta tradizionale. Se si riesce a fare
‘desk’ in un quotidiano o in una Tv è il massimo della
formazione possibile. Dopo si può fare tutto e bene. Poi
certo, la penna è importante. E quella fa parte del talento
di ciascuno, delle sensibilità, della capacità di guardare
le cose oltre la loro manifestazione formale. Una sorta di
terzo occhio insomma, che viene trasferito nello stile.
Conosco gente di grande cultura che ha letto migliaia di
libri e che scrive in modo elementare. Senza nessun guizzo.
Ma mica solo uno ne conosco, tanti. Poi magari c’è gente che
ha letto pochissimo ma che scrive da dio. Non c’è una
regola. Ci sei tu, come pensi, vivi, e scrivi».
Essendo anche una grande appassionata di musica rock,
immagina di poter trasformare il romanzo in un pezzo
musicale. Come lo immagineresti? A chi chiederesti di
suonarlo?
«Un pezzo che tenga insieme la storia del rock degli ultimi
trent’anni. Quindi una canzone dei The National, la mia band
preferita».