Telegiornaliste
anno III N. 19 (97) del 14 maggio 2007
Il romanziere Sottile
di Silvia Grassetti
Forse non ve l'aspettavate, ma tra i talenti di
Salvo Sottile c'è quello di romanziere.
Il 15 maggio esce Maqeda: la prima storia che Salvo
ci racconta non nelle vesti di giornalista, ma in quelle di scrittore.
Maqeda sta al centro della mafia come via Maqueda
sta al centro di Palermo?
«Maqeda è la metafora di una salvezza possibile. Il
protagonista del romanzo vive di esagerazioni, nel bene e nel male. E la sua
vita corre sul filo di un pericoloso gioco d’azzardo, una partita a poker con la
mafia che gli chiederà di mettere sul piatto i suoi affetti più cari. Maqeda
dovrà risolvere un giallo, ha subito la fascinazione della ricchezza facile, ha
sentito l’ebbrezza di appartenere a un mondo - quello mafioso - che gli chiederà
di superare prove sempre più difficili.
Ma quando capirà di essere caduto in trappola, prigioniero
di una ragnatela di inganni, l'unica via di salvezza per lui resterà la Sicilia,
la sacralità della terra, con i suoi profumi, i suoi sapori. Il protagonista
potrebbe diventare un killer o un boss mafioso: ha tutti i presupposti per
riuscirci. Invece, grazie al carcere, diventa un grande cuoco. Uno chef che
all'apice del successo, una sera riceve una telefonata e si incammina in un
doloroso viaggio nella memoria, un viaggio alla ricerca di se stesso».
Il tuo protagonista, Filippo Maqeda, quali punti di
contatto ha con la tua personalità, le tue esperienze?
«Dipende dai casi. In certi momenti tanti, in altri nessuno.
Quando Maqeda è attratto dalla mafia, dai soldi facili, dall’idea di poter
avere, grazie alla prevaricazione, il mondo dentro il palmo della sua mano, beh,
quella è una storia lontana anni luce dalla mia. Il mondo di Cosa Nostra non mi
ha mai attratto, l’ho solo raccontato e a talvolta con qualche difficoltà.
In altre pagine del libro invece Filippo Maqeda mi somiglia
molto. Il protagonista a un certo punto - in uno dei mille copioni che si trova
a interpretare - diventa un fotoreporter di cronaca nera. Deve lavorare per il
giornale
L’ora – il giornale in cui cominciò mio padre - in
una Palermo difficile, quella della fine degli anni ’70, una città tenuta ancora
una volta in ostaggio da una delle tante guerre di mafia. Filippo vuole
diventare il numero uno dei fotografi, è bravo ma esagera. In questo caso ho
pescato dalla mia memoria».
La realtà della mafia la conosci fin troppo bene: da tuo
padre, Giuseppe, giornalista de L'Ora insieme a Tullio De Mauro, ai tuoi
primi servizi per Mediaset nei giorni delle stragi di Falcone e Borsellino...
«Maqeda racconta - a volte senza che io me ne accorga
- certi miei ricordi d'infanzia, soprattutto la difficoltà di muovere i primi
passi nel mestiere di giornalista, un mestiere che non fa sconti a nessuno e che
ho iniziato a 18 anni in una città difficile, che doveva fare i conti con la
morte di Falcone e Borsellino, due eroi.
Molti aneddoti in quella parte del libro – alcuni tristi,
alcuni molto divertenti, alcuni di sapore agrodolce - li ho vissuti davvero e li
ho riadattati per essere vissuti vent’anni prima. Questo libro mi ha fatto
capire quanto amo Palermo. Se dovessi parlare di un rimpianto è quello di
andarci molto poco».
Come definiresti il tuo romanzo: ottimista, fatalista,
cinico?
«Lo definirei ottimista, perché la morale di Maqeda è
che si può cambiare, che un'altra vita è possibile dopo il dolore, dopo il
sospetto, perfino dopo un’ingiustizia. Per scrivere questa storia mi sono
ispirato anche ai racconti del mio amico Filippo La Mantia. Negli anni ’80 era
finito in carcere con l’accusa di essere un killer di mafia: oggi è diventato
uno chef di prim’ordine. Oggi lui è un’immagine vincente della Sicilia».
Hai già in mente nuove storie da raccontarci in qualità
di romanziere?
«Qualche altra storia, qualche altra idea mi frulla per la
testa, come negarlo. Ma Maqeda è così vivo ancora dentro di me che
pensare ad altro adesso sembra volergli fare a tutti costi uno sgarbo».