
Telegiornaliste 
									anno V N. 14 (185) del 13 aprile 2009
                               Maso Notarianni, raccontare 
								le storie di Erica 
								Savazzi
                               
                               Hotel Brufani, Perugia. Sono lì in occasione del 
								Festival del Giornalismo: cerco la sala 
								conferenze e mi ritrovo in un salottino con 
								angolo redazione. È la redazione di
                               
                               PeaceReporter in trasferta. «Quest’anno siamo 
								partner del Festival», mi dice
                               Maso Notarianni, il 
								direttore. Non si può di certo perdere 
								l’occasione per una intervista. 
                               
                               «Noi abbiamo una redazione di dodici persone tra 
								stagisti e redattori assunti, e ci sono anche 
								volontari che saltuariamente vengono a dare una 
								mano. Abbiamo una rete abbastanza grande di 
								collaboratori in giro per il mondo che non 
								vengono pagati: per fare PeaceReporter 
								guadagniamo pochissimo e lavoriamo moltissimo, 
								mi piace anche l’idea che i colleghi che 
								collaborano con noi diano una mano a sostenere 
								questo progetto, un progetto importante». 
                               
                               Un progetto di utilità “sociale”? 
                               «Sì, nel senso che purtroppo in Italia c’è un 
								modo di raccontare quello che avviene nel resto 
								del mondo che è abbastanza deprimente. Le 
								notizie si trovano, però un conto è dare la 
								notizia “ci sono stati 300 morti in 
								Afghanistan”, un conto è raccontare una storia 
								dell’Afghanistan, sono due cose diverse che 
								hanno due effetti diversi. Raccontare una 
								storia, mettere in comunicazione diretta il 
								lettore con i fatti, renderli vicini a chi legge 
								fa comprendere una notizia, nel senso 
								etimologico del termine (contenere in sé, ndr). 
								Dare una notizia e basta non serve a niente». 
                               
                               Un esempio? 
                               «L’11 settembre. È diventato un pezzo di storia, 
								di cultura, un fatto che in qualche modo 
								condiziona la nostra vita e la nostra esistenza 
								ancora oggi perché è stato raccontato bene, 
								perché ci hanno raccontato le storie della gente 
								che l’ha subito, perché ci hanno fatto vedere 
								che cosa significa subire un atto di guerra: ci 
								hanno portato in casa la vita e la morte di chi 
								l’ha vissuto. Al contrario è clamoroso l’esempio 
								della crisi: si fanno vedere le banche e i 
								consigli di amministrazione, mai che ci sia un 
								reportage per esempio sul distretto delle 
								piastrelle della Romagna». 
                               
                               Riccardo Iacona ne ha parlato. 
                               «Ma è una cosa di nicchia. Il difetto che ha 
								anche un po’ PeaceReporter e con il quale io 
								combatto furiosamente ogni giorno è che è 
								inutile parlarci tra noi. I giornalisti hanno o 
								dovrebbero avere un ruolo fondamentale: quello 
								di dare alle persone gli strumenti per farsi 
								delle opinioni, fare delle scelte, quindi 
								vivere. La notizia in sé non è uno strumento 
								perché spesso non vengono capite, come appunto 
								le statistiche, le cifre, i fatti secchi». 
                               
                               A volte è difficile spiegare, soprattutto in 
								poco tempo e in poco spazio. 
                               «Non dico che bisogna spiegare la geopolitica, 
								quello che sto dicendo è che se dici “ci sono 
								stati venti morti per un attentato” un italiano 
								non sa cosa vuol dire perché venti morti per 
								fortuna non li ha mai visti. Allora, se uno dice 
								che in Congo c’è una aspettativa di vita bassa, 
								che vuol dire? Non vuol dire niente. Se ti 
								racconto la giornata di un congolese che si 
								sveglia la mattina e la sera non sa se sarà 
								vivo, non avrà la moglie o ce l’avrà ancora, è 
								molto diverso, e chi legge capisce che cosa vuol 
								dire vivere in Congo». 
                               
                               Quindi i corrispondenti. 
                               «È fondamentale avere tanti corrispondenti locali 
								che ti raccontano la notizia vista con gli occhi 
								di chi è lì. È molto importante anche il modo in 
								cui viaggiamo: noi abbiamo sempre uno o due 
								redattori in giro per il mondo a fare servizi, 
								ma non andiamo mai in albergo, siamo sempre 
								ospiti da locali e quindi viviamo insieme a loro 
								le situazioni che raccontiamo. È molto diverso 
								da andare al Palestine (l’hotel dei giornalisti 
								a Baghdad, ndr) e guardare le agenzie». 
                               
                               Stampare PeaceReporter è una scelta 
								controcorrente. 
                               «Vero. il primo motivo è che in Italia moltissimi 
								non usano internet. Il secondo motivo è che 
								internet è uno spazio infinito o quasi, ma in 
								realtà ti costringe alla sintesi estrema perché 
								la lettura è faticosa. La lettura su carta è 
								meno faticosa e quindi un reportage è di 15.000 
								battute, mentre su internet è di 5.000, sempre 
								che si legga fino in fondo. È un altro 
								linguaggio, un altro modo di comunicare. Noi 
								stiamo facendo anche audio e video: cerchiamo di 
								comunicare il più possibile, che poi è il lavoro 
								del giornalista». 
                               
                               Sei stato in America Latina, Iraq, 
								Afghanistan, Medio Oriente: hai una preferenza?
                               
                               «Forse l’America Latina. Intanto sono più simili 
								dal punto di vista culturale perché alla fine 
								vengono dall’Europa. Il ceppo europeo si è 
								innestato su una cultura straordinaria che è la 
								cultura indigena, che ha un rapporto col mondo 
								molto diverso dal nostro, di grande rispetto, di 
								grande scambio con l’ambiente e con la terra. 
								Questa sintesi tra Europa e cultura indigena 
								americana secondo me è straordinaria. Poi in 
								realtà le persona sono belle dappertutto, la 
								gente – ed è quello che vorrei comunicare con 
								PeaceReporter – è simile, ha gli stessi problemi 
								di base, che sono dormire, mangiare, riprodursi 
								e cercare di vivere un po’ meglio». 
                               
                               Cosa pensi della crisi economica? 
                               «A me dispiace perché ovviamente colpisce i più 
								deboli, dopodiché credo fosse inevitabile e 
								anche sana: non può reggere una situazione in 
								cui 300 famiglie controllano il 97% della 
								ricchezza del mondo. È ovvio che a un certo 
								punto questo giochino salti, non ci può essere 
								uno squilibrio così nella gestione della 
								ricchezza. Di solito poi dalle crisi si esce 
								migliorando». 
                               
                               Nel sito promuovete l’iniziativa Io non ti 
								denuncio contro la possibilità che i medici 
								denuncino gli immigrati irregolari. 
                               «Ci siamo attivati direttamente perché pensiamo 
								che sia assolutamente indecente che 
								l’abbruttimento della società contemporanea 
								arrivi a coinvolgere anche una cosa sacra come 
								il diritto alla salute. I medici con giuramento 
								di Ippocrate giurano anche sulla riservatezza e 
								sulla loro totale dedizione alle cure a 
								nient’altro: chiedere ai medici di farsi parte 
								di un sistema di esclusione così violento ci è 
								sembrato scandaloso. Mi spiace solo che non se 
								ne parli abbastanza: ci sono stati un paio di 
								morti, c’è stato il caso di una
                               
                               donna che ha partorito e le hanno portato via 
								il figlio. È davvero indecente».