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Intervista a un poliziotto tutte le interviste
Telegiornaliste anno III N. 6 (84) del 12 febbraio 2007

Voci attorno allo stadio di Silvia Grassetti

I fatti di Catania hanno dato il via a una lunga sequela di parole e ai consueti fiumi d’inchiostro sul male del calcio, della società italiana e delle società calcistiche; hanno messo in luce che Moggiopoli era solo la punta di un iceberg che non teme l’effetto serra, e hanno evidenziato che il problema della violenza negli stadi è molto urgente, e di non facile soluzione.
Per avere qualche elemento di riflessione in più rispetto alle troppe parole sentite nei giorni scorsi, questa settimana la nostra rubrica sportiva ospita l’intervista esclusiva a un collega del poliziotto ucciso.

Come la fa sentire il circo mediatico attorno all’omicidio Raciti?
«E’ una buffonata: sull’onda emotiva se ne dicono tante, ma quel che conta è solo il business. Il calcio è un’industria, perciò, anche se nessuno ha il coraggio di dirlo, la morte di un poliziotto sta nel pacchetto, come ha detto Matarrese. Tra un anno qualcuno intervisterà la moglie di Raciti che dirà che non ha ancora la pensione e campa della carità dei colleghi».

Che differenza c’è tra gli ultras che attaccano la polizia e i no global che manifestano a Genova?
«Nessuna: è sempre una violenza contro l’ordine precostituito. Sono le stesse persone con le stesse metodologie: cambiano solo le definizioni. Non si tratta del manifestante che va a manifestare, o del tifoso che va allo stadio, ma di gente organizzata che parte da casa per colpire le forze dell’ordine».

Ma i no global hanno forse degli ideali…
«Lo vada a dire ai milanesi che l’11 marzo scorso avevano la macchina parcheggiata in corso Buenos Aires, o mi dica lei che differenza c’è tra le immagini del G8 di Genova e quelle della guerriglia fuori dallo stadio di Catania. Tutti possono avere ideali. La Costituzione garantisce il diritto di manifestare e di esprimere opinioni. Ben venga. Ma questa non è gente con ideali, è solo gente che cerca lo scontro ad ogni costo. Gli ideali sono una scusa».

Lei ha prestato servizio allo stadio qualche anno fa: crede che la situazione sia andata peggiorando negli anni o è sempre la solita solfa?
«E’ sempre la solita solfa: c’è gente che non va allo stadio per la partita, ma appositamente per scontrarsi con le tifoserie avversarie o, all’occorrenza, per allearsi con loro e scagliarsi contro la polizia. Le società spesso sono complici in tutto questo».

E il silenzio dei calciatori?
«E’ un silenzio assordante. Proprio quelli che sono pronti a correre sotto la curva a ogni gol e che si toglievano la maglietta per lanciarla ai tifosi, adesso tacciono. Ma forse, tutto sommato, sono più onesti loro a tacere che altri, che hanno parlato fin troppo».

Cosa può fare la polizia che attualmente non fa?
«Facciamo davvero molto, e non si capisce neanche perché dobbiamo farlo noi. Le società incassano miliardi e non c’è ragione perché la tutela dell’ordine pubblico debba ricadere sulle tasche del cittadino. Visto che i tifosi sono sempre e solo di due squadre alla volta, sono le società che possono e devono rispondere».

E’ una soluzione la vendita degli stadi alle società?
«Sì, assolutamente: si responsabilizzerebbero e, rispondendo dei danni ai loro beni, ci sarebbero meno scalmanati negli stadi».

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