Telegiornaliste
anno IV N. 30 (155) del 4 agosto 2008
Sara Sesti, la Scienza delle donne di
Chiara Casadei
Donna e scienziata, studiosa, matematica e pure insegnante. Non si scherza con
Sara Sesti, perché tutto quello che fa parte della sua vita professionale
nasce da una passione e da un’ispirazione profonda che da tempo coltiva e
nutre con numerose e diverse esperienze. Ci racconta lei stessa la sua
esperienza all’interno del mondo scientifico, affascinante anche se a volte
ostile e chiuso.
Come è nata la passione per le materie scientifiche?
«Mi sono laureata in matematica a metà degli anni Settanta con l’obiettivo di
insegnare. Mia madre è stata una maestra delle scuole elementari molto
appassionata del suo lavoro e mio padre progettava motori. Evidentemente ho
subito l’influenza di entrambi. Le difficoltà della matematica per me erano una
sfida e mi affascinava la generalizzazione dei concetti, l’astrazione che
implicavano. Ero orgogliosa di far parte dei pochi che la padroneggiavano».
Quando ha iniziato a porsi domande di genere sulla scienza?
«Ho cominciato a interrogarmi sul rapporto delle donne con la scienza agli inizi
degli anni Ottanta. Insegnavo in un corso delle 150 ore per le casalinghe di
Affori e in una sezione serale dell'Istituto Tecnico Industriale Statale di
Sesto San Giovanni, dove gli studenti erano operai. Ma mentre alla scuola serale
il mio sapere mi dava valore e gli studenti erano interessati ad impadronirsi
degli strumenti scientifici, diventava un ostacolo nella comunicazione tra me e
le donne, sia per la rigidità del linguaggio che per la specificità dei
contenuti. Le mie studentesse si sentivano come delle immigrate: venivano dalle
cucine, dalle camere da letto, e in campo scientifico si scontravano con un
mondo e con un linguaggio cui si sentivano del tutto estranee. Per molte donne è
ancora così e rifiutano il rapporto con la scienza».
Come è proseguita le sua ricerca su donne e scienza?
«Dopo l’esperienza di insegnamento alle casalinghe, ho seguito con passione per
anni tutto quello che trattava di “donne e scienza”, interessandomi soprattutto
alle biografie delle studiose, fino a quando, alla fine degli anni Novanta, mi è
stata offerta dal Centro Eleusi - Pristem dell’Università Bocconi, l’opportunità
di concretizzare i miei studi attraverso una ricerca sull’argomento. L’indagine,
continuata all’Università delle Donne di Milano, ha prodotto tre risultati: la
mostra Scienziate d’occidente. Due secoli di storia, il libro
Scienziate nel tempo. 65 biografie, che ho realizzato insieme alla storica
Liliana Moro e la rassegna di film Sguardi sulle donne di scienza».
Cosa la affascina di più nella vita di queste grandi donne?
«Mi ha affascinato la loro capacità di affrontare la ricerca nonostante non
potessero ricevere un’istruzione adeguata: le porte delle università sono state
chiuse per le donne fino al 1867, quando finalmente l’École Politecnique di
Zurigo ha accettato l’iscrizione delle prime studentesse».
Quali tratti hanno in comune queste scienziate?
«Prima dell’apertura delle università, le donne che riuscivano ad affermarsi
erano quasi sempre affiancate da una figura maschile molto importante - un
marito, un tutore, un padre o un fratello - in grado di fornire loro
l’istruzione che veniva negata dalle istituzioni. Come le coppie formate da
Ipazia e dal padre Teone, dall’astronoma Caroline Herchel e dal fratello
William, da Sofie e Tycho Brahe, o dai coniugi Lavoisier, fondatori della
chimica moderna.
Le donne di scienza hanno mostrato un frequente interesse verso la divulgazione,
che in epoche passate ha indotto a realizzare traduzioni o a compilare manuali e
che più recentemente si esprime affiancando all'attività di ricerca l’impegno
nella didattica. Ipazia di Alessandria, matematica e filosofa dell’antichità,
commentò col padre Teone le opere di Diofanto, Apollonio, Tolomeo ed Euclide, la
duchessa Margaret Cavendish, dama di scienza autodidatta, nel Seicento scrisse
numerose pubblicazioni sulla filosofia naturale meccanicista, la marchesa du
Châtelet nel Settecento contribuì a divulgare le nuove teorie di Newton
traducendone i Principia, Mary Somerville nell’Ottocento tradusse e commentò tra
l’altro la Meccanica celeste di Laplace, Margherita Hack da 40 anni ci dedica la
mediazione del suo sapere specialistico, scrivendo libri di astrofisica che sono
un esempio di come si possa fare divulgazione di argomenti complessi rendendo le
cose semplici, senza banalizzare».
E
per quanto riguarda il lavoro di ricerca?
«Hanno in comune pazienza e tenacia nel portare a termine ricerche che, prima
dell'invenzione dei calcolatori, richiedevano lunghissimi tempi in calcoli
precisi e laboriosi o in tecniche estenuanti. Ne sono un esempio i lavori delle
équipe di sole donne che infaticabilmente e per decenni hanno lavorato ai due
più importanti cataloghi stellari dell’800. In molte ricercatrici ho riscontrato
anche una straordinaria efficienza nella operatività pratica, che spesso si è
tradotta nella vera e propria invenzione e costruzione di nuovi strumenti, dal
bagnomaria di Maria l’Ebrea, la più importante alchimista dell’antichità, fino
alle apparecchiature accurate della fisica Chien-Shiung Wu, una delle scienziate
del Progetto Manhattan che negli anni Quaranta ha portato alla realizzazione
della bomba atomica».
Pazienza, tenacia, operatività pratica richiamano qualità domestiche da
sempre attribuite al femminile.
«Però fanno risaltare, per contrasto, la genialità e il ruolo eminente che altre
scienziate hanno ricoperto in diversi settori. Ricordo Emmy Noether fondatrice
dell’Algebra moderna, Sonja Kovalevskaja prima donna ad ottenere una cattedra in
università nel 1889, Rosalind Franklin che trovò le prove sperimentali della
struttura a doppia elica del DNA, Lise Meitner che per prima ha interpretato
correttamente il fenomeno della fissione nucleare o la Nobel Barbara McClintock
che con le sue ricerche ha rivoluzionato la genetica classica».
L'associazione Donne e Scienza di cui fa parte vuole promuovere l'ingresso e
la carriera delle donne nella ricerca scientifica: secondo lei c'e'
discriminazione?
«Sì certamente. La discriminazione esiste ed è ben documentata dai dati
mondiali. Oggi il rapporto tra donne e scienza è senza dubbio migliorato, ma
molto meno di quanto si potrebbe pensare. Secondo il Rapporto Mondiale sulla
Scienza elaborato dall’Unesco nel 2006, le ragazze sono ormai la maggioranza a
raggiungere un diploma di scuola superiore (il 52%), ma la percentuale femminile
si dimezza nei corsi di laurea a indirizzo scientifico. Le donne sono solo il
27% dei ricercatori e la scarsa presenza femminile ai vertici della ricerca è un
dato oggettivo. Più si sale nella gerarchia scientifica e più la percentuale
delle donne diminuisce. In Europa, per esempio, il 60% dei ricercatori in
biologia è di sesso femminile, ma di questa maggioranza appena il 6% emerge a
dirigere i laboratori che contano: è l'effetto “soffitto di cristallo”».
Quali sono le motivazioni che impediscono alle donne di arrivare ad alti
livelli?
«C’è chi ritiene che i motivi siano tutti interni alla scienza: la sua struttura
competitiva e la rigida organizzazione del lavoro indurrebbero le donne a
ritirarsi dalla carriera, o per una scarsa attitudine alla disputa o perché
penalizzate dal lavoro familiare. In molti casi, invece, le ricercatrici vengono
deliberatamente scoraggiate dal dedicarsi alla scienza attraverso precariati più
lunghi, paghe più misere e giudizi sprezzanti. Lo studio Figlie di Minerva,
coordinato da Daniela Palomba nel 2001, ha analizzato i meccanismi di selezione
interni alla ricerca in Italia e ha dimostrato che anche nel nostro Paese le
istituzioni scientifiche usano due pesi e due misure per valutare la bravura
femminile e maschile. E’ la conferma di un giudizio pubblicato sulla rivista
Nature nel ’97 da due ricercatrici svedesi, che dimostrarono che per ottenere
promozioni pari a quelle di un ricercatore, una ricercatrice deve dimostrarsi
“2,6 volte” più brava. E’ anche ben documentato come la corsa delle donne spesso
si arresti là dove inizia il principio di cooptazione maschile, ossia la
tendenza degli uomini ad affiancare a se stessi altri uomini nei ruoli di
potere».
Ha pubblicato due libri, Donne di scienza. 50 biografìe dall'antichità al
duemila e Scienziate nel tempo. 65 biografie. Ritiene che questi
testi possano servire ad avvicinare i lettori, e soprattutto le donne, alla
scienza?
«Nei libri che ho scritto ho dato conto degli esiti dei miei studi senza
ambizioni letterarie, con lo scopo di strappare dall’anonimato tante scienziate
che non compaiono nei testi di storia. Sono convinta che sia stato utile anche
per avvicinare le persone, e soprattutto le donne, alla scienza. Una disciplina
vista attraverso la concretezza e la profondità delle biografie assume
connotazioni nuove, più vicine alla sensibilità di chi legge, spesso poco
incline all’astrazione e più curiosa di esperienze complessive e di scelte
morali. Ritengo inoltre che presentare modelli positivi di figure femminili che
si sono espresse nel lavoro scientifico possa permettere alle ragazze di
immaginare con maggior naturalezza e disinvoltura una propria presenza nel mondo
della scienza e della tecnica».