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Intervista a Maria Luisa Sgobba tutte le interviste
Maria Luisa SgobbaTelegiornaliste anno II N. 12 (44) del 27 marzo 2006

Maria Luisa Sgobba, giornalista nata di Filippo Bisleri

Appena tagliato il traguardo dei 37 anni, la giornalista e mamma Maria Luisa Sgobba, pugliese (davvero una terra di giornalisti, come Giuseppe Brindisi e Mino Taveri), si racconta ai microfoni di Telegiornaliste. E svela un personaggio dinamico, estroso, innamorato del proprio lavoro quanto lo è dei suoi figli e della sua famiglia.

Maria Luisa, come hai scelto di fare la giornalista?
«Mia madre racconta che avevo le idee chiare già a otto anni, e a chi mi chiedeva cosa volessi fare da grande rispondevo convinta: la giornalista. Qualche anno più tardi ricordo di aver detto a qualcuno vorrei poter vivere di scrittura. A 16 anni collaboravo con un mensile della provincia barese, L’informatore, ma il giornalismo non era l’unica passione. Dopo la laurea avrei volentieri continuato ad approfondire lo studio della letteratura italiana. Tra un concorso e l’altro per ottenere un dottorato di ricerca infilai anche quello per entrare nell’Ifg di Urbino e superai la selezione. Per me fu un segno del destino».

Cosa ti piace di più della professione giornalistica?
«Credo il fatto che che ti obblighi a tener viva la curiosità sul mondo e, soprattutto, sull’essere umano. Amo incontrare e ascoltare chiunque abbia da raccontare un’esperienza, una storia. O, viceversa, discernere e raccogliere gli elementi di un quadro, i colori che danno un senso alle storie».

Quali sono gli argomenti che preferisci affrontare?
«In parte ho già risposto, mi piace soffermarmi sui dettagli, che più d’ogni altra notizia o verità sono capaci di gettare luce sui grossi eventi, rendere davvero il senso di un avvenimento. Mi piacciono le storie che riescono a parlare di speranza anche nei quadri più foschi».

Hai una preferenza per il giornalismo televisivo o ti piacciono altri media come la carta stampata?
«Come ti dicevo, all’inizio ho sempre pensato al giornalismo in quanto “scrittura”, dunque sentivo la carta stampata molto vicina alle mie corde. Alla scuola di giornalismo ho dovuto lavorare per guadagnare uno stile che si adattasse anche a radio e tv. Ricordo che Giovanni Mantovani leggendo i miei pezzi mi diceva: “non innamorarti delle parole”. Ironia della sorte il mio primo contratto l’ho avuto in una radio. Mi sono ritrovata a occuparmi di politica per Rtl 102.5. Una diretta ogni ora dai palazzi romani e solo qualche appunto scarabocchiato su un foglietto: più immediati di così. La radio ha un fascino particolare e mi è rimasta nel cuore, è stata una palestra essenziale per il mio lavoro televisivo».

Nella tua esperienza professionale hai un servizio, un personaggio o un’intervista che più ricordi?
«Davvero tanti. Ricordo i profughi arrivati con i gommoni e sotto i nostri occhi scaraventati dagli scafisti sugli scogli di Otranto, e quei finanzieri che, dopo ore di pattugliamento notturno delle lunghissime coste, con pochi mezzi, si trasformavano in soccorritori premurosi. Ricordo gli sguardi smarriti degli immigrati e le domande che loro ponevano a noi per capire cosa sarebbe accaduto, il destino delle loro donne e dei loro bambini. Ricordo l'11 novembre del 1999, quando svegliai il mio caporedattore in piena notte per dirgli che a Foggia era crollato un palazzo intero. All’alba eravamo pronti per andare in diretta ininterrottamente dal luogo del disastro. I morti furono 67: un disastro sconvolgente e incomprensibile che nel giro di due giorni richiamò in Puglia le televisioni di tutto il mondo. Ricordo il terremoto in Molise, la scuola crollata a San Giuliano, gli sguardi dei bambini riemersi dalle macerie. La paura di chi restava tra le case pericolanti e la minaccia di nuove scosse. In tutto questo ricordo la rassegnazione di una vecchina tutta sola in una piazza di notte che, raccontandoci i suoi timori, sembrava invece voler rassicurare il mondo intero».

Chi sono stati i tuoi maestri di giornalismo?
«Come non essere grata a tutto il team dell’Ifg di Urbino, Silvano Rizza in testa. Di quella esperienza mantengo poi il ricordo carissimo di Mario Pastore. Devo moltissimo a Enrico Mentana, che ha creduto in me e mi ha messo all’opera fin da quando ero una semplice stagista. Prima nella redazione cronaca del Tg5, poi in quella politica. Infine mi ha assunto quando si parlò di avere un corrispondente stabile dalla Puglia. Era una stagione davvero emozionante quella. Tre mesi dopo sarebbe partito il tg delle 8.00 del mattino, un’autentica rivoluzione fatta di dirette da ogni angolo d’Italia e io ero chiamata a raccontare la mia regione».

Tra colleghi e colleghe che apprezzi di più?
«Chi lavora spesso senza apparire, ma di fatto manda avanti l’intera macchina del giornale. Persone in grado di risolvere ogni tipo di problema: penso a quello che sono stati per il Tg5 Massimo Corcione o Alessandro Banfi. Penso a quello che è stato Gigi Cavone per la redazione romana di Rtl 102.5. Persone instancabili, sempre presenti, saldi punti di riferimento».

Giornalista e mamma: sono ruoli conciliabili secondo te?
«Se ce la faccio io che in famiglia non sono certo un campione di organizzazione, vi assicuro che è possibile. Ho due bambini, Francesco di cinque anni e Federico che compirà un anno a maggio. Come tutte le mamme che lavorano ho i miei bravi sensi di colpa quando infilo la porta di casa. Ma ho tante fortune che altre mamme che conosco non hanno. Penso a chi non ha i genitori vicini, a chi, pur lavorando, non può permettersi la baby-sitter o a chi deve correre a prendere il bambino all’inflessibile orario di uscita da un asilo pubblico. Io conto su tanti aiuti e, nonostante tutto, vivo alla giornata. A volte credo che più che organizzazione serva creatività per far fronte ai mille problemi che possono sorgere quando si è lontani da casa. Poi ovviamente serve grande attenzione quando si ritorna. In quel momento i bambini hanno ogni diritto di richiedere e avere tutto il tuo tempo».

Molti sono i giovani che vorrebbero fare i giornalisti. Quali consigli daresti loro?
«Il mio consiglio è di essere ostinati e rigorosi soltanto nello studio, senza puntare troppo su una meta come esclusiva. Anzi, giova sempre mantenersi aperte più possibilità e strade per il proprio futuro. Perfezionare sempre le proprie conoscenze, coltivare le proprie passioni. È utilissimo seguire una scuola di formazione, per esempio, un master, perché queste sono esperienze uniche, innanzitutto per la propria crescita e poi in vista dell’inserimento nel mondo del lavoro. Purché il fine non diventi l’unico scopo del percorso formativo. Secondo me, il lavoro, quale che sia alla fine, arriva di conseguenza, quasi fosse un incontro sulla strada che stai percorrendo investendo sulla crescita della tua persona».

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