Telegiornaliste
anno II N. 30 (62) del 31 luglio 2006
Livia Turco, il ministro che fa notizia di
Erica Savazzi
Da pochi mesi ministro della Salute,
Livia Turco è una delle sei donne che compongono il governo Prodi. A
Telegiornaliste parla di diritto alla salute, di terapia del dolore e delle
sue passioni. E naturalmente di donne.
Le donne in politica hanno qualcosa in più – o in meno –
dei loro colleghi uomini?
«Le qualità risiedono in entrambi i sessi, anche se a noi
donne vanno senz’altro riconosciuti una sensibilità
e un approccio più concreto alle esigenze delle
persone. Piuttosto bisogna creare tutti insieme, uomini e donne, le condizioni
per cui alle donne, che rappresentano la maggior parte della popolazione del
nostro Paese, sia facilitata la partecipazione alla vita politica in
tutte le sue forme di rappresentanza politico-istituzionale, anche - perché no -
attraverso lo strumento delle quote».
Già nei primi giorni dopo la sua nomina lei ha posto
l’accento sulla salute della donna e sulla tematica del dolore, dal parto con
l’epidurale, all’aborto tramite la pillola RU486.
«Ho voluto ribadire sin dalle prime dichiarazioni, ma
soprattutto con le prime azioni come ministro della Salute, il mio impegno per
modificare quella cultura del dolore che caratterizza momenti
determinanti della vita delle persone e in particolare la vita delle donne. Nel
programma di governo che ho chiamato
Un New deal della salute ho voluto indicare per le tematiche relative al
parto, alla nascita e alla vita del bambino nei suoi primi mesi di vita, gli
obiettivi che metteremo in atto come ministero, in accordo con le Regioni, per
riportare alla naturalità, nella qualità e nell’efficienza, questi momenti. Un
programma che ho voluto tradurre in materia legislativa con il
Disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il 14 luglio. Uno
strumento al servizio delle donne. Per quanto riguarda la RU486 mi sono limitata
a ribadire che la sperimentazione in atto è lecita, come del resto già
riconosciuto dal precedente governo nell’ottobre 2005».
D'altra parte la lotta al dolore nelle culture nordiche è
data come scontata, in Italia invece è percepita come elemento di secondo piano
perfino nella cura dei malati terminali.
«Nel nostro Paese, per ragioni che fanno parte della nostra
storia e della nostra cultura, permane una forte resistenza all’uso di sostanze
che possono alleviare la sofferenza anche dei malati terminali. Sono temi
delicati, che richiedono la massima disponibilità al confronto e al dialogo.
I provvedimenti che si sono succeduti sino ad oggi, infatti,
non hanno ancora prodotto quel salto di qualità atteso e utile. Si registra una
carenza evidente di unità di terapia del dolore, si fa ancora poca assistenza
domiciliare integrata, anche in ambito oncologico, e il numero di posti letto
degli hospice è distante dalla copertura del fabbisogno potenziale, con
evidenti disomogeneità tra Nord e Sud del Paese. Si presta poca attenzione al
dolore dei bambini, come è dimostrato anche dalla scarsità di centri e
servizi per la terapia del dolore in età pediatrica.
In questo contesto riteniamo urgente sburocratizzare e
semplificare ulteriormente la prescrizione dei farmaci oppiacei, sostenere e
promuovere, d'intesa con le Regioni, l'applicazione delle linee guida di
Ospedale senza dolore, nonché rendere obbligatorio, su questi temi,
l'aggiornamento degli operatori, tra cui i medici di medicina generale».
Il professor Umberto Veronesi propone l’adozione del
testamento biologico in modo che le scelte del malato sulle cure siano chiare.
«Il testamento biologico rientra tra i temi da affrontare.
Il programma dell’Unione prevede, infatti, un apposito paragrafo dedicato alla
tutela di chi soffre. Lo scopo è costruire un sistema di garanzie per la persona
malata, che abbia come premessa il consenso informato e l’autodeterminazione
del paziente garantendo a tutti i cittadini le cure
palliative e tutte le terapie del dolore disponibili. Il rifiuto
dell’accanimento terapeutico e del dolore non necessario rientrano sicuramente
tra queste garanzie».
L’anno scorso si è parlato di “emergenza sanitaria” al
Sud. Si sta facendo qualcosa o si aspetterà la prossima emergenza per agire?
«Ho avuto modo di conoscere e approfondire la condizione
delle strutture socio sanitarie del nostro Mezzogiorno nei numerosi viaggi,
fatti già prima di diventare ministro insieme a Rosi Bindi e Massimo D’Alema. Ne
è scaturita una proposta di legge, dettagliata anche nella parte finanziaria,
per un risanamento della sanità nel Mezzogiorno. Il governo precedente ha fatto
sì che rimanesse lettera morta e il problema è rimasto irrisolto. Questa
situazione non è più tollerabile. Questo governo ha piena consapevolezza delle
differenze ancora esistenti nell’accesso alle cure tra le regioni del Centro -
Nord e quelle del Sud d’Italia e ciò ci spinge ad affrontare con determinazione
il problema. Occorre innanzitutto intervenire per valorizzare le eccellenze che
vi sono, e sono tante, e correggere, assumendo scelte condivise con le
Regioni, le lacune strutturali alla base di questa situazione. L'autosufficienza
sanitaria del Sud è un obiettivo importante da raggiungere, sia per ridurre
i flussi migratori verso il Centro - Nord che per favorire la spendibilità di
tutte le risorse del Mezzogiorno».
Lei ha proposto una modifica alla Legge Fini - Giovanardi
sulla lotta alle droghe. A parte la questione delle quantità consentite, cosa
pensa si possa fare per contrastare spaccio e consumo di sostanze stupefacenti?
«Educare e non punire è stato il principio ispiratore
dei primi cinque anni di governo del centrosinistra e in qualità di ministro del
Welfare ho potuto toccare con mano l’efficacia di tale strategia e a questa
vogliamo tornare rapidamente.
Con la legge Fini - Giovanardi il precedente governo ha
proposto un approccio punitivo e repressivo tutto rivolto nei confronti del
semplice consumatore rendendo problematica ogni azione di cura e reinserimento
della persona con problemi di abuso e dipendenza.
Criminalizzare il consumo e la tossicodipendenza porta a
disconoscere non solo la diversa pericolosità delle singole sostanze, ma anche a
non tener conto di modalità d’uso, dei luoghi di consumo, del significato
simbolico che ogni individuo dà all’uso di una droga; vuol dire non riconoscere
che la tossicodipendenza è una forma di disagio - malattia complessa, che
può essere risolta con la cura e l’impegno del sociale e non con la
repressione».
L’età media dei parlamentari in Italia è molto elevata e
sono pochi i giovani che si interessano di politica.
«L’osservazione è pertinente specialmente se ci apriamo ad
un confronto con gli altri Paesi europei. Tuttavia ritengo che questi ultimi
appuntamenti elettorali abbiano evidenziato una maggiore partecipazione dei
giovani
alla vita politica del Paese. Un segnale che si è
manifestato già nel voto per le primarie dell’Ulivo. Molti i giovani che hanno
sentito fortemente la possibilità di essere protagonisti di una scelta
determinante per il loro futuro. Giovani che hanno dato fiducia alla possibilità
di un cambiamento che dovrà tradursi presto in impegni importanti del nuovo
governo nella scuola, nelle università, nella ricerca, nel lavoro, nella
famiglia e, perché no, anche nella salute. Sono convinta che se ricambieremo
quella fiducia con la concretezza della nostra azione e con la fiducia nelle
loro capacità, creando insieme le condizioni per svilupparle al massimo,
avremo presto una nuova e giovane classe politica».
Quali sono le sue passioni oltre alla politica?
«Buone letture e lunghe camminate».
Grazie della disponibilità e auguri di buon lavoro da parte
di Telegiornaliste e dei suoi lettori.