Telegiornaliste anno II N. 2 (34) del 16 gennaio 2006
Nando Sanvito, giornalista dal golpe di
Filippo Bisleri
Nando Sanvito
è un giornalista nato per caso. Meglio, per un "quasi colpo di
Stato". Ce lo vuoi spiegare Nando?
«Sono arrivato casualmente al giornalismo. Mentre ero studente a
Madrid
vissi da vicino l'esperienza di un tentato colpo di Stato
militare. In quel periodo nella capitale spagnola vi era solo un
paio di corrispondenti italiani e perciò qualche
giornale si rivolse a me per raccontare quei momenti e scoprii una
vocazione al giornalismo».
Giornalisti sportivi, spesso siete accusati di essere meno preparati
dei colleghi. Che ne dice il membro del Comitato di redazione
Mediaset? E il tifo condiziona?
«Ci può essere superficialità e approssimazione tra gli uni e gli
altri allo stesso modo. Indubbiamente il giornalismo sportivo è
meno
portato a fare inchieste aggressive e scomode, per diverse
ragioni: da una parte perché ha una vocazione di promozione positiva
dello sport, dall’altra perché si rivolge, appunto, a un pubblico di
lettori-tifosi più inclini all’epica che agli scandali; ma
soprattutto perché si troverebbe a dare fastidio a quegli ambienti
da cui quotidianamente attinge informazioni vitali per la sua stessa
esistenza.
Sono dunque giornali o media non sportivi ad avere meno freni
inibitori, quando lo sport assume contorni torbidi o entra nel
mirino di un magistrato.
È un pò come quando – fatte le debite proporzioni - a un giornalista
che tutti i giorni segue la stessa squadra, e che deve guadagnarsi
la complicità dei calciatori per interviste e soffiate, proprio a
lui si chiede di fare le pagelle di una partita: come può essere
obbiettivo e al tempo stesso non inimicarsi qualcuno a cui rifila un
4 o un 5? C’è una sorta di conflitto di interessi.
Ciò però non significa misconoscere che anche il giornalismo
sportivo abbia fatto campagne di opinione meritorie, sul
fronte di uno sport dignitoso e a misura d’uomo.
All’altra domanda rispondo che il tifo può aiutarti a fare
con
maggiore passione il tuo lavoro, ma c’è anche il rischio che
possa farti perdere lucidità e obiettività. Molti si
avvicinano al giornalismo sportivo proprio per il tifo calcistico.
Non è stata questa la mia traiettoria, anche se sono sempre stato
appassionato di sport. Dopo qualche anno di pratica del giornalismo
sportivo ho perso il
coinvolgimento emotivo tipico del tifoso. Un pò mi dispiace, ma
credo che questo distacco mi abbia aiutato in termini professionali.
Altri colleghi si identificano in una squadra a tutti gli effetti e
l'avvento delle tv locali ha creato anche in termini
professionali figure di questo genere, cioè il tifoso-giornalista,
punto di riferimento per i supporters di una squadra oppure
opinionista di fiducia dei dirigenti di quel club. Anche loro
assolvono a una funzione mediatica importante, io però non sento
questo ruolo nelle mie corde e non sarei incapace di interpretarlo».
La tua carriera professionale è ricca, bella e di alto profilo. Cosa
ricordi con maggiore affetto?
«Penso ai reportage sulla carta stampata: un incredibile
viaggio di tre giorni nel 1985 da clandestino coi profughi curdi
che dalla Turchia cercavano fortuna in Occidente, passando le
frontiere dell'est (Bulgaria e Jugoslavia) ancora comunista;
un'inchiesta drammatica tra Londra e Parigi – aiutato dal premio
Nobel Lejeune - sugli albori della fecondazione artificiale
in cliniche private e centri autogestiti da collettivi femministi
alle prese coi primi bimbi figli della provetta; un incontro in
Andalusia con la donna protagonista del fatto di cronaca nera che
negli anni Trenta ispirò il capolavoro teatrale di Garcia Lorca
Nozze di sangue; l’intervista a Zagabria a un
dirigente comunista jugoslavo che si era fatto vent'anni in un
gulag sovietico e aveva voglia di raccontare quello che aveva
passato lì.
Capitolo sport: a parte un’inchiesta a Siviglia sui tifosi dello
Steaua Bucarest che avevano usato la finale di Coppa Campioni
per abbandonare la Romania di Ceausescu e chiedere asilo
politico in Spagna, di sport mi sono occupato solo quando ho
cominciato a lavorare in Tv: qui il bello è la valorizzazione
dell’evento sportivo e la sua narrazione tramite la scelta delle
immagini. Non è coinvolgente solo quello che succede sul teatro di
gioco ma anche l’atmosfera umana che lo circonda.
Ricordo in particolare l’ambiente fantastico che ho vissuto a
Lisbona
attorno alla finale degli Europei Portogallo-Grecia. Questo aspetto
documentativo è la forza della tv e compensa il suo limite, che è
quello di essere un mezzo che si presta poco all’approfondimento (se
non nel talk-show), tanto più nel calcio, dove i diritti
televisivi hanno ristretto e recintato gli spazi su cui può fare
cronaca la tv generalista, tra l’altro poco incline per motivi di
audience ad occuparsi degli altri sport. Spiegare un evento o
svelarne i retroscena (dalle dinamiche di spogliatoio fino agli
intrighi del calciomercato) è comunque gratificante e si può fare
anche in tv, seppure tra mille condizionamenti.
Tu incontri molto i giovani... Ce ne puoi parlare?
«Ultimamente dedico del tempo a raccontare nelle scuole storie di
uomini di sport, documentandole con filmati che ho raccolto in
un Dvd: è una cosa in cui credo molto per la sua valenza educativa.
Ritengo infatti che i meccanismi e le dinamiche di un evento
sportivo siano le stesse che governano la vita di tutti i giorni di
una persona, solo che le esemplificano in modo paradigmatico. Perciò
dentro queste storie – che ho personalmente conosciuto per via del
mio lavoro – ci sono spunti di riflessione profonda che
possono aiutare la maturazione di un ragazzo, più facilmente
disposto a confrontarsi con la semplicità e l’immediatezza del
linguaggio dell’immagine e dello sport».
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