
 Telegiornaliste anno II N. 24 (56) del 19 giugno 2006
	Roberto Olla
                    di Nicola Pistoia
                    
                    Come nasce professionalmente 
	Roberto Olla?
                    «Quel che mi ha messo in moto è stata la passione per la 
	cronaca. Seguo da sempre due vecchie regole. La prima regola dice: alla 
	gente interessa la gente. Tra quella gente mi ci metto anch’io.
                    Mi interessa molto quel che accade alla gente e so che devo 
	interessare, con il mio racconto, la gente che mi segue in televisione. 
	Immagino che questa domanda non si riferisca al mio curriculum, con dati 
	tipo laurea in filosofia, eccetera...
                    Aver studiato regia, aver fatto regie (anche teatrali), aver 
	diretto attori, è stato molto importante per me e lo ritengo centrale nella 
	mia formazione. Sono, comunque, nato in Rai. La parte noiosa di questa mia 
	risposta dice che ho vinto un concorso come programmista - regista, ma la 
	Rai (che non era più, ormai, “mamma-rai”), anche se scrivevo per la carta 
	stampata, per i quotidiani sardi, anche se svolgevo prevalentemente lavoro 
	giornalistico, non mi riconosceva il contratto giornalistico (come a tanti 
	altri miei colleghi, peraltro, costretti a estenuanti periodi di precariato 
	o di contratti con mansioni e retribuzione inferiori). Poi, finalmente, la 
	Rai ha riconosciuto il contratto giornalistico ad alcuni del mio concorso. 
	Io sono rimasto fuori dagli elenchi dei prescelti e ho dovuto fare una lunga 
	battaglia personale - ci sono voluti più di dieci anni, e molta, molta 
	pazienza».
                    
                    E la tua passione per la storia?
                    «Tutti i giornalisti hanno passione per la storia. È 
	implicito, anche se non si dice. Fa parte del mestiere, dell’essere 
	giornalisti: Montanelli insegna, Biagi insegna. Diverso è poi dedicare la 
	propria attività professionale alla produzione storica, a documentari, 
	inchieste e servizi di storia. È qualcosa che si è sviluppato 
	progressivamente. Ho cominciato con un documentario di storia. Poi me ne 
	hanno chiesto un altro. Poi ne ho proposto uno io. Finché si è arrivati alla 
	situazione attuale in cui praticamente non mi bastano i giorni per tutto ciò 
	che dovrebbe essere prodotto su temi storici. Richieste, stimoli, spunti, 
	aumentano e se solo potessimo fare il Tg1 Storia giornaliero...!
                    Ma faccio una tenace battaglia dentro di me per continuare a 
	realizzare qualche servizio o qualche inchiesta di cronaca. In genere la 
	perdo questa battaglia, ma ogni tanto qualcosa mi riesce di farla. Comunque, 
	diciamo che la passione per la produzione di storia in televisione mi è nata 
	dalla ricerca. Trovo affascinante la ricerca di documenti audiovisivi (ci 
	sono più di 2.200 archivi audiovisivi degni di questo nome nel mondo! Una 
	pacchia per i ricercatori!). Mi entusiasmo quando scopro qualcosa. É stata 
	forte l’emozione di aver trovato per primo i filmati a colori del lager di 
	Buchenwald (quel giorno ero assieme a Sergio Valzania, compagno di diverse 
	avventure di ricerca). Quando ci sono comparse le immagini davanti, nella 
	sala buia, il piccolo sfarfallante schermo della moviola ci ha come 
	paralizzato. Non riuscivamo a parlare tra di noi. Ci siamo fermati per bere 
	un bidone di orrendo ustionante caffè nero americano. La ricerca mi esalta: 
	si ha la sensazione di poter un giorno vedere tutta la storia. Chi l’avrebbe 
	detto che avremmo visto (e a colori) la suocera di Hitler tessere le sue 
	trame al nido dell’aquila! Lei sperava in un matrimonio molto prima, ma 
	comunque, in effetti, per poche ore, Franziska Braun, madre di Eva, fu 
	suocera di Hitler.
                    Mi fa piacere vedere che ora questa passione per il 
	documento audiovisivo si sta diffondendo, vedere che a Valmontone proiettano 
	in piazza i filmati del passaggio del fronte nella loro città, che folle di 
	ragazzi si siedono a vedere i filmati integrali delle atomiche».
                    
                    Cosa sarebbe diventato Roberto Olla se non avesse fatto 
	il giornalista?
                    «Quanto mi piace rispondere a questa domanda! Vorrei poter 
	dire che avrei fatto il cuoco. Cucinare è il mio hobby. Devo sottolineare 
	che in genere i miei ospiti non si lamentano delle mie proposte. Poiché amo 
	anche la cucina giapponese, mi sono fatto spedire dal Giappone i coltelli 
	adatti per il taglio del pesce. È quasi un’esperienza mistica. Non puoi 
	pensare ad altro perché sono lame così affilate e tagliano con tale 
	semplicità che se ti distrai un attimo rischi di farti molto male. Sì, mi 
	piacerebbe poter rispondere così. Ma non so se ne avrei avuto il coraggio. 
	La vita del cuoco è sacrificata alla cucina quasi completamente. 
	Almeno...quella dei cuochi bravi. Forse avrei fatto il professore, o sarei 
	in qualche ufficio regionale (dato che avevo vinto da neolaureato anche un 
	concorso alla regione). Ma sono certo che, cuoco o professore o funzionario, 
	avrei scritto e descritto, avrei raccontato e ricercato... e alla fine forse 
	sarei finito di nuovo a fare il ...giornalista».
                    
                    Ti senti di fare un confronto tra il giornalismo di venti 
	anni fa e quello di oggi?
                    «Francamente non vedo grandi differenze. Era difficile ed è 
	difficile. C’erano ingerenze politiche e ci sono ancora. Era duro cominciare 
	il mestiere e lo è sempre. Ma facciamo assieme un ragionamento. C’è stato un 
	notevole sviluppo tecnologico: venti anni fa qualcuno usciva ancora con la 
	Arriflex e bisognava attendere lo sviluppo della pellicola, oggi si esce con 
	la telecamera Beta o la digitale. Ma dal punto di vista dell’interferenza 
	delle attrezzature sul lavoro giornalistico, non ci sono stati cambiamenti 
	sostanziali. Solo da poco stiamo cominciando a vedere in azione mezzi 
	tecnici così leggeri che possono non interferire con la situazione in cui si 
	agisce, con l’evento da riprendere, con l’emozione della persona da 
	intervistare. Ma le loro potenzialità vengono svilite, purtroppo, dalle 
	teorie produttive che ci si fanno sopra. Mi riferisco a chi immagina che 
	questi mezzi “leggeri” vengano usati non per migliorare il lavoro ma per 
	risparmiare sul lavoro, ipotizzando una sorta di giornalista da “one man 
	show”, che se la suona, se la canta e se la balla. Riprende con la 
	cinepresa, mette i microfoni, controlla l’illuminazione naturale o 
	artificiale che sia, scrive i testi e se li legge, fa le domande, risolve i 
	problemi pratici tipo guidare la macchina, ottenere i permessi, far firmare 
	eventuali liberatorie, pagare tasse e visti, si appunta nomi di persone, di 
	luoghi e di strade, telefona a sindaci o poliziotti, torna in redazione, 
	ricerca le immagini che servono per il pezzo dagli archivi e si monta da 
	solo il tutto, magari scegliendosi una musica adatta, se necessario. No, 
	grazie. Il cineoperatore è un mestiere preciso ed è un grande mestiere. Il 
	montatore è un altro ben preciso mestiere e altrettanto grande. Il producer 
	è una figura fondamentale in ogni tipo di produzione, dai reportage di 
	guerra ai documentari di storia. L’offerta di mezzi leggeri, quasi 
	invisibili, che la tecnologia ci sta iniziando a presentare, non serve a 
	risparmiare sul costo del lavoro di un’azienda. Serve (servirebbe) a 
	risolvere finalmente il problema dell’interferenza facendo evolvere il 
	linguaggio filmico di news ed inchieste.
                    Usare queste nuove possibilità solo per risparmiare 
	significa impoverire il linguaggio delle news televisive, fino a metterne a 
	rischio la vita stessa. Piccole emittenti di realtà locali, o piccole 
	emittenti tematiche, possono anche tentare di seguire questa strada del 
	giornalista tutto fare, proprio perché operano in una realtà ristretta. 
	Credo meno alle possibilità di effettuare inchieste con queste modalità 
	produttive per le grandi reti. Mi chiedo: sindacalmente il lavoro di chi 
	opera così come verrà tutelato? Si applicheranno contratti di lavoro e leggi 
	vigenti? Che possibilità di sviluppo, di crescita professionale avrà chi 
	opera con questo sistema? Sarà giustamente retribuito o sarà strangolato dal 
	teorema del massimo risparmio? Come potrà andare avanti se non riceverà 
	contributi da altre professionalità come il cineoperatore e il montatore? 
	Non si correrà il rischio di creare emarginati che potranno fare solo quel 
	mestiere e che non sapranno mai rapportarsi ad un montatore o ad un 
	operatore o, perché no, in lavori importanti anche ad un produttore?
                    Ecco, posso solo intravedere le differenze tra il 
	giornalismo televisivo di venti anni fa e quello che qualcuno oggi comincia 
	a ipotizzare per i prossimi anni».
                    
                    Come ci si sente a lavorare in un tg importante come il 
	tuo? È una bella responsabilità?
                    «Sì, è una bella responsabilità. Il Tg1 ti dà molto, 
	moltissimo. È un valore aggiunto su ogni tuo lavoro. Il Tg1 si porta 
	appresso una delle più grandi tradizioni televisive e delle più costanti 
	fedeltà d’ascolto del mondo e ogni volta le regala al tuo pezzo. Bisogna 
	rispettarle (tradizione e fedeltà) dando molto ad ogni servizio, ad ogni 
	speciale, ad ogni inchiesta. Quel valore aggiunto che il Tg1 ti dà 
	ogni volta è il frutto del lavoro decennale di tanti e tanti colleghi prima 
	di te: se non lo disperdi, se lo onori, sul piano professionale ne avrai 
	grandi vantaggi. Però devi anche tu fare la tua parte, anche tu devi dare, 
	devi lasciare qualcosa che accresca il valore aggiunto del Tg1. Non 
	puoi solo prendere. Sarebbe un furto. Certo, dal punto di vista della 
	fatica... si finisce per lavorare moltissimo! E con la tensione a mille!».
                    
                    Chi tra i tuoi colleghi, anche di altri tg, apprezzi di 
	più?
                    «Domanda piacevolmente perfida. All’inizio della professione 
	i più giovani osservano il lavoro dei colleghi più anziani, ma presto si 
	accorgono sulla loro pelle di una delle deformazioni professionali più 
	diffuse: prima o poi ogni giornalista finisce per credersi il migliore. 
	Alcuni, inoltre, sono convinti di aver fatto la scuola serale per essere 
	dio.
                    Andiamo oltre lo scherzo, ora. Se mi guardo attorno non 
	posso che apprezzare (e guardare con piacere) il lavoro di corrispondenti 
	come 
	Claudio Pagliara e 
	Antonio Caprarica, vedo quanta fatica c’è dietro la “leggerezza” (nel 
	senso adoperato da Calvino del termine) dei servizi di 
	Vincenzo Mollica (lo incrocio spesso, “il presidente”, sorridente, 
	carico di cassette negli anditi come me, come incrocio, sempre stracariche 
	di cassette, 
	Manuela Lucchini, riflessiva, Carlotta Mannu, spumeggiante). Vedo 
	quanto deve essere “presente” Fabio Zavattaro per fare il vaticanista 
	come lo fa lui. Ammiro la voglia di partire per conoscere e far conoscere, 
	ogni volta come la prima volta, di 
	Pino Scaccia, di 
	Tiziana Ferrario.
                    Fuori dal mio telegiornale mi piace come 
	Maria De Medici conduce il Tg3, ammiro la passione per tutto il 
	patrimonio artistico dei servizi di Fernando Ferrigno sempre sul 
	Tg3, trovo impeccabile la radio di Aldo Forbice. So quanta forza 
	di volontà c’è nelle colleghe che lavorano a Uno Mattina, nella 
	redazione cronaca... quante pagine ho ancora?
                    Ora che mi ci hai fatto pensare, in realtà sono tanti i 
	colleghi e le colleghe che apprezzo... sarebbe bene porsi questa domanda 
	(anche da soli, nell’intimità) più spesso!».
                    
                    Chi sono stati, se ne ha avuti, i suoi maestri?
                    «Ho avuto la fortuna di poter osservare dietro le quinte il 
	lavoro di Beniamino Placido quando faceva televisione e ho avuto il tempo di 
	poter assorbire tutto il possibile. Piero Melograni è per me un maestro 
	nella ricerca storica (anche lui con una particolare passione per il 
	documento audiovisivo). Giuseppe Carlo Marino mi ha insegnato a mettere 
	assieme anche cocci di documenti e parti di informazioni per tracciare un 
	quadro complessivo (fondamentale nell’analisi del fenomeno storico mafia). 
	Ho avuto la fortuna di osservare (e lavorare con) Lio Beghin mentre scriveva 
	scena per scena prime serate anche di tre ore. È stata una fortuna osservare 
	(e lavorare per) Angelo Guglielmi e il suo metodo di direzione. Ho passato e 
	ripassato le sequenze di Piero Angela per cercare di capire il suo metodo 
	nel parlare ai telespettatori. Un saggio pescatore di corallo, chiamato da 
	tutti Geppetto, che viveva nel Sinis, sul Capu Mannu, nel punto più ad ovest 
	della Sardegna, mi ha insegnato a staccarmi da tutto ciò e mi ha sempre 
	ricordato di osservare la vita senza portarmi sempre appresso il filtro 
	dell’elettrodomestico televisore. Così, la vita anche solo per godersela, 
	nel bene e nel male».
                    
                    Radio, tv e carta stampata: un aggettivo per ognuno di 
	questi mezzi di comunicazione
                    «La radio, divertente. La tv, abbagliante. La carta 
	stampata, indispensabile».
                    
                    Un consiglio a tutti coloro che vorrebbero intraprendere 
	questa carriera?
                    «Impossibile dare consigli. È diventato davvero troppo duro 
	intraprendere questa carriera. Posso dire di stare molto attenti ai bagliori 
	della tv. Non si può scegliere, decidere, in base a quelli. La realtà è che 
	ogni giorno bisogna produrre un pezzo. A volte bisogna cucinarlo per tre, 
	quattro, cinque, anche otto versioni diverse, con i nuovi aggiornamenti, per 
	le successive edizioni. E il giorno dopo si ricomincia. Certo ogni tanto 
	capitano i bagliori e magari anche qualche piccolo scoop. Ma se ci si ammala 
	di scoop è già finita! Allora il quotidiano del lavoro di giornalista 
	finisce col diventare insopportabile e voi per primi che avete preso la 
	professione dal lato sbagliato finite per diventare insopportabili. Ecco, mi 
	son fatto prendere la mano. Non è possibile dare consigli. Anche perché, nel 
	caso, sarebbero troppi. Posso però ricordare anche la seconda regola (finora 
	ho comunicato solo la prima,
                    alla gente interessa la gente). Ma anche la seconda, 
	se ci si riflette bene sopra, potrà essere utile: il pubblico è 
	sanguinario».