Telegiornaliste anno XVI N.
23 (640) del 23 settembre 2020
Francesca
Ronchin, i volti dell'immigrazione
di
Giuseppe Bosso
Una lunga esperienza statunitense e poi il ritorno in Italia, dove si è
alternata tra televisione e altri media, ma sempre alla ricerca della
verità soprattutto su temi come l'immigrazione. Incontriamo
Francesca Ronchin.
Come ha vissuto, da giornalista e da cittadina, i mesi del lockdown e
l’estate che abbiamo trascorso non senza polemiche e dubbi in vista
della ripresa di settembre?
«Durante i mesi del lockdown non mi sono mai fermata. Ho seguito
l’evoluzione dell’emergenza al Sud dove un’ondata di contagi avrebbe
potuto mettere a dura prova le strutture sanitarie. Ho seguito il tema
per
Non è L’Arena con frequenti viaggi settimanali Roma-Reggio
Calabria in macchina. Tutti quei chilometri di autostrada semi deserta
erano qualcosa di straniante e unico al tempo stesso ma la fascinazione
iniziale per la possibilità di attraversare e documentare un contesto al
limite del distopico è durata poco. Per i pochi alberghi aperti, le
troupe di giornalisti e i camionisti erano le uniche fonti di reddito.
Combattenti nel deserto e ti chiedevi come avrebbero fatto tutte le
altre attività a riprendere. Ti chiedevi se era proprio necessario
chiudere tutto. Penso che gli effetti della sofferenza economica li
vedremo d’ora in poi».
Al di là di quelli che potranno essere gli scenari futuri, da un
punto di vista psicologico quale ritiene sarà l’impatto che questo
periodo lascerà nella società e nelle persone?
«Come accennavo prima, non ho vissuto il lockdown sulla mia pelle. Sulla
base però di tante testimonianze raccolte, penso che su chi si è
trovato costretto tra le mura di casa, l’impatto è stato importante. La
mancanza di un orizzonte temporale certo in cui tutto questo sarebbe
finito ha fatto da detonatore di ansie e insicurezze più o meno intense
a seconda della personalità e della situazione lavorativa. Per precari e
disoccupati l’effetto è stato potenzialmente devastante. In alcuni casi
particolari però ho notato che il lockdown ha avuto l’effetto opposto,
per alcune persone afflitte da distimia e depressione è diventata una
comfort zone in cui ritrovarsi. In alcuni di questi casi, lo smart
working a casa ha dato dignità e senso ad una dimensione di clausura
mentale in cui già si erano immersi da tempo. Finalmente il loro ritiro
dal mondo aveva un senso. Il lockdown aveva resettato tutto, la realtà
esterna era stata messa improvvisamente in stand by, finalmente nessun
confronto con le vite degli altri, tutte relegate tra 4 mura domestiche.
Finita la bolla però, in parallelo con il ritorno della vita nelle
arterie del paese, ho notato che queste persone sono ripiombate nel
disagio. Nel male, il lockdown è stato un momento rivelatore per tutti,
a ognuno in modo diverso, ha fatto uscire allo scoperto i nostri
fantasmi, ma prima o poi ci si doveva fare i conti».
Si è occupata soprattutto di immigrazione con vari reportage e
inchieste, tema quanto mai all’ordine del giorno: come nasce questo suo
interesse?
«Ho iniziato ad appassionarmi al tema proprio durante il lavoro di
inviata ad
Agorà nel 2013, anno della grande tragedia del 3
ottobre a Lampedusa. Ho iniziato a seguire il tema a tutto tondo, dai
centri di accoglienza sparsi nella penisola ai soccorsi a bordo delle
motovedette della Guardia Costiera; è un tema complesso dotato di molte
facce: c’è il piano geopolitico, il tema della migrazione, quello
dell’accoglienza e dunque l’aspetto sociale e umano. Purtroppo sia
politica che media affrontano l’argomento spesso con lo spirito di una
tifoseria per cui si oscilla sempre tra due estremi, da un lato
l’ideologia dei porti aperti dall’altro quella dell’aiutiamoli a casa
loro. Entrambe le direzioni impediscono di raccontare la realtà, di
stare sui fatti. Il mio reportage a bordo della nave
Aquarius
realizzato nel 2017 per
Report aveva messo a nudo proprio questo.
Di fatto sono stata l’unica giornalista a bordo di una ONG che abbia
documentato quello che succedeva attorno alle operazioni di soccorso e
quindi la presenza di facilitatori, trafficanti. Nessuno delle decine di
giornalisti a bordo delle navi Ong aveva mai ripreso l’intera scena.
Perché? Questo è il motivo per cui mi interesso a questo tema, allargare
lo sguardo, guardare a quei pezzi di realtà esclusi dal paraocchi delle
ideologie».
L’immigrazione è un acceso tema di scontro che da anni caratterizza
il dibattito politico, non solo in Italia. Dal punto di vista della
percezione del cittadino, invece, cosa ha potuto riscontrare nel corso
delle inchieste che ha realizzato?
«Spesso il cittadino vive la frustrazione di non riuscire ad esprimere
difficoltà e problematiche senza essere considerato intollerante o
razzista. Il modo con cui certi politici fagocitano queste istanze, le
fanno proprie e le utilizzano come armi di consenso elettorale non
aiuta. Ma non aiuta neanche la stampa costretta a fare titoli d’impatto.
Il mio tentativo costante è cercare, nel mio piccolo, di permettere alla
realtà di farsi spazio tra la propaganda».
Dopo anni di lavoro “sul campo”, da inviata, non vorrebbe
sperimentare anche altre forme di giornalismo come la conduzione da
studio?
«Per natura amo lavorare direttamente sul campo, a contatto con le
persone e i luoghi dove avvengono le cose, vero però che ci sono varie
modalità di racconto quindi non la escludo».
Tra i colleghi con cui ha avuto modo di lavorare chi le ha trasmesso
di più?
«Sicuramente un pensiero speciale va ai conduttori con cui ho avuto la
fortuna di lavorare. Ognuno con le sue specificità mi ha fatto crescere
e ha avuto il raro dono di fare squadra. Da Gerardo Greco a Bruno Vespa,
da Sigfrido Ranucci a Massimo Giletti».
In prospettiva futura si vede sempre in Italia o potrebbe tentare
anche la strada estera?
«Sono stata in America 10 anni e a breve non prevedo un altro periodo
estero di lunga durata ma se c’è una cosa che ho imparato finora nella
vita è “mai dire mai».