Telegiornaliste anno XIII N. 21 (531) del
14 giugno 2017
Eleonora Molisani, le mie storie del terzo
millennio
di
Tiziana Cazziero
Incontriamo Eleonora Molisani, una giornalista che ha seguito la
passione per la scrittura, rinunciando a un futuro da avvocato.
Ciao Eleonora e grazie per aver accettato il mio invito. Tra essere
avvocato e diventare giornalista ha vinto l’amore per la parola scritta:
come e quando hai capito che il tuo futuro era nel giornalismo?
«Ho studiato legge per seguire una sorta di “tradizione familiare” ma in
realtà ho sempre amato la lettura e la scrittura: leggo da sempre,
scrivo da sempre, e per di diventare giornalista professionista ho fatto
una lunga e dura gavetta; lavorando molto (per diverse testate italiane,
dai quotidiani, ai mensili, ai settimanali) e non smettendo mai di
studiare e di aggiornarmi, sono riuscita a raggiungere bei traguardi e
soddisfazioni in ambito professionale».
Oggi lavori come caposervizio per un settimanale del gruppo
Mondadori, Tu Style: quali difficoltà hai incontrato nel tuo
percorso, prima di raggiungere i risultati di oggi?
«La difficoltà iniziale di non avere avuto nessun aiuto, ma di aver
dovuto lottare da sola, basandomi solo sulla passione, sulla tenacia e
sulla professionalità; la difficoltà di essere una donna, specie
all’inizio, quando lavoravo per i quotidiani, dove da sempre vengono
preferiti e favoriti gli uomini. La difficoltà di dover lavorare in un
ambiente molto competitivo, come quello del giornalismo, dove non sempre
si respira un clima di solidarietà e dove non sempre le competenze
vengono riconosciute e premiate».
Nel 2014 hai pubblicato Il buco che ho nel cuore ha la tua forma:
come nasce la voglia di mettersi in gioco come scrittrice? Di che cosa
parla il libro?
«Il giornalista ha il compito di raccontare la realtà in modo obiettivo:
è la cassa di risonanza di chi non ha voce, è il filtro attraverso il
quale le notizie devono raggiungere il pubblico; scrivere un articolo
richiede una tecnica precisa, non sono concesse opinioni personali, non
c’è grande spazio per la creatività. Avevo voglia di scrivere qualcosa
che fosse mio, in cui ci fosse la mia sensibilità, il mio sguardo sul
mondo. Scrivere un libro (appoggiata da un editore che ha rispettato al
massimo il mio lavoro e la mia creatività) è stato un atto estremo di
libertà intellettuale; un’esperienza che mi ha arricchito moltissimo».
Racchiudi tanti racconti brevi in un unico libro: qual è l’elemento
comune che li unisce?
«Il sottotitolo è:
Storie del terzo millennio. Sono istantanee
della realtà dura e contraddittoria che ci circonda. Sono racconti brevi
che parlano di pedofili, di prostitute, di madri e padri degeneri, di
malattia, di tradimento, di handicap, di femminicidio, di social
network, di connessioni globali che amplificano la solitudine.
Raccontano di vittime che si trasformano in carnefici; di chi urla e di
chi non ha voce; di quelli che ci piace pensare siano sempre “gli
altri”, ma alla fine siamo noi senza orpelli. Noi, quando ci espropriano
delle certezze e dei totem: quando ci rubano la maschera e l’armatura;
quando ci squarciano il guscio e disperdono i cocci al vento."
Cosa significa essere una giornalista e com’è cambiato il mondo
editoriale negli ultimi anni? Qual è il tuo pensiero?
«I giornalisti devono diventare operatori della comunicazione completi.
Devono acquisire competenze nuove, al passo con i tempi e le nuove
possibilità dei media. Negli ultimi anni vado in giro nelle scuole a
spiegare come sono cambiati i codici della comunicazione, grazie alla
digitalizzazione e alla globalizzazione dei media: secondo me
bisognerebbe avere la lungimiranza di puntare su un nuovo modo di fare
informazione, valorizzare il canale digitale, aumentare le sinergie tra
i diversi media (che ormai sono quasi illimitate). Qualcuno ci sta
provando, molti rimangono al palo, puntando ancora troppo sul veicolo
cartaceo, che negli ultimi anni sta perdendo quota. Per quanto riguarda
essere giornalista professionista in un’epoca in cui tutti possono dire
la loro attraverso i blog, youtube, internet, senza una corretta
verifica delle fonti, senza seguire criteri etici e deontologici,
diventa sempre più difficile; e per non rischiare il tutto vale tutto,
andrebbe ripensata anche la professione, le sue regole, la formazione
dei futuri operatori dell’informazione».
Un ricordo bello e uno brutto nella tua esperienza di giornalista:
quali ci racconti?
«Il ricordo più bello è quando mi è stato affidato da un grande editore
un giornale come responsabile e contemporaneamente un altro come
caporedattore centrale; sono stati anni molto duri ma pieni di
soddisfazione: gestire contemporaneamente quei due incarichi, diversi
anche come tematiche, mi ha insegnato moltissimo, sia dal punto di vista
della gestione dei giornali, sia del rapporto con le persone. E mi ha
aiutato in seguito ad affrontare ambienti e situazioni diverse. La
situazione più spiacevole, invece, è stata quando - sei anni fa - ho
chiesto un demansionamento, per gravi motivi familiari, dalla qualifica
di caporedattore centrale a quella di caposervizio: da quel momento ho
guadagnato tempo e salute ma mi rendo conto che il bagaglio
professionale che ho accumulato in tanti anni di lavoro è andato un po’
sprecato».
Qual è il genere che più ami e verso il quale sei più affine come
giornalista? E come scrittrice quale sarà il tuo prossimo libro? Hai
qualcosa in programma?
«Come giornalista amo da sempre la cronaca, la politica, il costume, la
cultura. E attualmente ho la fortuna di occuparmi di libri, un settore
che amo moltissimo: come autrice - non sentendomi una vera “scrittrice”
- non so ancora se ci sarà un secondo libro. Ho avuto la soddisfazione
di vedere alcuni miei monologhi recitati a teatro quest’anno, ed è stata
un’esperienza che mi piacerebbe ripetere. Ho partecipato a una raccolta
di racconti brevi,
Pausa Caffè, uscita pochi mesi fa, e di certo
mi piacerebbe cimentarmi con un romanzo breve. Sarebbe una bella sfida».