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Intervista a Valeria Castellano   Tutte le interviste tutte le interviste
Valeria CastellanoTelegiornaliste anno XII N. 12 (485) del 6 aprile 2016

Valeria Castellano. L'Italia non è un Paese per giornalisti, ma ai giovani dico di non arrendersi!
di Giuseppe Bosso

Cosentina, laureata in giurisprudenza ma da sempre amante del giornalismo, incontriamo Valeria Castellano, attualmente in forza nella squadra di La Gabbia, programma condotto su La 7 da Gianluigi Paragone.


Raccontaci come si è sviluppata, finora, la tua carriera.
«Dopo la mia laurea in giurisprudenza e dopo alcuni anni negli studi legali, ho deciso di seguire la passione di una vita: il giornalismo. Ho frequentato la scuola dell'università Cattolica e poi, come tutti, ho fatto la mia gavetta. Ho iniziato la carriera a Telelombardia: ai tempi ero una semplice stagista, che lavorava per il tg; è stata un'esperienza altamente costruttiva: in quella redazione ho imparato tanto. Ricordo ancora il primo giorno di lavoro: mi è stata consegnata una telecamera e sono stata spedita a intervistare l'allora presidente della Provincia di Milano. Ero terrorizzata, ma alla fine ce l'ho fatta: ho portato a casa il servizio, così come si dice in gergo. Subito dopo sono passata a Mediaset. Inizialmente, sempre come stagista nella redazione di Quarto Grado. Qui ho incontrato Siria Magri, il capo progetto del programma, una giornalista che mi ha insegnato tanto. Dopo aver lavorato sei mesi in quella redazione, vengo assunta come inviata di Lucignolo. La mia carriera giornalistica inizia così».

Quando hai capito che il giornalismo sarebbe stata la tua strada?
«Io ho sempre saputo che il giornalismo era la mia strada: per me questo non è e non sarà mai un semplice lavoro, per me è una missione di vita. Io credo ancora nel potere dell'informazione. Penso che un popolo possa essere molto più pericoloso quando sa ciò che gli accade intorno, le decisioni che vengono prese dai potenti. In questo senso il ruolo dei giornalisti è fondamentale. La libertà di una società parte anche dalla conoscenza».

Qual è stato il lavoro che ti ha maggiormente soddisfatta e quale, invece, delusa?
«Nero d'Italia è stato il mio primo documentario: è un film-inchiesta sul petrolio al quale ho iniziato a lavorare quando ero ancora una studentessa nella scuola di giornalismo. Dovevamo realizzare un breve reportage per l'esame di video giornalismo e io ho deciso di parlare di trivelle; ai tempi sapevo poco di questo argomento, avevo letto che in Basilicata si produceva l'80%del petrolio italiano e così ho deciso di andare in quella terra e di vedere con i miei occhi le conseguenze delle estrazioni. Nel mio viaggio ho scoperto una realtà sconcertante, e così quel compito per la scuola è diventato un documentario al quale ho lavorato per un intero anno, autoproducendolo. La storia della Basilicata e i regali che il nostro Stato fa alle lobby del petrolio sono uno scandalo tutto italiano, una vicenda taciuta troppo a lungo. Nero d'Italia è stato un lavoro importante, sicuramente è stato il lavoro che mi ha aperto le porte di tante redazioni italiane e questo mi ha riempito di orgoglio e di onore. Per quanto riguarda, invece, le delusioni, la risposta è molto più complessa: in questi anni il mio rapporto con la televisione è stato altalenante. Da un lato, mi ha dato tante soddisfazioni; dall'altro, invece, mi spaventa moltissimo: i giornalisti hanno un potere enorme che va usato con estrema attenzione, soprattutto in periodi come questo, eppure talvolta alla tv piace lo shock, perché questo vuol dire aumentare l'auditel. Purtroppo, però, io penso che una buona informazione non debba sempre colpire lo stomaco dello spettatore, questo però è quasi inevitabile fin quando a governare sarà sempre la dura legge dell'auditel».

Come arrivi a La Gabbia?
«Sono arrivata a La Gabbia grazie a un collega, un giornalista che stimo molto, Alessio Lasta. Lui aveva visto il mio documentario, Nero d'Italia, e un giorno - quando si è liberato un posto - mi ha suggerito di mandare il curriculum. A quel punto ho fatto un colloquio, come per qualsiasi altro posto di lavoro: un mese dopo sono stata assunta».

Cliccando il tuo nome salta all'occhio un articolo piuttosto pesante nei tuoi confronti sul sito la Ribattuta: cosa ti ha suscitato?
«Ho visto quell'articolo molti mesi dopo la sua pubblicazione. Non mi ha sorpreso: la cattiveria non mi sorprende mai, tanto più al giorno d'oggi in cui chiunque - grazie ad internet - può permettersi di infangare il nome di una persona. L'articolo è stato pubblicato dopo una mia intervista a La zanzara su Radio 24, in cui ho parlato di Islam: il giorno dopo il primo sito a pubblicare un articolo è stato Dagospia. In quel caso era un articolo ironico, ma non offensivo. Pochi giorni dopo, esce questo secondo articolo: una copia del primo. Vuoi sapere come me ne accorgo? Perché la giornalista ha ripetuto un errore di battitura contenuto nel testo scritto da D'Agostino, e questo si commenta da sé. Mi spiego meglio: nell'intervista parlavo del divorzio nell'islam, e ho detto che il divorzio nell'islam esiste da quando esiste il Corano e cioè da quasi 1400 anni. Dagospia riprende la mia affermazione, ma fa un errore: mille diventa cento e, così, nell'articolo sembra che il Corano esista da soli 100 anni. Può capitare un errore di battitura, ma quello che non può capitare è che lo stesso errore venga copiato e ripetuto su un altro e diverso sito. Ebbene, nell'articolo pubblicato dal sito La Ribattuta, la giornalista ha fatto lo stesso identico errore di Dagospia. E questo ci fa capire il livello di approfondimento dell'articolo, una copia di un altro testo, condita con qualche cattiveria in più. Quando ho letto quelle parole, comunque, non ho neanche commentato: quello per me non è giornalismo; il giornalismo non può essere ridotto a un giudizio sulle scelte intime e spirituali di una persona; in quell'articolo chi scrive si spinge a dire che mi sono convertita all'Islam per farmi pubblicità, questo è semplicemente vergognoso».

L'Italia è un Paese per giornalisti?
«Purtroppo la risposta è no. Chi - come me - ha un lavoro in tv o in un giornale, è fortunato. Questo, però, è gravissimo: un Paese democratico ed evoluto, così come il nostro, dovrebbe dare spazio ai giovani per esprimersi. Invece, documentaristi e video-maker che, secondo me, sono l'anima del giornalismo d'avanguardia non hanno a disposizione fondi, né finanziamenti. Nel resto d'Europa la situazione è molto diversa; il nostro Paese - purtroppo - su questo tema è il fanalino di coda».

Parafrasando il titolo del programma, ti sei mai sentita giornalista in gabbia?
«No, io non mi sento in gabbia! Sono una persona molto forte e libera, nessuno potrà mai zittirmi: le gabbie fisiche e mentali non fanno per me».

Cosa farai da grande?
«Il mio sogno più grande è quello di riuscire un giorno a dedicarmi soltanto ai documentari indipendenti. Questi lavori ti danno la possibilità di seguire una storia per mesi, prima di raccontarla; ti danno la possibilità di ascoltare e mostrare i silenzi, le emozioni, senza avere quella fretta di andare in onda a cui purtroppo ci costringe la televisione».

Scrivi sul tuo sito che l'arte per te è messaggio: che messaggio speri di trasmettere con questa intervista?
«Il mio messaggio va ai più giovani, a loro voglio dire di avere forza e di combattere perché i sogni si avverano. Io spero che la mia storia possa essere un esempio e un motivo di forza per chiunque desideri ardentemente qualcosa nella vita. Non arrendetevi mai: questo è il mio messaggio».

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