
Telegiornaliste anno IX N. 
13 (357) del 1 aprile 2013
									
									
Enza 
				Alfano: nel mio libro tre generazioni a confronto 
				di 
Giuseppe Bosso 
				
				Tre donne, tre generazioni diverse che però sono unite, oltre 
				che da un legame di sangue, dalla lotta disperata contro la 
				follia e la solitudine che inesorabilmente colpiscono insieme. 
				In sintesi questo il leit-motiv di 
L’unica ragione, 
				quarta fatica letteraria di Enza Alfano, scrittrice e insegnante 
				– oltre che giornalista pubblicista – napoletana. 
				
				
Cosa hai cercato di trasmettere nel romanzo? 
				«Ho cercato di esprimere la voce interiore di chi è alla ricerca 
				di un rapporto equilibrato con la realtà e non riesce a farsi 
				ascoltare; non è facile, soprattutto oggi. Le tre donne 
				protagoniste sono una nonna, una madre e una bambina che, 
				ciascuna nel suo momento particolare, si trovano a combattere 
				questa battaglia da sole; non si ha consapevolezza del degrado 
				che la pazzia può suscitare, si tende a fare finta di niente di 
				fronte a queste situazioni, a voltarsi dall’altra parte come se 
				niente fosse. La malattia è una piaga dei nostri giorni ed è il 
				tema che ho cercato di affrontare in questo libro. 
				
				
A cosa ti sei ispirata? 
				«In un primo momento avevo pensato di dare ad uno stesso 
				personaggio tre volti diversi, ma a poco a poco che sviluppavo 
				l’idea sono passata a parlare di queste tre diverse generazioni 
				che però, come ti dicevo, sono annodate tra loro per la mancanza 
				d’amore che segna le loro vite, rendendole incapaci di costruire 
				un rapporto duraturo e di dialogare con gli altri. La prima 
				protagonista è un’orfana di guerra, affidata ad uno zio, che 
				sviluppa una forte aridità proprio per la mancanza dell’amore 
				materno, il primo e vero amore che tutti dovremmo conoscere; si 
				sposa e nasce la figlia, secondo personaggio-chiave del libro, 
				che vede la sua vita segnata da una malattia che molto 
				probabilmente è facilitata da questo malessere che deve 
				affrontare fin dall’infanzia. Infine c’è Ines, la bambina, che 
				sembrerebbe l’unica destinata a salvarsi, ma non è detto che sia 
				proprio così, come il lettore potrà constatare». 
				
				
Quali difficoltà hai incontrato nella diffusione? 
				«Non avere visibilità agli occhi dei grandi editori, anzitutto. 
				Chi entra in libreria deve in qualche modo essere attratto dalla 
				tua opera, a volte ciò è dovuto per la copertina, per 
				un’immagine che cattura l’attenzione. E una scarsa divulgazione 
				porta anche a scarsa attenzione da parte della critica. Scrivere 
				è una grande passione per me, e vivo talvolta con disperazione 
				il non riuscire a completare una pagina o a non svilupparla come 
				vorrei. Credo di avere molte storie da raccontare, e spero, nel 
				mio piccolo, di richiamare l’attenzione su interrogativi legati 
				alla società dei nostri giorni, dove si tende ad emarginare le 
				sofferenze come la malattia, appunto, e non si comprende di come 
				questa sofferenza si estenda anche ai nostri cari». 
				
				
I tuoi familiari ti hanno sostenuto in questa tua passione?
				
				«Sì, con attenzione e curiosità. E hanno capito come questa 
				passione necessiti di essere alimentata da una continua lettura, 
				per me un appuntamento quotidiano che deve rinnovarsi giorno per 
				giorno». 
				
				
Sei anche insegnante: riesci a invogliare i tuoi allievi alla 
				lettura con la tua attività di scrittrice? 
				«Certo, ed è forse l’aspetto più bello. Ho sviluppato anche un 
				laboratorio di scrittura con loro, e gli ho dato modo di 
				partecipare, con brillanti risultati, anche a concorsi 
				letterari. La scuola tende a imporre la lettura, e non lo 
				ritengo un bene questo». 
				
				
In uno dei tuoi romanzi, Fiction, hai affrontato il 
				tema del giornalismo dei nostri giorni. 
				«Sì. Il protagonista è un giovane precario che a un certo punto 
				molla la professione e si ritrova, dapprima con diffidenza, 
				catapultato nell’insegnamento in una scuola di periferia. Ho 
				pensato molto ai miei studenti nella stesura del libro, in cui 
				anzitutto viene affrontato il problema del precariato di un 
				quarantenne, che è una condizione sfortunatamente molto diffusa 
				al giorno d’oggi, e poi un delitto di camorra che coinvolge 
				tutti i protagonisti, senza dimenticare anche le storie dei 
				ragazzi, con i loro amori e le loro vicende quotidiane. Ho 
				cercato soprattutto di parlare della mia città con un tono 
				diverso da quello che solitamente le viene riservato».