Telegiornaliste anno XVI N.
21 (638) del 9 settembre 2020
Valeria Cipolli, indole creativa
di
Tiziana Cazziero
Incontriamo Valeria Cipolli, poliedrica scrittrice (e non solo) che ci
racconta il suo percorso e le sue opere.
Ciao Valeria e grazie per il tuo tempo. Parlaci di te, quando ti sei
avvicinata alla tua arte?
«Ho un'indole artistica da quando ne ho memoria ma ho trovato un mio
stile e una mia sintesi personale, un modo di fare arte che mi
caratterizza, come spesso accade, in un periodo difficile della mia vita
quando come per compensazione, quasi a voler far luce nel buio che stavo
vivendo sono arrivate le donne bianche dei miei quadri, che ho
soprannominato
Fanusie prendendo in prestito la parola greca
fanòs che significa luminoso. Sono state provvidenziali e ancora
oggi sono rimaste protagoniste dei miei dipinti».
La crepa preziosa, un’opera singolare e particolare. Parlaci
di questo libro, cosa tratta?
«
La crepa preziosa è una silloge poetica che analizza le crepe e
le cicatrici dell'anima in un'ottica “orientale” e auspica di
valorizzarle una ad una con l'oro della poesia, prendendo spunto dal
rituale nipponico del
kintsugi che ripara le crepe del vasellame
con una speciale miscela dorata che le rende ancora più preziose. Ogni
sofferenza se vista dalla giusta prospettiva può essere ristrutturata,
l'imperfezione è perfezione, la mancanza è compresenza».
Dove trovi l’ispirazione per la tua creatività?
«Sono sempre stata una persona molto creativa, il mio immaginario è
fatto di cose nascoste, suggerite ma non mostrate, è fatto di lune,
ancestralità, mare, sciamani, surrealtà, urobori e si arricchisce
continuamente: un odore verde, un sapore d'infanzia, un ricordo negli
occhi, i colori delle spezie, una musica all'incontrario, gran parte
della mia ispirazione viene proprio dalle esperienze sensoriali, singole
o miscelate tra loro in modo paradossale e antitetico; anche e
soprattutto quelle che possono apparire le più banali mi schiudono mondi
immensi perché quando la surrealtà è il tuo modus vivendi, il modo con
cui ti approcci alla vita ogni piccola cosa diventa una piccola cosa
extra-ordinaria. Credo che la mia creatività derivi dal mio modo di
vedere surreale, alternativo, guardare la vita da una prospettiva non
ordinaria, quella generalmente meno battuta».
Quando ti sei avvicinata alla scrittura?
«Ero molto piccola. Mi è sempre piaciuto scrivere, ricordo che scrissi
il mio primo libricino a dieci anni (ben dieci pagine!) e lo regalai
alla mia maestra di italiano che ne fu entusiasta. Si intitolava
Salatlantide e raccontava la storia di un esserino minuscolo
proveniente dalla sommersa Atlantide che per sbaglio si ritrovava
catapultata nel mondo degli uomini. Da quel momento non ho più smesso».
Com'è avvenuto il tuo ingresso nel mondo editoriale. Parlaci di quel
momento, quando hai esordito con un tuo libro?
«È avvenuto nel 2017 quando ho vinto il Premio Nazionale di Poesia
Giovane Holden Edizioni, casa editrice viareggina, in seguito è stata
pubblicata la mia prima raccolta
Ti stappo gli occhi. È stato un
momento molto emozionante: vedere che l'emozione dei miei versi si era
trasformata in un sentimento comune, condiviso che era arrivato a
destinazione».
Nelle tue opere c’è un tema ricorrente? Dolore e voglia di rinascita
dalle proprie sofferenze?
«Nelle mie opere (e per opere intendo anche quelle pittoriche perché
amando la fusione dei linguaggi passo dall'uno all'altra come fossi una
“pendolare tra parole e colori”) è centrale la sinestesia e il paradosso
che si traduce anche nei quadri con dei paradossi visivi (pietre sospese
nel cielo, bicchieri pieni di notte). Il tema ricorrente di molte mie
poesie è la voglia di esplorare l'animo umano, la ricerca identitaria
più o meno portata a termine anche perché noi che dovremmo conoscerci
meglio di chiunque altro spesso siamo i prima a nasconderci e a
costruirci gabbie di autoinganno. Molte delle mie poesie sono tese
all'autoindagine e a trovare un cocktail giusto per rinascere dal
dolore».
Ti stappo gli occhi, un titolo particolare, che cosa vuole
significare? Parlaci di questo testo.
«Cosi particolare che quasi tutti sbagliano a scriverlo! Grazie, sono
contenta che lei l'abbia scritto correttamente! Quando ho scelto il
titolo o il titolo ha scelto me, avevo messo in conto che si sarebbe
prestato alle più disparate storpiature. Del resto questo accostamento è
inedito, chi penserebbe di primo acchito a stappare degli occhi? Con
questo titolo metaforico al di là dell'analogia di forma che accomuna a
livello morfologico gli occhi a dei tappi, ho voluto alludere a tutte
quelle situazioni in cui ci troviamo davanti a un'incrostazione
conoscitiva e comunicativa anche con noi stessi, una difficoltà nel
percepire i nostri reali desideri o le intenzioni degli altri. Chi di
voi ha mai sentito il bisogno di vedere dentro gli occhi di qualcuno,
darci anche solo una sbirciatina perché il riflesso esterno che
rimandano non vi basta? Stapparmi gli occhi è stata un'operazione
terapeutica e catartica di introspezione ma anche di conoscenza
dell'altro».
Cosa fai nella vita quando non scrivi?
«Ho una formazione classica e linguistica e quando non scrivo mi occupo
di lingue e traduzioni. Poi c'è la pittura a cui ho accennato prima che
mi sta dando molte soddisfazioni e che mi auguro possa trasformarsi in
un lavoro un giorno».
Hai altri progetti per il futuro con la scrittura?
«Non mi piace fare progetti di solito ma si, ho un progetto editoriale
linguistico che riguarda il Cimrico, più comunemente detto gallese, una
lingua celtica poco conosciuta che ho imparato molti anni fa e di cui ho
redatto una grammatica e che adesso è in cerca di un editore».
Cosa ha significato per te giungere alla pubblicazione delle tue
opere?
«È stata una grande soddisfazione personale! Poter prendere in mano il
testo che prima era solo nella mia mente, vederne le lettere stampate,
annusare la carta (eh sì, faccio parte di quella categoria di lettrici
che ama annusare i libri), vedere la copertina illustrata da me, è
un’emozione che si rinnova ogni volta che lo sfoglio. L'ultima raccolta
però l’ho dedicata a mia nonna che è mancata da poco: quando ho scritto
la dedica avevo le lacrime agli occhi; tutto il significato di
quest'ultimo libro per me sta in quelle tre parole».
Come classificheresti il genere dei tuoi libri?
«I miei libri sono sillogi poetiche. Amo moltissimo la poesia, è il
genere che prediligo sia nella lettura che nella scrittura. È la forma
che mi è più congeniale in assoluto perché mi permette di concentrare le
parole al massimo. Amo giocare con le parole, renderle ”secrezioni
emotive” come le definisco nei miei versi, coniarne di nuove, accostarle
ad altre afferenti a sensi diversi. La mia è una poesia sensoriale,
liquida e ricca di immagini, un po' “pittorica”, evocativa, che vuole
trasmettere emozioni fisiche, suggerire senza mostrare».
Perché un lettore dovrebbe leggere un tuo libro. Cosa potrebbe
trovare?
«La poesia oggi giorno è un genere poco battuto e proprio per questo gli
direi di dargli una chance. Si crede forse, erroneamente a mio avviso,
che la poesia richieda uno sforzo decifrativo maggiore da parte del
lettore rispetto alla narrativa perché è più criptica o più difficile, o
forse viene semplicemente associata a noiosi ricordi scolastici. In
realtà come diceva Neruda “una volta scritta la poesia non è più di chi
l 'ha scritta ma di chi la legge”, proprio per questo al lettore arriva
libera, scevra da condizionamenti. Credo che la poesia non vada “capita”
nel senso etimologico del termine (in latino il verbo
capio
significa prendere con la forza, afferrare) ma vada sentita. E cosa c'è
di più spontaneo e naturale del sentire? Del lasciarsi andare alla
consonanza/risonanza con chi l'ha scritta?».«La poesia oggi giorno è un
genere poco battuto e proprio per questo gli direi di dargli una chance.
Si crede forse, erroneamente a mio avviso, che la poesia richieda uno
sforzo decifrativo maggiore da parte del lettore rispetto alla narrativa
perché è più criptica o più difficile, o forse viene semplicemente
associata a noiosi ricordi scolastici. In realtà come diceva Neruda “una
volta scritta la poesia non è più di chi l 'ha scritta ma di chi la
legge”, proprio per questo al lettore arriva libera, scevra da
condizionamenti. Credo che la poesia non vada “capita” nel senso
etimologico del termine (in latino il verbo
capio significa
prendere con la forza, afferrare) ma vada sentita. E cosa c'è di più
spontaneo e naturale del sentire? Del lasciarsi andare alla
consonanza/risonanza con chi l'ha scritta?».