Telegiornaliste anno XVI N.
16 (633) del 13 maggio 2020
Floriana
Bulfon, i Casamonica fiori del male
di
Giuseppe Bosso
Incontriamo la giornalista
Floriana Bulfon, inviata Rai e autrice di
Grande raccordo criminale e
Casamonica - La Storia segreta,
che l’hanno resa una delle più importanti giornaliste d’inchiesta sul
mondo della criminalità organizzata.
Come nasce il suo lavoro sul clan Casamonica e come si è documentata?
«Mi occupo di inchieste e criminalità organizzata e vivendo a Roma,
girando per i quartieri, ho sentito il bisogno di capire perché quello
che mi stava attorno. Tutti conoscevano i Casamonica ma c’era una grande
assuefazione al loro terrore, tanto che spesso si aveva il timore di
pronunciare il loro nome. Per tutti erano semplicemente “loro”. I
Casamonica erano lì, presenti ma da dimenticare. Bollati come
criminalità di strada stracciona e disorganizzata e invece dietro ai
lussi e a quello che veniva considerato folclore hanno costruito un
sistema criminale vincente che stravolge le regole della comune
convivenza. Hanno approfittato del vuoto delle istituzioni che hanno
abbandonato intere zone per crescere sulla pelle di una popolazione
sempre più annichilita e abbandonata a se stessa. Sono fiori del male
spuntati nel degrado fisico e morale della capitale. In pochi anni si
sono insediati e hanno costruito un sistema di potere. E questo si può
replicare anche altrove. Per questo ho sentito la necessità di mettere
in fila i pezzi, di capire come ci si possa assuefare alla violenza e ho
deciso di andare a vivere in uno dei quartieri dove esercitano un
controllo territoriale capillare, ho frequentato bar, ristoranti e
soprattutto palestre di pugilato. Sono entrata nelle loro regge con le
statue di Caio Giulio Cesare e i water d’oro. Una ricerca durata a
lungo, questo libro è il frutto di dieci anni di lavoro».
Alla luce delle gravi minacce che ha ricevuto, ha avuto qualche
ripensamento o si sente spronata a continuare?
«Convivo con la paura, certo, ma non mi lascio condizionare e continuo a
fare il mio lavoro. A consumare le suole delle scarpe e a illuminare i
loro covi. Le forze dell’ordine ci sono e con loro i cittadini che hanno
avuto il coraggio di denunciare, penso alla coppia di giovani baristi
rumeni, a Debora Cerreoni o a Simona, donne che hanno convissuto con i
membri della Famiglia e si sono ribellate per l’amore dei figli. Negli
ultimi anni il metodo investigativo a Roma è cambiato, la Procura di
Roma guidata da Giuseppe Pignatone ha realizzato una rivoluzione,
portando a termine inchieste fondamentali contro la corruzione e la
penetrazione mafiosa. Non servono eroi solitari, ma la ricostruzione di
una coscienza civile. Non mi sono mai pentita, però riflessioni ne
faccio. Ci sono i pericoli fisici, la paura per le persone che hai
accanto, e le pressioni si esplicano anche con altri metodi, penso alle
querele temerarie, ai risarcimenti milionari con cui chi ha potere tenta
di zittire. Significa che temono le inchieste, che dà fastidio se
sveliamo gli inganni a cui vorrebbero abituarci e questo mi dà la forza
di continuare. La consapevolezza che le inchieste servono».
Essere giornalista d’inchiesta nell’Italia di oggi si può?
«Il potere e le mafie non hanno mai amato le domande. Danno fastidio le
notizie, perché rappresentano spesso verità scomode. Nonostante la
tecnologia il nostro sguardo però spesso è come se si fosse dimezzato,
siamo più veloci ma restiamo in superficie. Ci vuole invece un feroce
attaccamento alla realtà. Viviamo in un paese in cui le mafie e la
corruzione dilagano eppure non le consideriamo un’emergenza. Fare
giornalismo d’inchiesta è scavare e non solo riassumere. Richiede tempo,
sacrifici e soldi. Purtroppo nel nostro Paese invece spesso si
preferisce l’opinione o la polemica. Sono convinta però che si possa e
si debba continuare a fare giornalismo investigativo e che
l’arricchimento e i risultati arrivino dal lavoro di squadra. Per questo
un metodo è quello di indagare con gruppi di giornalisti che provengono
da esperienze e paesi diversi».
Ritiene si possa, anche con il suo lavoro, spronare il cittadino a
reagire o avverte una sorta di assuefazione, per non dire rassegnazione,
a queste piaghe?
«Occorre continuare a raccontare perché le mafie non aspettano altro che
cali il silenzio per continuare a comandare. La legalità è una questione
concreta, ogni giorno ognuno di noi ha il potere di decidere da che
parte stare. Non servono eroi, servono cittadini che insieme dicano no,
che stiano accanto a chi denuncia. La democrazia è l’unico anticorpo
contro le mafie perché il potere delle mafie nasce dalla negazione dei
diritti. Spesso preferiamo l’indifferenza, bisogna invece essere
partigiani nel senso profondo della parola, prendere parte. Il lavoro
dei giornalisti è quello di informare e questo significa dare alle
persone la libertà di scegliere da che parte stare».
Negli ultimi anni tra le opere a cui ha collaborato la graphic novel
Il buio sul caso Cucchi: quali riscontri ha avuto dal pubblico e
dalle persone coinvolte in questa triste vicenda?
«La violenza e i depistaggi che hanno caratterizzato la vicenda di
Stefano Cucchi in Italia sono lo specchio di situazioni di abuso da
parte delle forze dell’ordine che spesso si concentrano su figure che
sono ritenute marginali, quelle rispetto alle quali non ci si aspetta
una critica dell’opinione pubblica. Bisognerebbe invece riflettere sul
fatto che potrebbe accadere a tutti noi. Se uno Stato abusa del potere
si incrina la fiducia dei cittadini. Se poi la verità viene tradita,
nascosta nel buio e deragliata per dieci anni in ballo non c’è solo la
ricerca doverosa delle responsabilità per la morte di un ragazzo, ma la
credibilità dell’intero sistema. Una democrazia tradita minacciata nelle
sue fondamenta, con il mancato rispetto delle regole da parte di chi ne
è custode. Quella della famiglia di Stefano è stata una battaglia
combattuta con coraggio per tutti noi ed è stata ottenuta con il
diritto, perché il processo bis e la sentenza hanno dimostrato che lo
Stato è più forte».
Avesse la possibilità di andare all’estero, lascerebbe l’Italia?
«Non lo escludo, ma oggi più che mai davanti a una situazione di così
grave emergenza, sento il dovere di contribuire nel mio piccolo a fare
informazione nel mio Paese. Tanto più che dopo il virus, la rinascita
metterà sul tavolo tanti fondi che servono alla gente ma fanno gola alle
mafie».
A un giovane che le dicesse di voler diventare giornalista
d’inchiesta, quale requisito consiglierebbe di avere anzitutto?
«Umiltà, curiosità e studio».