Telegiornaliste anno III N. 45 (123) del 10
dicembre 2007
Mimmo
Liguoro: «Il giornalismo vive un'epoca di
transizione»
di Mario Basile
Ventiquattro
anni alla conduzione dei telegiornali della
tv di Stato, al Tg2 e al Tg3.
In mezzo, tante trasmissioni di
approfondimento: da Pegaso, la
prima in assoluto nel panorama dell'informazione
italiana, a Gulliver passando per la
rubrica mattutina del Tg2 e quella
culturale del Tg3.
Tutto questo è
Mimmo Liguoro, uno dei volti più noti
del giornalismo televisivo italiano.
Telegiornaliste l'ha incontrato
all'Università di Salerno in occasione della
presentazione alla stampa del libro
Dizionario del giornalista di
Salvatore Biazzo.
Quanto è importante un libro come Dizionario del
giornalista per chi comincia ad
affacciarsi a questo mestiere?
«Molto importante. Siamo in un'epoca di
transizione, qualcuno la chiama perfino
rivoluzione. A dire il vero ci sono già i
presupposti per una nuova fase che si basa
sulle innovazione tecnologiche, quali sono i
blog e il web in generale. Allora, un
Dizionario del giornalista serve a far
entrare la mente di ciascuno in questo nuovo
universo fatto di termini tecnici e
scientifici che rappresentano, però, tutto
il mondo dell'informazione. E' utile sia per
la conoscenza immediata che per la
conoscenza storica. Infatti, vanno anche
ricordati i termini della tv e della carta
stampata: quelli che si utilizzano ancora e
quelli oramai in disuso».
E' stato per anni un volto del Tg, prima a Rai2 poi a
Rai3. Quanto è cambiato il linguaggio
televisivo dai suoi esordi fino ad ora?
«E' cambiato tantissimo. In questo senso trovo
importante soffermarmi sulla velocità e
sulla sintesi. Prima c'erano telegiornali
che indugiavano molto sulla notizia: il
cronista poteva parlare a lungo. Esempio
lampante sono i collegamenti da New York del
grande Ruggero Orlando che duravano anche
cinque o sei minuti. Adesso non è più
possibile, bisogna stringere e sintetizzare.
E il cambiamento di linguaggio significa
anche cambiamento tecnico, perché si usano
parole diverse e abbreviate. Quasi un
"dialetto" televisivo che prima non
esisteva».
Oggi insegna giornalismo televisivo alla Scuola di
Giornalismo di Salerno. Da osservatore
esterno come giudica i telegiornali
italiani?
«Beh, qui andrebbe fatto un discorso molto lungo
e articolato. Diciamo che nel complesso il
mondo dei tg, come è sempre accaduto del
resto, conosce alti e bassi. Alcuni
piacciono di più, altri meno, ma questo lo
decide sempre il pubblico. Da un punto di
vista tecnico direi che il livello è buono,
anzi eccellente, rispetto anche agli altri
Paesi. Il problema vero sono i contenuti.
Però qui scivoliamo sempre nel solito
discorso dell'obiettività e dell'etica
dell'informazione, il tema della libertà che
poi ognuno giudica a suo modo».
Poco tempo fa l'informazione italiana ha perso un grande
voce: Enzo Biagi. Secondo lei c'è qualcuno
che può raccoglierne il testimone?
«Enzo Biagi era un personaggio unico come tutti
i grandi giornalisti che lasciano una
traccia indelebile ed è difficile copiarli o
imitarli. Io direi di lasciare Biagi
collocato nel posto che la storia del
giornalismo gli ha assegnato. Quanto agli
eredi, staremo a vedere».