Telegiornaliste
anno III N. 10 (88) del 12 marzo 2007
Prisca Taruffi, campionessa tra i giornalisti
di Giuseppe Bosso
Incontriamo questa settimana, per la gioia degli appassionati di automobilismo,
Prisca Taruffi, opinionista della
trasmissione tv Pole Position e pilota di rally.
Prisca, è stato più difficile come donna o come figlia di un campione delle
quattro ruote inserirsi nel mondo del giornalismo?
«Il giornalismo è una strada che ho seguito parallelamente alla mia carriera di
pilota, e posso dire che avere un padre come il mio è stato un buon biglietto da
visita, che però, ovviamente, non è bastato da sé; le carriere, in ogni settore,
si costruiscono con la professionalità giorno per giorno».
La sua collega,
Federica Balestrieri, in un'intervista a Telegiornaliste ha definito
quello dei motori un ambiente «particolarmente maschilista», in cui alcune donne
«pur di arrivare si prestano a comportamenti non professionali». Condivide
queste affermazioni alla luce della sua esperienza?
«Se intende il mondo dei motori dal punto di vista sportivo, ci sono sicuramente
ancora molti pregiudizi verso le donne, che come piloti vengono ancora sfruttate
più che altro per finalità di sponsorizzazione. Per fortuna vedo emergere
talenti come
Danica Patrick, che stanno dimostrando di valere molto sul piano agonistico.
Da un punto di vista dirigenziale, è ancora molto difficile che ad una donna
vengano affidati incarichi di rilievo, ma per il resto non condivido molto
questa affermazione».
Oltre che giornalista lei è anche campionessa di rally; quali differenze
riscontra rispetto alla F1 e perché, secondo lei, non riscuote la stessa grande
attenzione da parte dei media?
«I rally hanno un grande seguito di pubblico, anche quelli che si svolgono molto
lontano, nei deserti (e io partecipo ogni anno a questo tipo di competizione);
il problema è che non riscuotono, dal punto di vista mediatico, inteso come
seguito da parte dei mezzi di comunicazione, lo stesso interesse che suscita la
Formula 1».
La F1 appassiona da sempre gli italiani, almeno quanto il calcio; rispetto
agli anni in cui suo padre ne era protagonista com’è cambiata, non solo dal
punto di vista tecnologico?
«Moltissimo: le corse automobilistiche negli anni di mio padre erano molto più
pericolose di oggi, in quanto non esistevano ancora quei meccanismi di sicurezza
che l’industria dei motori ha saputo sviluppare nel tempo. Si può dire che i
piloti di allora sperimentavano sulla pelle i risultati degli studi
aerodinamici. Oltre a questo (ma non solo nella Formula 1), si è sviluppato un
professionismo. E un giro di denaro impensabile per quel periodo».
Quali sono, tra i piloti in attività, quelli che ammira, e quali no?
«Da un punto di vista tecnico sicuramente ammiro molto Schumacher. Devo però
confessarle che mi rammarica molto non vedere più in gara due personaggi come
Montoya e Jacques Villeneuve, che ammiravo molto per la loro personalità e il
loro carattere forte, doti che sinceramente non riscontro molto nei piloti
attualmente in attività».
Ritiene ipoteticamente realizzabile un campionato del mondo di F1 riservato a
piloti donne?
«E’ una cosa che mi piacerebbe molto, o per lo meno, se non un campionato vero e
proprio, vedere una donna in gara ufficialmente. Al momento, purtroppo, non ce
ne sono molte, di piloti che potrebbero sostenere da un punto di vista
psicofisico il ritmo provocato dalle gare, anche se in questo la tecnologia
moderna ha reso meno faticoso lo sforzo del pilota».
L’apertura del Mondiale a nuovi circuiti come Cina e Bahrein cosa può
rappresentare per il futuro di uno sport così seguito?
«E’ una cosa molto positiva sia per l’allargamento degli orizzonti sia per la
struttura di queste piste, nelle quali il sorpasso tra i piloti risulta più
agevolato e di conseguenza lo spettacolo aumenta».
Il tema della sicurezza stradale, anche per via dei fatti spesso portati alla
ribalta nella cronaca nera, è quantomai attuale: ritiene che tra i doveri dei
protagonisti delle quattro ruote ci sia anche quello di fornire al pubblico un
messaggio responsabilizzante in questo senso?
«Secondo me è un dovere prima ancora dello Stato che dei protagonisti. E da
questo punto di vista devo dire che non si fa mai abbastanza; io stessa ho
tenuto dei corsi di guida finanziati da strutture private, in cui ho cercato
sempre di mettere l'accento proprio sul rispetto delle misure di sicurezza. Per
contro, dalle istituzioni pubbliche a cui mi sono rivolta, non ho trovato mai
risposte positive a fronte di queste richieste».
Esiste un’associazione, di cui anche lei fa parte, intitolata a suo padre. Lo
sport in generale vive anni travagliati, in cui spesso emergono scandali:
l’esempio del passato può essere d’aiuto nel recuperare quei valori di lealtà e
correttezza che spesso vengono disattesi?
«In realtà l'associazione
di cui parla è diretta a conservare nella gente il ricordo di mio padre.
Sicuramente, comunque, c’è molto da fare anche da questo punto di vista, per
recuperare una cultura dello sport che i giovani sembrano avere perduto di
fronte all’inseguimento sfrenato del successo e della ricchezza».