
Telegiornaliste anno II N. 19 (51) del 15 maggio 2006
          
 Andrea Pancani, giornalista e comunicatore
                    di Mario Basile
                    
                    Da bambino la sua massima aspirazione era quella di fare 
	il giornalista. Andrea Pancani 
	è riuscito a coronare il suo sogno. Oggi è uno dei volti di 
	Omnibus, il talk-show di 
	La7. La sua grande esperienza nella carta stampata, nelle radio, 
	in televisione e nel campo dell’informazione via web, l’hanno reso un 
	profondo conoscitore dei mezzi di comunicazione.
                    
                    Andrea, quando hai deciso di fare il giornalista?
                    «L’ho deciso, come dire, involontariamente quando ero 
	piccolissimo. Non ho una memoria storica, ma me l’hanno raccontato i miei 
	genitori perché, ma questo è vero non è una battuta, ero un ragazzino 
	piccolissimo, un bimbo, che mangiava i giornali. Cioè i miei dovevano 
	nascondere i giornali sui ripiani alti delle librerie o su altri mobili 
	perché io strappavo i giornali e mi mangiavo le pagine. Adesso è chiaro che 
	io lo dico ironicamente, però probabilmente era un po’ un mestiere 
	predestinato nella mia vita, evidentemente».
                    
                    Raccontaci dei tuoi inizi.
                    «La prima cosa che ho fatto è stato un giornalino insieme a 
	mio fratello e mia sorella, considera che mio fratello ha due anni meno di 
	me e mia sorella ha sei anni meno di me. Quindi da ragazzino, potevo avere 
	nove o dieci anni, mia sorella quattro e mio fratello ne aveva otto, io ho 
	deciso di fare a casa un giornalino. E già mi sentivo, come dire, direttore 
	di questo giornalino, insomma, perlomeno promotore, coordinatore. E avevo 
	assegnato loro degli articoli, tipo a mia sorella “Con che cosa ti piace 
	giocare?” o “Come ti trovi col papà e la mamma?”, e a mio fratello “Come va 
	la scuola elementare?”, non lo so, o “Come va con i tuoi amici?”. Abbiamo 
	fatto questo giornalino che aveva anche molti disegni, ovviamente essendo 
	dei bambini, e pochissimo testo scritto. E poi aveva altre cose ritagliate 
	da altri giornali o fumetti che avevamo, che poi incollavamo sopra. Questa è 
	stata la mia vera prima prova giornalistica, “autonominandomi” direttore. 
	Naturalmente i miei sono stati molto contenti perché questo per loro 
	rappresentava anche la calma familiare: eravamo tutti presi da questo 
	giornalino e non potevamo rompere le scatole ai genitori. E questa è stata 
	la prima esperienza.
                    Dal punto di vista serio, invece, qualche anno dopo, da più 
	grande, io ho fortemente sentito che questo era il mio mestiere, la cosa che 
	potevo saper fare. E molti anni fa, ma moltissimi anni fa - ahimé ho un’età 
	– io seguivo molto la musica come tutti i ragazzi: sono cresciuto a pane e 
	rock. E quindi grandi gruppi rock, band dell’epoca – sono del ’61, ho quasi 
	quarantacinque anni – e ci fu un giornale che nacque a Roma che si chiamava 
	Nuovo sound, ovviamente esistevano i giornali storici musicali come 
	Ciao 2001, nacque questo giornale grazie alla volontà di un vecchio 
	giornalista musicale che io conoscevo di nome. Quando ho scoperto che aveva 
	tirato fuori questo giornale, scrissi, io non vivevo a Roma, dicendo che 
	volevo collaborare. Non mi fu data nessuna risposta. Finché però questo 
	giornale poi, decise di mettere le recensioni dei lettori. Io andai a un 
	concerto di Venditti nella zona in cui abitavo. Mandai una recensione e mi 
	fu pubblicata. Questo fu il più grande orgoglio della mia vita, ma 
	soprattutto dimostrare ai miei genitori, ai miei amici, a chi frequentavo 
	che io questo sogno lo potevo coronare. Certo, era una cosa molto piccola, 
	come ti puoi rendere conto. Molto simbolica. Però per me fu l’inizio della 
	carriera giornalistica. E difatti non è un caso che io sono stato un 
	giornalista musicale all’inizio. Una delle mie prime esperienze - non la 
	primissima, ma una delle prime – è stata lavorare proprio allo storico 
	Ciao 2001. Ho avuto questa grande fortuna, quindi sono molto felice di 
	aver lavorato per questa rivista che è stata un must dell’editoria musicale 
	in Italia».
                    
                    Prima di arrivare in tv, hai lavorato in radio. 
	Attualmente curi sul sito di La7 la rubrica Aperte virgolette. Quali 
	sono le differenze tra questi diversi modi di fare informazione? Tu quale 
	preferisci?
                    «Io sono nato nelle radio, però prima di arrivare in tv sono 
	passato per i giornali. Nel senso che io poi sono nato in una cooperativa di 
	giornalisti che facevano pubblicazioni per le regioni. E’ stato il primo 
	gruppo editoriale italiano che si era inventato i giornali regionali con una 
	parte nazionale, fatta a Roma dove io lavoravo, uguale per tutti questi 
	giornali e poi una parte, invece, solo locale. Quindi io sono nato 
	giornalisticamente nella carta stampata.
                    In verità, è curioso dirlo: io credo di essere un buon 
	animale televisivo. Mi riconosco uno che in televisione è se stesso. Non ho 
	pose, non ho atteggiamenti finti, non sono il giornalista che dice “Cambiamo 
	decisamente pagina…” perché prova imbarazzo a passare da una notizia 
	all’altra. So fare bene gli slalom tra le parole, diciamo così. Quindi mi 
	ritengo un buon giornalista televisivo. Però tra tutti questi mezzi quello 
	che io adoro di più è la radio. Io credo che come la radio non ci sia nulla. 
	Lo dico mio malgrado, essendo un giornalista televisivo, insomma.
                    Mi chiedi qual è il linguaggio che preferisco…internet mi 
	piace moltissimo. Non solo perché potenzialmente hai un bacino di utenti 
	immenso, sterminato. Chiunque ti può leggere da qualsiasi parte del mondo, 
	quindi questo è molto bello saperlo. Poi magari non succede, ma 
	potenzialmente è bello saperlo. Mi piace internet anche per un altro motivo: 
	puoi usare un linguaggio più moderno, più diretto, più fresco, più 
	disinibito, anche più accattivante per certi versi. Questo perché non devi 
	essere necessariamente o istituzionale, comunque non parli a un pubblico 
	televisivo, o troppo imbalsamato».
                    
                    Oggi sei uno dei volti di Omnibus, il talk show di 
	La7. Nonostante l’orario “proibitivo”, poiché va in onda alle sette del 
	mattino, riesce ad avere un ottimo seguito di pubblico. Qual è il segreto 
	del vostro successo?
                    «Il segreto del successo del programma nasce dal successo di 
	una formula che ormai è collaudata da molto tempo in televisione. E 
	soprattutto in una televisione di nicchia come la nostra, funziona tutto 
	quello che crea abitudine. Vale per tutte le televisioni, ma per la nostra 
	in particolare. Non solo: per una televisione piccola e di nicchia come la 
	nostra, prima che un prodotto si affermi, non ci vogliono tre mesi come in 
	una grande tv. Ci vogliono tre anni. Difatti noi dopo tre anni circa che 
	esiste Omnibus, pur se con dei cambiamenti e delle correzioni, oggi 
	raccogliamo i risultati e il successo di tutto questo con ascolti molto 
	importanti, non solo per Omnibus, ma nei confronti proprio di quella 
	che è la media della rete. Quindi un successo che nasce: dalla tenacia di 
	fare un programma tutti i giorni sempre uguale, ma sempre diverso, perché 
	fortunatamente i fatti sono diversi; da un buon affiatamento di squadra, ma 
	più che affiatamento di squadra direi dal fatto che ognuno sa cosa deve fare 
	e lo fa al meglio. C’è un buon lavoro di squadra nel senso che ognuno sa che 
	ruolo riveste e come lo deve rivestire. Questa è la cosa positiva.
                    Se dovessi fare una critica, direi che probabilmente ci 
	dovrebbe essere uno sforzo maggiore da parte di tutti di Omnibus
                    di trovare personaggi nuovi, di proporre temi nuovi e di 
	variare qualche cosa. Perché è vero che squadra vincente non si cambia, ma è 
	anche vero che nella vita soprattutto se una formula funziona qualche 
	correttivo lo devi fare. Devi fare qualche esperimento».
                    
                    Molti pensano che in Italia non esista una vera libertà 
	di stampa e che, di conseguenza, solo nei blog si può avere un’informazione 
	veramente libera. Tu stesso sei un blogger. E’ vero? E quali sono i pregi e 
	i difetti di questo nuovo modo di comunicare?
                    «Io non mi allineo assolutamente, non mi iscrivo tra quelli 
	che dicono che in Italia non c’è la libertà di stampa. L’Italia è uno dei 
	Paesi che ha più testate in assoluto. Parlo di tutto: quotidiani, periodici, 
	eccetera. Abbiamo una ricchezza a entrare in edicola che per chi non è 
	pratico, intanto è imbarazzante perché non sa cosa scegliere. Poi ormai 
	insieme ai giornali c’è di tutto, quindi entrare in un’edicola è come 
	entrare in un supermercato. Io credo che la nostra ricchezza di testate sia 
	straordinaria. Non è una ricchezza finta, fasulla, solo di testate: è una 
	ricchezza di voci, di opinioni, di settori, di tutto. Quindi non credo 
	proprio a chi dice “La libertà di stampa è in pericolo…il regime, i pochi 
	gruppi...”. No, credo piuttosto che il vero problema dell’Italia sia che 
	gran parte della stampa, soprattutto dei grandi giornali, siano omologati, 
	che siano molto uguali tra loro, siano abbastanza istituzionali, siano 
	paludati. Ma soprattutto hanno un grande difetto: i grandi giornali non sono 
	fatti per un pubblico e una generazione giovane, ma io direi moderna. La 
	rete perché funziona? Perché sempre più giovani si informano sulla rete? 
	Perché interessa anche loro. Perché sa proporre temi stimolanti. Perché 
	intercetta alcune delle cose vere che viviamo tutti i giorni. Mentre i 
	giornali sono per la classe dirigente del Paese. Però non fotografano 
	quotidianamente questo Paese, o meglio, lo fotografano, ma molto 
	parzialmente. La rete, invece, nella sua offerta straordinariamente grande e 
	anche col suo modo di scrittura, la sua tecnica, il suo linguaggio è molto 
	più vicina alle persone.
                    Io sono uno di quei giornalisti che non è favorevole alla 
	rete, ma di più! Io sono una di quelle persone che insegna pure giornalismo 
	all’università e ai ragazzi dice “La rete è fenomenale…meno male che esiste 
	il web…e poi il blog…il videoblog …e tutto quello che la rete offre”. Io 
	sono assolutamente favorevole alla rete, ai suoi linguaggi e tutte le novità 
	che ha portato. Però non credo che la rete abbia avuto tutti questi vantaggi 
	perché non esiste libertà di stampa nei mezzi tradizionali in Italia. No, è 
	una cosa in più, che arricchisce, diversa, complementare o alternativa, dato 
	che molti ragazzi si informano solo sulla rete e non leggono un giornale. Ma 
	non è che la rete è forte perché non c’è libertà di stampa».
                    
                    Professionalmente parlando, hai qualche sogno ancora da 
	realizzare?
                    «Redazionalmente io credo che questo sia l’ultimo anno che 
	faccio Omnibus. Io a giugno chiudo questo ciclo che dura da dieci 
	anni, perché non si può dimenticare che lo faccio da Telemontecarlo. Dopo 
	dieci anni di questa vita da sveglia alle 4:15 tutte le mattine - chiariamo, 
	è un lavoro che faccio con una passione estrema ancora perché adoro questo 
	mestiere - però aldilà di tutto, credo che professionalmente uno abbia 
	voglia di misurarsi con altre cose, altre sfide. E quindi pur essendo 
	affezionatissimo al programma, ma soprattutto a un programma che ho 
	contribuito a costruire perché io sono stato uno di quelli che ha 
	contribuito alla nascita di Omnibus, oggi credo di aver bisogno di 
	altre sfide. Quindi spero che ci siano queste altre sfide. Poi se saranno 
	nella mia televisione, o sulla carta stampata, o in un grande network 
	radiofonico, o in un’altra tv: questo non lo so».
                    
                    C’è qualche collega che stimi particolarmente?
                    «Stimo molto quei colleghi, ma ne vedo sempre meno, che 
	hanno voglia di sfide, di misurarsi con cose diverse. Lo dico io che pure da 
	tanti anni faccio la stessa cosa. Però io adoro chi ha voglia di provare le 
	cose. Chi sa che questo mestiere è talmente cambiato che oggi bisogna 
	parlare di comunicatori e non di giornalisti, forse, e gli piace provarsi in 
	tutti i campi della comunicazione: la tv, internet, la radio, i giornali, le 
	piccole sfide editoriali, e magari insegnare anche, come è capitato a me, o 
	tentare di insegnare. Io lo faccio naturalmente nel mio piccolissimo perché 
	lo faccio come addetto ai lavori, non sono ovviamente un docente di ruolo. 
	Però provarsi con le tante cose della comunicazione. Quindi io adoro chi si 
	mette sempre alla prova, chi ama le sfide, chi ama cambiare posti di lavoro, 
	misurarsi con altre cose. Perché non credo che questo sia indice di 
	irrequietezza, credo che sia indice, invece, di una grande vivacità 
	intellettuale. Il giornalista può fare tante cose. Ed è bello che si provi 
	in tante cose.
                    Invece questo è uno dei grandi problemi di questo Paese: noi 
	abbiamo un mercato imbalsamato. Quindi, aldilà del fatto che uno debba 
	essere bravo e debba avere dei talenti, passare da una tv all’altra o da un 
	giornale all’altro sono eventi rari. E’ molto difficile. Non c’è 
	flessibilità in questo mestiere. E questa è la cosa che a me fa più male. 
	Perché pensare che in altri mestieri c’è e in questo no, me la dice lunga 
	anche su quanto è imbalsamato questo mestiere, quanto è arretrato, quanto è 
	poco innovativo. Mentre dovrebbe essere uno dei mestieri più innovativi del 
	mondo, visto che ha la presunzione di raccontare il mondo».
                    
                    Quindi per te le doti principali che deve avere un 
	giornalista sono saper comunicare ed essere pronto a nuove sfide?
                    «Ti rispondo con una brevissima classifica, naturalmente un 
	po’ provocatoria. Le prime due doti che deve avere un giornalista sono: 
	l’elasticità mentale e la curiosità. Ma l’elasticità mentale ancora di più. 
	Poi deve conoscere un po’ di psicologia e un po’ di sociologia, oltre 
	ovviamente l’inglese, internet e tutte queste cose qui. E poi deve essere 
	proprio un curioso del mondo. Saper scrivere? Oggi conta molto meno rispetto 
	a prima, soprattutto se lavori in tv. Ma deve avere il gusto della 
	curiosità. E il gusto soprattutto di rapportarsi agli altri, di starli a 
	sentire. Diceva Kapuscinski, il grande reporter polacco, che “il cinico non 
	è adatto a questo mestiere”. Smontando tutto quello che si è sempre detto 
	dei giornalisti. Ovvero che dovevano essere freddi, cinici sennò non 
	potevano raccontare le cose. Lui prende questo concetto dall’altro punto di 
	vista. Lui dice che se si è cinici non ci si può mettere in sintonia con le 
	persone. Quindi non riesci a capire come vivono, cosa fanno, quali sono i 
	loro desideri, i loro sogni: non li sai raccontare.
                    Io credo molto in questo comandamento di questo grande 
	reporter. Devi essere lucido, pronto, preparato, determinato, ma non cinico 
	che è un’altra cosa».
                    
                    Per chiudere: molti ragazzi sognano di fare questo 
	mestiere. Quale consiglio daresti loro?
                    «Di provarci fino alla morte. Io sono una persona che non 
	scoraggerà mai nessuno che vuol fare questo mestiere. Io non sono figlio di 
	giornalisti, non sono parente di giornalisti e ce l’ho fatta con i miei 
	mezzi. A chi lo vuol fare dico soltanto di provarci fino alla morte. Tanto. 
	Se lo si vuol fare, nonostante l’accesso alla professione difficile, i 
	problemi e tutto quello che sappiamo, ci si arriva. Ho visto che la vita fa 
	una grande selezione naturale, ma se c’è la tenacia e si hanno, magari anche 
	in embrione, quelle qualità che dicevo prima, alla fine ci si arriva a fare 
	questo mestiere».